Tradurre «Va tutto bene, signor Field» di Katharine Kilalea

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Kilalea

In occasione dell’uscita di Va tutto bene, signor Field, Silvia Castoldi ci parla della sua esperienza di traduzione con il romanzo di Katharine Kilalea.

 

Un pianista ha un incidente ed è costretto a interrompere la carriera. Lui e la moglie si trasferiscono in Sudafrica e vanno a vivere in una casa costruita da un architetto ispirandosi alla Villa Savoye di Le Corbusier. Qualche settimana dopo il loro arrivo la moglie lo lascia e se ne va, per motivi che non vengono mai chiariti. Il protagonista sprofonda lentamente in una sorta di apatia, che poco per volta si trasforma in un’ossessione per Hannah Kallenbach, la precedente abitante della casa. Il signor Field la segue senza farsi vedere, si nasconde tutte le sere nel giardino della sua nuova casa e ascolta le sue conversazioni con un uomo di cui non sappiamo nulla, nemmeno il nome. E proprio dall’ascolto di una di queste conversazioni, oltre che dall’incontro con un cane, deriverà una svolta che sembrerà riavvicinare il protagonista alla vita.

Questo è il romanzo di esordio di una poetessa passata alla prosa, e il suo andamento non narrativo ne è probabilmente una conseguenza, così come il gusto che l’autrice e il suo protagonista provano nel giocare con le parole e il loro suono. Man mano che l’autrice scava in quel vuoto che è il focus del romanzo, la sua prosa assume un ritmo spesso ipnotico, con periodi lunghissimi, dall’andamento oscillante, che ricorda quasi il rumore delle onde del mare. “Forse era una sensibilità da musicista quella che mi spingeva a prestare più attenzione al suono delle parole che al loro significato. Non riuscivo nemmeno a leggere un romanzo, perché ben presto mi ritrovavo invariabilmente a metà di una frase o di un paragrafo senza la minima idea di dove fossi arrivato o di cosa fosse successo prima. Seguire una trama o un gruppo di personaggi richiedeva un tipo di ginnastica mentale di cui il mio cervello sembrava incapace”.

Ed è proprio l’amore per il suono delle parole a imporre al traduttore un diverso tipo di ginnastica mentale, per cercare di riprodurre nella lingua di arrivo i giochi e le assonanze dell’originale. Mi riferisco, per esempio, a quando il protagonista si chiede perché tanta gente ami guardare il mare, e ho tradotto what do they see when they see the sea con “cosa mirano quando mirano il mare”. Ma soprattutto a quando il signor Field ascolta nascosto nel giardino le conversazioni tra Hannah Kallenbach e il suo visitatore, e non sempre riesce a sentire bene le parole. “La mancanza di chiarezza mi disorientava, ma lasciava spazio alla fantasia. A volte i miei fraintendimenti erano talmente intriganti che, invece di voltare il viso verso il vetro per sentire meglio, mi giravo dall’altra parte, come per aiutare le parole a perdere la propria forma. Mi piaceva il modo in cui le orecchie mi tradivano. Lasciava a quelle voci disincarnate la libertà di dire ciò che volevo sentirgli dire. Di lì a poco i miei tentativi falliti di capire smisero di essere una fonte di frustrazione e si trasformarono in un motivo di piacere”.

Le assonanze elencate dal protagonista hanno quindi un duplice aspetto, legato sia alle somiglianze effettive tra le parole, sia alle libere associazioni semantiche, più o meno consapevoli, che le accompagnano; il traduttore ha il compito di valutare di volta in volta quale tra questi aspetti pesi di più e vada quindi privilegiato nella resa.

Così, per Crikets-tickets ho scelto insetti-biglietti; per weight-wait pesa-attesa (l’attesa che pesa al protagonista); per dog-fog cane-frane, con uno slittamento di significato che però conserva il riferimento alle avverse condizioni del tempo atmosferico e alle loro conseguenze; per deluge-delude inondazione-fissazione, per conservare, oltre al riferimento atmosferico, anche il significato di “delude” (delirio, mania, fissazione) che rimanda allo stato mentale del protagonista; con uno slittamento di significato più netto per mist-missed ho scelto foschia-follia; mentre per toupee-to pay ho deciso di conservare il significato del verbo e sostituire la prima parola, privilegiando la rima: ecco quindi vagare-pagare (il protagonista teme di dover pagare per il suo illecito vagare). Per writer-rider il testo mi imponeva di tradurre rider con “cavaliere”, perché proprio un cavaliere è il protagonista dell’episodio narrato dal visitatore di Hannah Kallenbach nel capitolo successivo, perciò ho optato per cameriere-cavaliere.

Nelle ultime pagine del romanzo il signor Field si rende conto “in un’improvvisa, vertiginosa consapevolezza” che al centro del suo essere non abita, come aveva creduto per tanti anni, “una qualche concreta presenza aliena – come un tumore molto profondo”, “bensì un buco”. Il suo è un corpo con “uno spazio al suo interno, uno spazio in cui si possono mettere cose”.

È questa l’immagine attorno a cui ruota la narrazione: il protagonista porta dentro di sé un vuoto, un buco, nel punto in cui di solito si trova il sé. Questo buco è presente da sempre, come apprendiamo all’inizio dalle parole di uno spettatore che descrive il suo ultimo concerto, e anche in seguito, quando scopriamo che da piccolo il signor Field voleva suonare l’oboe, ma la madre, “che trovava sgradevole all’orecchio il suono dell’aria spinta attraverso un buco piccolissimo” gli “aveva invece comprato un pianoforte”: perfino la sua carriera di musicista è in realtà un guscio vuoto, un travestimento, qualcosa che non gli appartiene davvero, e a cui sembra infine rinunciare senza troppi rimpianti. “Nessuno vuole ascoltare le tue difficoltà e i tuoi dolori”, gli dice la madre, “le tue difficoltà e i tuoi dolori sono noiosi”; e forse sono proprio queste parole a obliterare, cancellare il sé del figlio, ad aprire il buco al centro del suo essere.

Ed è proprio perché il protagonista porta dentro di sé un buco; proprio perché non solo non conosce se stesso, ma teme che non ci sia nessuno da conoscere, che questo è un romanzo in cui quasi nulla accade: non è “una storia in cui la sequenza degli eventi si muove sempre in avanti”, ma al contrario “la storia del mio tempo con Hannah Kallenbach – perché era una storia, ed era una storia sul tempo – era impermeabile al trascorrere del tempo.” “Perché a differenza di quanto avviene in una storia, dove non ci si può mai perdere (perché dall’arco narrativo o dal numero di pagine che rimangono da leggere è sempre ovvio che ci si trova o all’inizio, o nel mezzo eccetera), le mie visite ad Hannah Kallenbach erano sempre, assolutamente identiche” al punto che “non era mai possibile stabilire in che punto mi trovassi rispetto al finale”.

E il finale, dopo la presa di coscienza di quel vuoto da riempire, rappresenta forse l’unico vero colpo di scena: il protagonista accetta di provare amore per un cane, e in tal modo riesce a riempire il vuoto al centro del suo essere e a riprendere a vivere.

 

Silvia Castoldi

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