In occasione dell’uscita di Siracusa, l’imperdibile romanzo estivo di Delia Ephron, abbiamo chiesto alla traduttrice Enrica Budetta di raccontarci cosa ha significato per lei tradurre questo libro.
Siracusa. Di Delia Ephron. Quando, poco più di un anno fa, ho ricevuto una mail dalla caporedattrice di Fazi, che mi proponeva di tradurre questo libro, pubblicato negli Stati Uniti nel 2016 e di cui la casa editrice aveva da poco acquisito i diritti per l’Italia, sono rimasta spiazzata.
Il motivo del mio disorientamento era tutto nel titolo e nel nome dell’autrice. Da un lato, infatti, mi spaventava l’ambientazione italiana: come ha spiegato Federica Aceto in un divertente post apparso sul suo blog, L’Italia tradotta in italiano, «molti di noi traduttori, quando ci troviamo a lavorare con un testo contenente riferimenti all’Italia e all’italiano ci infiliamo l’elmetto e ci prepariamo alla guerra», perché sappiamo che ci troveremo di fronte, se non proprio a errori marchiani, almeno a una serie di «luoghi comuni da cartolina di sessant’anni fa (tutti hanno una Vespa o una Cinquecento, tutti gesticolano e cantano una canzone d’amore mentre mangiano la pizza in una gondola, tutte le donne sono Sophia Loren e tutti gli uomini Marcello Mastroianni)». Temevo insomma che nel libro potessero trovare spazio aitanti pescatori siciliani che sbattevano polipi sugli scogli di Ortigia prima di addentarli, magari mentre calzavano un bel paio di furlane di velluto da gondoliere. Dall’altro lato, però, c’era quel nome, anzi quel cognome: lo stesso di Nora, la sorella maggiore di Delia morta nel 2012, una scrittrice, sceneggiatrice e regista per la quale ogni aggettivo, per quanto iperbolico, sembra inadeguato. Di Nora Ephron avevo letto molto e avevo visto tutto, ma non ricordavo che avesse una sorella a sua volta scrittrice e sceneggiatrice. Una rapida ricerca mi è bastata per scoprire che le due avevano collaborato a tante delle sceneggiature a cui associavo solo il nome di Nora, che le loro vite erano contigue, aggrovigliate, in un rapporto fatto di amore e rivalità, come credo capiti spesso tra sorelle, al punto che Delia ha scritto: «Le nostre parole e i nostri pensieri sono mischiati nella vita e nei film ai quali abbiamo lavorato insieme. […] Prendevamo in prestito battute l’una dall’altra come le altre sorelle fanno con i vestiti».
L’unico modo per togliermi di dosso i dubbi e le aspettative era leggere il libro: a quel punto ho scoperto che i primi erano infondati e le seconde ben riposte.
Siracusa racconta il viaggio in Italia di due coppie di americani, Michael e Lizzie da New York e Finn e Taylor da Portland, nel Maine, che sono accompagnati anche dalla figlia di dieci anni, Snow. I cinque fanno prima tappa a Roma, per poi raggiungere, per motivi che verranno chiariti solo alla fine del libro, Siracusa, una meta meno scontata di tante altre per i turisti d’oltreoceano. Nella descrizione delle due città da parte di Delia Ephron non c’è niente di stereotipato. Non solo perché l’autrice dimostra di conoscere davvero l’Italia e la sua cultura, anche quella contemporanea («È Jovanotti. Lorenzo Jovanotti. […] Qui è famoso come Kanye», dice a un certo punto uno dei personaggi, commentando una canzone che esce dalle casse di uno stereo), senza quindi costringere il traduttore a doversi ingegnare per capire come gestire inesattezze che al lettore italiano sfuggirebbero meno facilmente che a quello americano, ma soprattutto perché riserva alle ambientazioni la stessa precisione, lo stesso sguardo ironico e meravigliosamente cinico con cui traccia la psicologia dei suoi personaggi. E così, mentre ci mostra le debolezze, le bugie, gli autoinganni di questi ultimi, colti in una condizione molto peculiare – quel tipo particolare di infelicità che provano le parti di una coppia tenuta insieme da motivi che con l’amore e l’attrazione sessuale c’entrano poco, acuita dal senso di isolamento di un viaggio a migliaia di chilometri da casa – vediamo anche quello che si nasconde dietro gli scorci da cartolina delle nostre città: su un ponte di Roma, tra statue incombenti e minacciose, Finn si ritrova accanto a un ambulante «i cui portafogli erano allineati su un lenzuolo in quella città antica che non si lascia mai sfuggire l’occasione di raggirare i turisti»; per raggiungere il centro storico di Siracusa, Ortigia, bisogna attraversare zone che sono tutt’altro che pittoresche: «Tutto il resto sembrava costruito di recente, o ricostruito, con materiali di scarsa qualità, senza uno stile ben definito, probabilmente durante gli anni Settanta». E, come preannuncia la sorprendente rilettura della Dolce vita, che avviene in mezzo al chiasso, la pacchianeria degli esercizi commerciali delle strade che conducono alla Fontana di Trevi, la sciatteria dei turisti e gli onnipresenti gingilli luminosi lanciati in aria dai venditori ambulanti, ineludibile contraltare alla magnificenza del monumento, la commedia scivola inesorabilmente nella tragedia, che raggiunge il culmine appunto a Siracusa, la città del teatro.
In mezzo a tutto questo c’è la maestria della sceneggiatrice consumata nella costruzione dell’intreccio, c’è una scrittura elegante, precisa, densissima, che è stata una sfida e un piacere rendere in italiano, c’è la capacità di restituire quattro voci e quattro personalità completamente diverse, c’è l’ironia di chi con una battuta fulminante riesce a sottolineare certi atteggiamenti dei propri connazionali all’estero e ancora di più quelli dei propri simili, gli intellettuali del milieu culturale newyorkese. C’è, soprattutto, una conoscenza profonda dei meccanismi dei rapporti di coppia e la capacità di mostrarli portando l’attenzione dei lettori su un dettaglio apparentemente insignificante, un tic, la scelta dei personaggi di dire qualcosa o di tacerla. A questo proposito, una volta in un’intervista Nora Ephron ha detto di sé: «Non so se gli altri pensano che io sia un’esperta in rapporti di coppia. Ma lo sono di certo». Siracusa dimostra che la definizione si può applicare, con altrettanta sicurezza, anche a sua sorella Delia.
Enrica Budetta