La traduttrice Giuseppina Oneto racconta il processo di traduzione del romanzo di Susan Taubes, Divorzi.
La prima riga di questo libro molto speciale dice: «Apre gli occhi con enorme sforzo, ma la stanza è un’altra» (She opens her eyes with enormous effort but it’s in another room). Quante volte l’ho riletta? Non ricordo bene, ma tante. All’inizio non mi era chiaro perché, a certe svolte lungo la via del lavoro, tornavo a quelle poche parole, come al primo scoglio a cui ancorare la restituzione del testo in italiano. E non essendomi chiaro il perché, dovevo insistere. Sì, tradurre è certo un’operazione complessa, un viaggio anch’esso sempre molto speciale, la cui destinazione non può che essere la voce dell’autore o dell’autrice che abbiamo davanti agli occhi ma restituita nella nostra lingua, cioè trasportata nella sua indole specifica, nelle sue forme, nei suoi suoni e nei suoi ritmi. Ma questo viaggio in particolare, nel Divorcing di Susan Taubes, che cominciava in una stanza che “è un’altra” e con l’“enorme sforzo” con cui la protagonista “apre gli occhi”, cosa cercava di dirmi? Come tante volte accade, la risposta è arrivata dopo molti tentativi. Sophie Blind, la protagonista, è morta, tratto che conferisce a ogni frase un tono particolare, e ci parla da morta – come se fosse viva. E scrive della protagonista. Scrive di matrimonio, di figli, di amanti. Scrive di padri, di madri; di emigrazione – forzata dagli eventi. Di identità perdute per sempre, chissà come e chissà se ricostruibili; di culture diversissime, di viaggi e valigie, di città. Di divorzi. Di separazioni, dunque, di spazi che nel libro si aprono a volte sovrapponendosi, a volte ritagliando figure che sembrano produrne altre, e con colori talora vivaci fino a essere sgargianti, talaltre più cupi. E di voli – sì, in aereo nel libro – che portano sempre in un altro luogo, fisico, psicologico, onirico. Dissacratorio. Sferzante. Ironico.
Quanti avvenimenti straordinari nella vita di questa donna che ci racconta una storia fatta di ruoli imposti quasi impossibili da stravolgere, che vive a New York, a Parigi, che da bambina ha vissuto a Budapest. Che aveva un nonno rabbino e il padre psicanalista. Che era donna fra uomini. Che era colta pensatrice fra uomini. Che era donna a modo suo, fra uomini. Che era sì madre, ma dove erano gli uomini?
E la scrittura incalza: «Apre gli occhi con enorme sforzo, ma la stanza è un’altra». Ecco dunque, davanti a questo libro dovevo aprire bene gli occhi e aspettarmi che la stanza fosse sempre un’altra. Che la strenua lotta per dirsi, quando il peso del corpo ormai non intralcia, gettasse sempre il peso di ogni frase più avanti e il filo che lega ogni sillaba fosse sempre teso verso la ricerca di quella che per la protagonista è la verità. Ci dice Sophie Blind, sempre nelle pagine iniziali: «[…] alla verità ci tengo. Ora che sono morta tengo solo a quella» ([…] I care for truth. Now I am dead I care only for truth).
Da traduttrice della sua voce – dei segni con cui si esprime – dovevo dunque cogliere ogni nesso che tendesse il filo della sua narrazione, seguendo gli spazi ridotti che una vita di tanto largo respiro – ma quanto asfittico? – sceglieva di ritagliarsi per restituirci il più possibile intatta la sua verità sulla densità degli avvenimenti che la affollavano. E una volta individuata la voce, ho cominciato ad amare la donna del racconto che ha sentito troppo stretto il suo destino, non di donna in sé, ma di donna che fatica a essere riconosciuta al di là delle sue funzioni biologiche. Ho cominciato ad amare la sua irruenza, e con l’irruenza, il coraggio, per certi versi formidabile, di trovare i modi per dirlo e affilare una delle armi migliori per denudare i giochi: l’ironia, arricchita da un alternarsi di stili.
E ho cominciato ad amare il coraggio con cui Sophie Blind ci spalanca la porta della sua casa (ma quale casa? e dove?) tra le scatole degli incessanti traslochi, e le scatole rimaste in altre case. E il coraggio con cui rilegge un passato per noi non più accessibile se non nella tradizione scritta, e ci spalanca la porta della casa della nonna dove si tenevano i riti della Pasqua ebraica. E poi, ancora, ci spalanca la porta del suo appartamento americano dove i figli la vanno trovare con le loro inarrestabili richieste. E degli appartamenti degli amanti che chissà cosa amano, se solo loro stessi oppure quella donna che fra poco ripartirà. E con tenacia ho cercato di inseguire il suo sguardo che, fra le altre cose, riusciva con potenza a ricostruire vicende complesse della storia ungherese, rendendole divertenti per il lettore. E a condensare lo strazio della Storia, durante le enormità accadute con la seconda guerra mondiale, in poche scene che urlano tutto il dolore che hanno causato. Ma con la discrezione propria di chi sa che l’indicibile può solo continuare ad abitare nel non detto, e continuare a ribellarsi alla sua prepotente immagine. E quel suo coraggio ha accompagnato il mio lavoro, dandomi la forza di entrare in questo universo i cui fili spezzati riescono ad avvincerci con il loro racconto.
Giuseppina Oneto