«Weyward» di Emilia Hart

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Nella campagna della Cumbria c’è qualcosa di magico. Ci ho vissuto nel 2020 e me ne sono innamorata: le colline viola di erica spazzate dal vento; i boschi così bui e fitti da sembrare tunnel. È un posto pieno di pace, sì, ma anche di forza: vibra di un’energia singolare, antica. Se guardi con attenzione l’immobilità, noti il movimento: la superficie di uno stagno che scintilla di damigelle; i corvi che si levano d’un tratto in volo da una quercia. È stato il mio rifugio durante un periodo di grande incertezza per tutti noi: la pandemia. Percorrendo quei sentieri sinuosi, passando accanto ai cespugli accesi dai colori dei fiori selvatici, ho avvertito una pace sconosciuta. Sono riuscita a fare i conti con alcune esperienze dolorose del mio passato come non ero mai riuscita a fare quando vivevo in città.

Ho scoperto che a volte i luoghi sono pieni di forza. O forse ci sono luoghi che ci aiutano a trovare la nostra, di forza. Questo è stato il seme che ha condotto a Weyward.

Quando Kate fugge dalla sua vita da reclusa a Londra, si lascia alle spalle anche le convinzioni che aveva su di sé. Al Weyward Cottage, tra gli uccelli e gli insetti, si rende conto di non essere debole. Di non essere patetica. Lei è forte – l’ultima di una stirpe di donne forti – e questa nuova consapevolezza di sé la mette in condizione di liberarsi dal suo maltrattatore.

C’è, naturalmente, una fonte d’ispirazione più tetra dietro questo romanzo. Quando vivevo nella Cumbria sono venuta a sapere dei processi alle streghe di Pendle, che si svolsero nella vicina Lancaster nel 1612. In seguito a quei processi, nove persone – perlopiù donne – vennero giustiziate. Questo è solo uno dei molti esempi della convulsa caccia alle streghe che dilagò in Europa e nel Nord America dal quindicesimo al diciottesimo secolo. Che genere di donna, mi sono chiesta, avrebbe dovuto fronteggiare un’accusa di stregoneria? Altha vive ai margini della società inglese del diciassettesimo secolo. Si oppone ai tentativi di controllo da parte degli uomini, e questo la rende pericolosa.

La misoginia con cui ha a che fare Violet negli anni Quaranta è, naturalmente, molto diversa da quella affrontata da Altha nel 1619. Scrivendo la storia di Violet volevo gettare luce sull’oppressione che le donne vivevano a metà del ventesimo secolo, dalle diagnosi d’isteria, all’accesso limitato all’aborto, alla minaccia rappresentata dalla violenza sessuale maschile. E volevo dare vita a un personaggio che, nonostante questi ostacoli, riesce a diventare artefice del proprio destino.

Si tratta di argomenti cupi, certo. Ma esattamente come Kate scopre la propria forza portando alla luce le storie delle donne che l’hanno preceduta, sono convinta che oggi noi possiamo fare lo stesso. Abbiamo moltissimo da imparare dalle nostre antenate, e l’una dall’altra.

Spero che Kate, Violet e Altha v’ispirino a trovare la forza che è dentro di voi.

 

Emilia Hart

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