In occasione dell’uscita de Il viaggio di Halla, Donatella Rizzati racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Naomi Mitchison.
Penso di poter affermare con una discreta dose di certezza che alla domanda “Chi è Naomi Mitchison?”, la quasi totalità degli interrogati, nel nostro paese, risponderebbe “Non lo so”. E, in effetti, avrei risposto anch’io allo stesso modo se l’editore Fazi non mi avesse proposto la traduzione di Travel Light, diventato in italiano Il viaggio di Halla. Nelle prime descrizioni relative al testo che, mancando ancora le biblioteche, ho trovato cercando in rete Travel Light viene definito, generalmente, come una “fiaba per ragazzi”. Data questa premessa e data anche l’esiguità del libro – poco più di un centinaio di pagine, che lo collocano nella categoria difficile del “romanzo breve” o “racconto lungo” – la scelta di pubblicarlo mi ha suscitato qualche perplessità in quanto, almeno inizialmente, non riuscivo a dargli una collocazione. Spinta dalla curiosità ho approfondito la ricerca sull’autrice e in questo modo, facendo luce su di lei, sulla sua vita e le sue battaglie, ho potuto apprezzare la lungimiranza di Fazi Editore e la fortuna di aver avuto, grazie all’editore, la possibilità di conoscere questa scrittrice. Naomi Mitchison è stata, infatti, una figura a mio avviso particolarmente brillante: una scienziata interessata alla genetica mendeliana, autrice di più di novanta volumi fra romanzi storici, di fantascienza, libri di viaggio e saggi e, soprattutto, attivista per i diritti civili e i diritti delle donne, tutti elementi non comuni trattandosi di una donna nata alla fine dell’Ottocento.
Tutto questo, la personalità dell’autrice, i suoi valori e i suoi ideali, li ritroviamo anche nelle pagine di questa fiaba che, alla fine, si rivela essere qualcosa di molto diverso rispetto a una favola classicamente intesa. Dimenticate principesse in pericolo e cavalieri coraggiosi dal momento che in questo racconto le prime non sono neanche menzionate e i secondi non rivestono esattamente il ruolo degli eroi. Perché a fare la differenza, a trasformare una fiaba che possiede tutti gli elementi tradizionali del genere – draghi, magie, viaggi avventurosi – è proprio la giovane protagonista, Halla, la quale, non a caso, per temperamento è stata accostata alla scandinava Pippi Calzelunghe.
Halla è una piccola principessa che, abbandonata dal padre, viene cresciuta da creature selvatiche in mondi altrettanto selvaggi, dalle quali apprende uno stile di vita e dei valori che nel mondo umano, al quale lei apparterrebbe, non sono assolutamente contemplati. Ecco perché, quando per una serie di eventi si ritrova a doversi confrontare con gli uomini, tutte le sue certezze crollano e lei si sente perduta, un pesce fuor d’acqua che soltanto grazie alla propria tenacia e alla fiducia in se stessa infine troverà il modo di sopravvivere e adattarsi ai nuovi contesti che l’aspettano.
Quello che mi ha colpito del testo, al di là dei suoi contenuti decisamente più profondi di quanto ci si aspetterebbe da una fiaba per ragazzi, è stata la scrittura che, sotto un’apparente semplicità, possiede, invece, una certa complessità emotiva. Halla è caratterizzata da una schiettezza nel pensare e nell’agire del tutto priva di fronzoli e di etichetta che, nelle parole, si traduce in una spontaneità elementare ma, al tempo stesso, sfaccettata. È come se le sue emozioni, le sue riflessioni non trovassero adeguata espressione nella parola, come se il linguaggio in suo possesso non fosse abbastanza raffinato per poter verbalizzare tutto ciò che la sua mente elabora. E da elaborare c’è molto, considerando la carica rivoluzionaria del personaggio: nel compiere il suo viaggio – anche e soprattutto interiore – Halla cerca la propria indipendenza, il proprio bene e la giustizia andando contro ogni convenzione sociale e culturale, infrangendo schemi, regole, deludendo aspettative altrui e combattendo contro quello che ritiene contrario a quella che potremmo chiamare un’etica universale. Tutto questo, per una bambina allevata da orsi e draghi, può risultare difficile da esprimere ed ecco, quindi, che il suo pensiero si traduce in parole crude, a tratti brusche, ma piene di emozione quando qualcosa colpisce la sua sensibilità e di uno stupore fanciullesco per tutto ciò che le è sconosciuto.
Ed è esattamente questo l’aspetto interessante – e più complesso – della scrittura di Naomi Mitchison: la capacità di restituire la freschezza e la spontaneità di una bambina non attraverso l’adesione a uno stilema, ma come risultato di un vissuto, quindi con un linguaggio autentico e personale.
Donatella Rizzati