Tradurre «The Good Lord Bird» di James McBride

•   Il blog di Fazi Editore - Parola ai traduttori
A A A
The Good Lord Bird

In occasione dell’uscita di The Good Lord Bird, Silvia Castoldi racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di James McBride.

 

Ogni opera letteraria crea un proprio mondo, che è insieme narrativo e linguistico, e il compito e la responsabilità del traduttore sono quelli di ricrearlo nella propria lingua madre.

In The Good Lord Bird questo atto di “subcreazione” balza clamorosamente agli occhi fin dalle prime righe del primo capitolo: veniamo subito trascinati in un mondo vorticoso, scanzonato, irriverente, in un continuo turbinio di momenti esilaranti, trovate e colpi di scena, dove l’ironia che predomina nello sguardo del narratore veste i panni del black english.

Lo scarto linguistico rispetto all’inglese standard ricrea e rispecchia uno scarto di realtà, ovvero la radicale alterità della condizione in cui vive il protagonista, e con lui gli altri neri che compaiono in queste pagine: un’alterità in cui la vita dei neri non è altro che un’unica, gigantesca e continua bugia, e vestirsi da donna sembra diventare a un certo punto un’inevitabile strategia di sopravvivenza, in un mondo in cui per un nero essere un uomo significa troppo spesso una condanna a morte.

Ed eccomi quindi di fronte al compito di far parlare Henry “Cipollina” Shackleford, “subcreando” una lingua all’interno del mondo linguistico dell’italiano; di trovare gli scarti rispetto alla norma con cui dar voce a una voce narrante che riproduce l’oralità sulla pagina scritta, e di farlo in una lingua come la nostra, che nasce scritta prima che parlata e ha una morfologia e una struttura più rigide rispetto all’inglese. E tutto questo obbedendo all’imperativo, etico prima ancora che professionale, di non cadere nella trappola dell’umorismo involontario, degli effetti caricaturali da “sì badrone” e “bovero negro”.

Nel black english di Henry le principali deviazioni dalla norma linguistica riguardano soprattutto la coniugazione dei verbi (scambi tra prima e terza persona singolare, verbi irregolari coniugati come se fossero regolari, verbo essere all’infinito, participio passato al posto del simple past); l’ortografia (in particolare le trascrizioni fonetiche della pronuncia); l’uso di “them” al posto dell’aggettivo dimostrativo “those” (in them days); di locuzioni, congiunzioni e intercalari più o meno standard (“being (that)”, “fact is,” and such/and so forth, truth is, plus, ecc) e di espressioni gergali e idiomatiche che in alcuni casi diventano dei veri e propri “tormentoni”, come formule ricorrenti che fungono da pietre miliari per un narratore che ripete a memoria un testo tramandato oralmente.

Per rendere tutto questo in italiano ho adottato i seguenti accorgimenti.

Allo scopo di accentuare il tono colloquiale della voce narrante ho scelto di usare come tempo della narrazione il passato prossimo al posto del passato remoto.

Ho fatto ricorso alle costruzioni “a me mi”, “a lui/loro gli” ecc., tipiche del linguaggio parlato e informale, e ho usato il pronome “gli” sia per “a lui”, sia per “a loro”.

Ho eliminato i congiuntivi e i condizionali passati, ho usato il più possibile congiunzioni che reggono l’indicativo e ho modificato le frasi per rendere le sostituzioni dei modi verbali il più naturali possibile.

Ho introdotto lessico, modi di dire e intercalari della lingua parlata (per esempio “c’è che” come traducente di “fact is”; “mica” come rafforzativo nelle negazioni), sia in generale, sia in particolare per caratterizzare l’idioletto del protagonista (uno dei suoi intercalari preferiti, “and so forth/and such” è stato reso con “e via così”).

Ho fatto ricorso ad alcuni regionalismi di varia provenienza, per esempio “ravanare”, settentrionale, per “cercare” o “frugare”; “si è/ha/va/fa” ecc., ricalcato sul toscanismo “noi si è/ha/va/fa”, per rendere i vari “we is”, “we has” ecc.

Ho tradotto l’uso non standard di “them”, come in “in them days”, con “a quei tempi lì” e simili.

Ho introdotto alcune varianti non standard, regionali e/o popolari, per le congiunzioni subordinative (“intanto che” al posto di “mentre” con valore temporale; “mentre invece”, sempre al posto di “mentre”, ma con valore avversativo; “capace che”, altro toscanismo, al posto di “può darsi che”; “con tutto che”, seguita dall’indicativo, con valore concessivo, al posto di “sebbene” seguita dal congiuntivo; siccome che, al posto di “siccome”, con valore causale; “calcolato che”, al posto di “poiché/considerato che”, ancora con valore causale).

Ho inoltre trasgredito a uno dei comandamenti italiani del bello scrivere, ovvero la guerra alle ripetizioni; le ho evitate là dove potevo farlo senza alterare il tono che avevo deciso di dare al testo, ma le ho lasciate spesso per mantenere il registro linguistico colloquiale, là dove la ricerca del sinonimo mi avrebbe portata inevitabilmente a scelte lessicali che andavano in un’altra direzione.

Quella di Henry è ovviamente la voce dominante, quella che dà il tono al romanzo, ma non è l’unica: ci sono le voci dei bianchi (e dei neri) colti; quelle dei bianchi poveri, con la loro parlata rurale del Sud degli Stati Uniti, che ha diversi punti in comune con il black english; e poi c’è John Brown, il quale alterna il dialetto del sud a un inglese corretto e formale, e a toni solenni da predicatore fortemente ispirati dalla Bibbia, che cita a proposito e a sproposito: a volte alla lettera, a volte adattando i versetti ai propri scopi e a volte inventandoli di sana pianta, come ho documentato inserendo una serie di note in cui indico di volta in volta libri, capitoli e versetti e segnalo le deviazioni dal testo biblico e i casi in cui le citazioni sono del tutto inventate.

John Brown non è l’unico personaggio in grado di esprimersi adottando livelli linguistici diversi a seconda delle situazioni; a volte questo avviene anche per altri personaggi, schiavi compresi, che in momenti particolarmente solenni si dimostrano in grado di rivolgersi ai bianchi da pari a pari e parlare un inglese quasi standard (un esempio è quello di Sibonia e del suo dialogo con il ministro del culto). Anche in questo caso, ovviamente, la mia traduzione ne tiene conto.

Tutti quelli che ho seguito sono criteri di massima; in alcuni casi, là dove avevo l’impressione che la prosa si facesse troppo pesante o faticosa, ho deviato leggermente dalle mie stesse norme, nel continuo tentativo di trovare un equilibrio tra la coerenza linguistica e stilistica e la leggibilità del testo.

 

Silvia Castoldi

Privacy Policy   •   Cookie Policy   •   Web Design by Liquid Factory