La genesi di «Magnificat» di Sonia Aggio

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Sonia Aggio

Magnificat nasce come racconto breve, secondo un modus operandi che sto imparando a riconoscere solo adesso (lui è stato il primo, dopotutto: siamo andati avanti per tentativi, alla cieca): scrivo due, tre pagine che abbozzano la vicenda, i personaggi. Dopo un po’, riprendo in mano il racconto: arriviamo a quindici, venti pagine.

A questo punto ci sono storie che si esauriscono così, contente dello spazio che ho dedicato loro, ma altre rifiutano di andarsene e mi tormentano finché non decido di dar loro più spazio.

Invece di tagliare, aumento, cresco, mi immergo nella storia.

Il processo che ha portato alla nascita di Magnificat così com’è oggi, così come apparirà agli occhi dei lettori è stato lineare, segnato da tappe nitide. Per descriverlo, potrei utilizzare uno degli strumenti preferiti dagli insegnanti di Storia: la linea del tempo.

Luogo: ex acciaierie San Marco, sulla strada per il mare. Il mondo che scorre fuori dal finestrino è giallo, verde, azzurro. Io ascolto musica cupa, barocca. Alla mia sinistra uno spiazzo cementato, erbacce che si fanno strada nelle crepe, lo scheletro arrugginito della fabbrica; alla mia destra, campi di grano e mais.

Davanti, un canale ci taglia la strada. Mentre lo oltrepassiamo, guardo in basso. In questo periodo comincio ad avvertire il peso del vuoto. In questa terra, penso, non c’è storia, non c’è tradizione, non c’è niente di attraente. Penso: posso riempirla con i miei miti.

Qui avviene la magia, l’epifania, l’infestazione – comunque vogliamo chiamarla. Immagino, “sotto il cielo fosco dal caldo”, una creatura che esce dall’acqua verde: bellissima, snella, bianca e bionda, accecante sotto il sole, eppure piena – come tutte le cose più grandi di noi – di orrore, di crudeltà, spaventosa e potente.

Luogo: la cucina di casa. È l’inizio di settembre, una pioggia tiepida batte sui vetri. Sfoglio il nuovo libro di Storia dell’Arte: odore di carta nuova, di inchiostro fresco. Mi colpisce una bellezza botticelliana dai capelli ramati.

Le darò un nome e un destino tragico: perché non può essere altrimenti, perché scende la pioggia e io immagino l’alluvione del ’51, che è l’Evento, il Dramma per eccellenza. La mia bellezza senza nome dovrà esserne inghiottita.

Un’idea: dare uno spazio – quelle famose quindici, venti pagine – a tutte le storie che mi frullano per la testa, che resistono alla noia e ai cali di interesse. Riprendo in mano la ragazza, le do un altro da sé, una figura identica e contraria. Voglio che siano distinte eppure simili. Le chiamo Nilde e Norma. Mi diranno che i nomi si assomigliano e rischiano di confondere.

Bene, rispondo, è quello lo scopo.

Penso che Magnificat debba trasformarsi in un romanzo. Scrivere è sempre stato il mio sogno, e se c’è una storia con cui voglio esordire, è questa. So tutto ciò che accadrà: ogni mossa, ogni parola dei personaggi. Il finale è già scritto – ma manca l’incipit. Non riesco a iniziare.

Getto via un sacco di bozze; sono sempre più irritata. Mi sono quasi arresa, quando una gita sul delta del Po mi sblocca completamente – le parole si mettono in fila, una dopo l’altra. Devo solo scriverle.

2018-2022. Versione uno. Versione due. Versione tre…

Le riscritture si accumulano sulla scrivania. Cambia la struttura, cambiano i titoli dei capitoli e l’ordine degli eventi. Ogni volta che finisco, penso di aver fatto del mio meglio, ma scopro che c’è sempre spazio per il miglioramento.

Tra le pagine, però, restano le cose che ho visto e di cui mi sono invaghita: la nuvola rosa vista tornando dall’università, l’ortensia che cresce nei pressi della casa del mio fidanzato, un temporale improvviso della mia infanzia, i gabbiani in volo sul mare.

Qui la linea si esaurisce: i prossimi passi sono ancora da scrivere.

Se siete giunti fin qui, forse volete sapere anche di cosa parli il romanzo. Dirò che è semplicemente una storia sull’amore e sulla perdita, sulla nostalgia di chi resta e ha visto ciò che conosceva andare perduto per sempre.

 

Sonia Aggio

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