Le perdenti della Storia: Le streghe di Manningtree

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Velia Februari, traduttrice di Le streghe di Manningtree, racconta il suo lavoro di ricerca e di ricostruzione linguistica alla base della traduzione dell’esordio di A.K. Blakemore.

 

Ci sono personaggi che la Storia consegna alla memoria umana e salva dall’oblio. Questi personaggi sono i vincitori, i protagonisti della Storia. Spesso, sono uomini. E poi ci sono altri personaggi, storicamente esistiti, che soltanto attraverso e grazie alla Letteratura riescono a uscire dall’oblio. Sono i perdenti. Anzi, le perdenti, perché, spesso, sono donne. In questo caso, streghe. La figura della strega è andata affermandosi nell’immaginario contemporaneo come simbolo del potere femminile, sacro e spirituale, perseguitata dagli uomini perché assetata di conoscenza, depositaria di una saggezza pagana, considerata pericolosa perché creatura avvolta dal mistero, o più spesso perché donna indipendente e libera.

La prima domanda che mi sono posta quando ho iniziato a tradurre Le streghe di Manningtree è stata: «Chi erano, esattamente, le streghe?». Da qui è iniziata una fase di ricerca e documentazione che, per ragioni di tempo, è stata limitata a tre testi storico-scientifici che mi sono stati indicati da esperti in materia e mi hanno accompagnato durante tutta la lavorazione del testo. Mi riferisco a Diaboliche, maledette e disperate. Le donne nei processi per stregoneria (secoli XIV-XVI) e Non lasciar vivere la malefica. Le streghe nei trattati e nei processi (secoli XIV- XVII) della professoressa Dinora Corsi, e Sanare e maleficiare. Guaritrici, streghe e medicina a Modena nel XVI secolo della professoressa Domizia Weber, tre saggi contenenti materiale autentico a cui mi sono ispirata per la traduzione delle testimonianze storiche citate dall’autrice nel testo. Queste fonti mi hanno fornito i dati storici di cui avevo bisogno per inquadrare la vicenda nel suo tempo e i termini specifici, quali “familiare”, “pungolatrici”, “ordalia dell’acqua”.

Poi, un bel giorno, Chiara, una cara amica con cui stavo parlando del romanzo di Blakemore, mi ha chiesto se conoscessi La chimera di Vassalli. No, non lo avevo mai letto (me misera, me tapina!). Il suo è stato un suggerimento illuminante. I due libri, quello di Vassalli e quello di Blakemore, sono diversi sotto molti aspetti, ma un tratto in particolare li accomuna: la ricostruzione di una verità altra, che non sia quella dominante. «Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia, sotto il macigno bianco che oggi non si vede», scriveva Vassalli.

Blakemore ha compiuto la stessa operazione nel suo Le streghe di Manningtree, ricostruendo la Storia dal punto di vista della perdente tra le perdenti, l’infelice Rebecca West. E lo ha fatto in un linguaggio accattivante, ermetico (un esempio: I feel graceful as wingtips, diventato «graziosa come un animale alato» per rendere l’immagine di grazia del volo), ricco di neologismi latineggianti (sepulchritude, un termine che unisce il sepolcrale al concetto di bellezza; mira, da mīrum nel senso di oggetto o visione meravigliosa; lazarene, con riferimento a Lazzaro; aluminise, stranissimo verbo che significa “rischiarare”, “illuminare”), aulico e poetico (basti l’incipit: A hill wet with brume of morning, one hawberry bush squalid with browning flowers, nella cui resa «La collina rorida al mattino, l’arbusto solitario del biancospino carico di tristi fiori avvizziti» si è perduta la bruma invernale, l’avvizzire progressivo e la meschinità dei fiori in favore del ritmo, della brevità e della musicalità del testo).

Rebecca West è povera, sola, diversa, intelligente, giovane. Un bersaglio facile. Una creatura pericolosa agli occhi di Matthew Hopkins, sedicente Inquisitore generale, cacciatore di streghe, uomo, «figlio dell’Anglia orientale [che cavalca] i venti stregati verso gli annali della storia». Hopkins teme ciò che non conosce, ciò che è diverso da lui, ciò che lo eccita e al contempo gli dà il voltastomaco. L’Inquisitore generale è votato a distruggere il corpo della donna, perché attraverso di esso intende annientare la femminilità e con essa la sua lingua, straniera e viscerale, fisica, in cui la parola si transustanzia in carne: «C’è un disegno, come nel lavoro a maglia, un linguaggio comune, ed è quello delle donne: segreto, rosa-grigio come le budella». Ma la lingua, a differenza del corpo, sopravvive, resiste, e salva.

 

Velia Februari

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