Daniela De Lorenzo racconta la sua esperienza con la traduzione di Norferville, l’ultimo thriller di Franck Thilliez.
«Sa, c’è una parola che in innu non esiste. Che non si può tradurre».
«“Colonia”?».
«“Libertà”. Era un concetto che non aveva ragione d’essere in questo popolo. I miei antenati hanno sempre vissuto in spazi privi di recinzioni, privi di frontiere. Non rinchiudevano nemmeno gli animali. L’unico modo per tradurre “libertà” è dire “fine della reclusione”. Apikunakanu».
Apikunakanu è una parola in innu, una delle lingue parlate nelle riserve indiane del Québec, il luogo in cui Franck Thilliez ha ambientato il suo ultimo romanzo. Siamo nel profondo Nord canadese e per raggiungere la cittadina mineraria di Norferville bisogna saltare a bordo dello Tshiuetin, il leggendario treno che si ferma «seguendo il ritmo delle richieste, senza alcuna fretta».
Una filosofia che avrei volentieri fatto mia per tradurre Norferville, senza fretta, godendomi il viaggio, guardando fuori dal finestrino di tanto in tanto. Il mio personalissimo Tshiuetin si è visto invece costretto a sfrecciare come non mai per riuscire a stare al passo con la pubblicazione francese.
Oltre alla consegna in tempi strettissimi è stato necessario partire da bozze non definitive, l’incubo di ogni traduttore. Una combo letale, dunque, compensata per fortuna dalla consapevolezza di avere a che fare con un autore scrupoloso. Thilliez definisce “bozza” quella che per qualcun altro sarebbe già una versione definitiva. Le variazioni tra una stesura e l’altra – tre in totale – si sono rivelate infatti minime e riguardavano più che altro rifiniture stilistiche. Nei rari casi in cui apportavano invece una vera modifica di contenuto mi hanno permesso di capire qualcosa in più sul suo modus operandi.
Mentre traducevo i primi capitoli – come potrà facilmente immaginare chi non è nuovo alle sue opere – annotavo ogni minimo numero, ogni minima informazione o parola vagamente “sospetta”, in un’accezione tutta thillieziana del termine, alla ricerca di collegamenti e intrecci tra le righe, nel tentativo di stanare il dettaglio rivelatore. Ma più andavo avanti e più mi rendevo conto di avere tra le mani una materia diversa da quella che mi ero aspettata.
Piccolo spoiler: in Norferville, Thilliez ha deciso di stupire i suoi lettori in un modo tutto nuovo. Niente menti amnesiche o ipermnesiche. Niente conteggi o enigmi (se non quello, chiaramente, di scoprire chi è l’assassino/a). Nossignore. Il maestro Franck ha deciso, out of the blue, di regalarci un romanzo d’atmosfera, meno cervellotico e molto più “sensoriale”, in cui il freddo canadese la fa da padrone. Un romanzo galvanizzante quanto i precedenti, ma per ragioni diverse. Si avverte l’urgenza di raccontare una storia che sta particolarmente a cuore, il desiderio di spalancare una finestra su un mondo poco conosciuto in Europa, su una realtà sordida di cui non si è parlato e non si parla tuttora abbastanza. E questa spaventosa Norferville immaginaria assume, pagina dopo pagina, contorni sempre più netti, insinuando il dubbio che sia molto più reale di quanto non appaia.
I mostri si annidavano ovunque, anche negli angoli più remoti. Il Male non aveva confini, né gerarchie, colpiva tutti, abitava tutti.
Daniela De Lorenzo