Tradurre «Un matrimonio non premeditato» di Rebecca West

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In occasione dell’uscita di Un matrimonio non premeditato, il traduttore Stefano Tummolini racconta il romanzo di Rebecca West.

 

Un matrimonio non premeditato, forse, dovrebbe avere un altro titolo. Quello originale, ispirato a una frase di Blaise Pascal, era The thinking reed – ovvero “Il giunco pensante”. L’uomo, dice Pascal, è fragile come un giunco, ma è anche consapevole di esserlo: proprio come la protagonista del romanzo, che dopo la prematura morte del marito ha lasciato gli Stati Uniti per cercare distrazione in Francia. Isabelle – questo il suo nome, che è anche il secondo della West – ci viene subito descritta come “bella” e “di una ricchezza quasi esagerata”. Sappiamo anche che ha ventisei anni, “due meno del nuovo secolo”: siamo dunque nel 1928, alla vigilia della grande crisi economica che sconvolgerà l’occidente. Ma il mondo a cui appartiene il nostro giunco, quella café society che presto si trasformerà in jet-set, non sembra presagire il terremoto. La sua unica preoccupazione è la noia, cui cerca di sottrarsi fuggendo da Parigi in Costa Azzurra oppure a Le Touquet. I sintomi del disagio sono evidenti: uomini e donne con cui la natura e la sorte sono state più che generose consumano i loro giorni tra feste scintillanti e svaghi di ogni tipo, senza trovare pace.

Potevano dormire, ma non così a lungo; gli era impossibile protrarre all’infinito colazione e pranzo; se facevano l’amore da mattina a sera, nei giorni successivi il tempo da ingannare aumentava; e se spettegolavano più del dovuto, li coglieva uno sgradevole senso di vuoto, simile al fiato corto di un nevrotico… In quell’aria così corroborante, potevano passare ore e ore a scongiurare il rischio che un solo pensiero li attraversasse. Ma quando il giorno consumato li spingeva invano, esausti, a far ritorno a casa, trovavano ad attenderli le angosce di sempre.

Isabelle si sente parte di quel mondo, ma allo stesso tempo lo detesta. Ne coglie tutta l’assurdità e la sgomenta il fatto che i suoi abitanti possano accettarla come se nulla fosse.

Quando certe persone dichiaravano impassibili che il mondo in cui vivevano era quello, e che l’avevano accettato, e che accettandolo ne perpetravano l’esistenza, l’umanità di colpo le appariva come un folle che sorride appena prima di gettarsi dalla finestra, o una civetta scellerata che avvicina la candela alla sottana di organza; e a spaventarla non era solo il pensiero di quello che poteva aspettarsi dai suoi simili, ma anche il fatto che fosse l’unica a pensarci.

Il giunco pensante, allora, cerca consolazione nell’amore. Ma non varcando mai i confini del suo mondo, resta puntualmente deluso. Il primo incontro è con André, giovane e affascinante rampollo della buona società, tanto focoso quanto vacuo. Isabelle ne è attratta ma sa che può offrirle solo una passione fine a se stessa, fatta di sceneggiate, strepiti e isteria. Così lo lascia per un uomo che in apparenza sembra tutto l’opposto. Laurence è quello che oggi definiremmo un “radical chic”: legge Platone e Lucrezio, odia la volgarità e combatte “contro ogni tentativo di assoggettare il popolo alla stessa, scellerata industrializzazione che ha trasformato gli Yankee nei grigi automi che sono diventati”. Ma in fondo anche lui appartiene a quel mondo, ed è ossessionato dalla paura di perdere la sua “rispettabilità”. Questo secondo fallimento induce Isabelle ad accettare frettolosamente la proposta di Marc Sallafranque, un giovane industriale che produce automobili.

Sì, Marc era un grand’uomo o, se non altro, un grande industriale. Ma era anche un bambino. Le finzioni sociali lo ingannavano completamente. Credeva ciecamente a chiunque, sia che fosse un domestico che lo informava che il padrone di casa non c’era, o una signora che gli diceva di aver disertato il ricevimento di sua madre per un’emicrania. Di conseguenza, quando qualcuno si diceva felice di incontrarlo, lui non dubitava che, vedendolo, fosse rimasto trafitto da un “frisson” di piacere…  

L’ingenuità di Marc, unita alla sua intemperanza, finirà col condurre anche lui verso gli eccessi tanto detestati da Isabelle, con conseguenze drammatiche. Ma proprio in questa “caduta”, il giunco pensante riconoscerà un segno di appartenenza. Tra i campi da golf di Super-Cannes, sulle piste da sci di Saint Moritz o al tavolo del baccarà del casinò di turno, Marc si sente “inadeguato” come lei. Eppure è quella la loro casa, è lì che devono trovare un senso alla vita: e forse, sostenendosi l’un l’altra, possono riuscirci. La contraddittorietà dell’atteggiamento di West rispetto al mondo e ai personaggi che descrive si riflette in modo cristallino anche nel suo stile. I lunghi brani in cui stigmatizza le perversioni della bella gente d’inizio secolo, così complessi, ricercati e preziosi, tradiscono una sufficienza irrimediabilmente gaté. Ma la vita, e l’amore, sono un coacervo di contraddizioni, come testimoniano gli ossimori dell’ultima riflessione della protagonista:

Le venne in mente che la differenza tra gli uomini e le donne è lo scoglio su cui s’infrangerà la civiltà, prima di raggiungere uno scopo che possa giustificare i suoi sforzi. E capì anche che la vita le sarebbe stata insopportabile se Marc non fosse stato lì con lei, a stritolarle le manine con le sue ditone corte e forti.

Per questo, forse, il titolo italiano del romanzo non è improprio. Il matrimonio, per una donna ricca come Isabelle, è il traguardo che sancisce l’appartenenza alla società dei privilegiati. In quanto tale, dunque, deve rispondere a dei parametri che solo un’accorta riflessione può garantire. Sceglierlo in modo irrazionale e precipitoso – “non premeditato”, appunto – significa contravvenire a certe regole: e proprio disobbedendo, finalmente, il giunco trova il suo posto in palude.

 

Stefano Tummolini

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