Forse è vero, come i poeti hanno ripetuto tante volte, che ogni poesia non arbitrariamente fondata nasce da uno stato di necessità. Lo si può definire in molti modi – dubbio, incertezza, insoddisfazione, squilibrio, smarrimento, desiderio di comprendere, ristabilire, trasformare o, più semplicemente, volontà di dare testimonianza, volontà di dire –, ma la cosa comunque non cambia. Un poeta si trova davanti a se stesso e al mondo e questo rapporto non è scontato né pacificato. Il fatto stesso di provare a definire una anche minima verità, quale essa sia, che poi è il compito primo e ultimo di un poeta, porta a riconoscere nella poesia una forma d’adattamento e insieme di promozione della realtà, in cui come in ogni esperienza che si rispetti il movimento è a doppio senso di marcia, perché attraverso la lingua si prova a rendere conto della realtà nel momento stesso in cui la realtà viene adattata e definita da noi. La presa d’atto di ciò che è non si può allora distinguere dalla prefigurazione di una possibilità altra e diversa. In una poesia la constatazione di uno stato di fatto coincide con la messa in opera di una visione, il riconoscimento che “è così” con l’affermazione di un sogno. Ed è certo una cosa straordinaria questa, eppure si può subito aggiungere che non si tratta d’altro che della comune prassi umana, della nostra vita insomma.
Se le cose stanno così, la determinazione del senso poetico ha a che vedere allora con la ricerca di una verità che è anche immediatamente esistenziale, pratica persino. In fondo, ma sarebbe più giusto dire all’inizio, ogni poesia non è che un nuovo, ulteriore tentativo di rispondere alle stesse, inevitabili domande. Chi sono? A che punto mi trovo? Dove sto andando? Qual è il senso della mia vita? Cos’è la realtà che mi trovo di fronte? Ma anche, visto che in un modo o nell’altro una poesia che si rispetti non parla mai per una voce sola: chi siamo? A che punto ci troviamo? Dove stiamo andando?… Anche se poi, trattandosi dell’arte poetica, la domanda «Qual è il mio senso?» diventa subito «Qual è il mio verso?», in cui si mostra con tutta evidenza la simultaneità tra il tentativo di definire un particolare orientamento nella vita e la ricerca di un altrettanto particolare senso del discorso poetico. Detto altrimenti: l’interdipendenza tra il senso come direzione e il senso come significato. Questa basilare necessità antropologica della poesia è il punto che qui interessa: la fisicità, la concretezza, il radicamento della lingua poetica come qualcosa che nel mettere a fuoco la vita attraverso le parole non risulta astrattamente e dunque arbitrariamente determinato. Nelle pagine che seguono gli argomenti sono tanti, ma il loro filo conduttore, se uno ce n’è, riguarda appunto questo: il processo di determinazione poetica del senso; o detto altrimenti, il modo particolare con cui certi poeti e più ancora certe poesie promuovono il senso poetico.
Le poesie che ho riunito e commentato qui, alcune del secondo Novecento italiano ormai canonico, altre di anni più recenti, possiedono tutte per me una storia piuttosto lunga, che è quella d’occasioni di vario genere – lezioni, corsi, seminari, interventi sulla poesia – in cui ho avuto più volte la possibilità di metterne alla prova l’interpretazione, il che poi significa la lettura. Anziché lezioni avrei potuto chiamare questi capitoli studi, saggi, interpretazioni, commenti o appunto letture, in quanto il mio discorso, dando un po’ un colpo al cerchio e uno alla botte, tiene qualcosa di tutte queste possibilità. Alla fine ho preferito però il primo termine, soprattutto per tenere fede alla spinta iniziale, e fermo restando che il primo a cui cerco di spiegare le mie ragioni sono comunque io (di qui, temo, anche le mie tante insistenze), la stessa persona che proprio in quel momento quelle ragioni le sta anche cercando. In ogni caso, questo libro intende dare conto del fatto che sono state le poesie stesse a suscitare i problemi e a muovere l’argomentazione, e non il contrario. O almeno la speranza è questa, se non altro perché è proprio un simile diritto di precedenza, questa specie di movimento dal basso o da dentro, vale a dire dalla concretezza di ciò che è individualmente determinato o incarnato, che l’esperienza della poesia – che ogni volta è quella poesia – indica prima e più di ogni altra cosa. Accanto o al loro posto avrei potuto considerare poesie diverse (come anche autori diversi), magari non meno amate, ma ragioni ora di similarità, se non di filiazione, ora invece di reciproca alterità, mi hanno fatto propendere per queste. Più che gli autori, credo che siano state le poesie a cercarsi tra loro. Solo col tempo, infatti, ho compreso che mi ero fissato su certi testi sia perché risultavano particolarmente vantaggiosi per definire il carattere di un certo poeta e del suo modo espressivo, sia e soprattutto perché mettevano in campo con singolare evidenza questioni di poetologia per me fondamentali. L’idea di questo libro, di fatto, ha cominciato a prendere corpo quando il riconoscimento di una simile vocazione comune si è saldato col mio desiderio di dire qualcosa non sulla poesia, ma su alcune poesie in particolare.
Più specificamente, ciò che accomuna questi componimenti è la capacità di mettere direttamente in scena il processo di costituzione del senso poetico. Provo subito a spiegarmi. Non si tratta di poesie sulla poesia, di poesie in senso proprio metapoetiche, come a tutta prima si potrebbe pensare. Il discorso sulla poesia e la componente metaoperativa costituiscono semmai un elemento di una configurazione espressiva comunque più complessa e, mi sembra, più concreta e accattivante. Sono invece poesie che rappresentano, esplicitandolo e illustrandolo, il processo di definizione del senso che presiede alla loro stessa costituzione. Ovviamente ci tornerò sopra, ma la distinzione già di per sé appare significativa. A differenza di una poesia metapoetica, qui non c’è un poeta o un io poetico che parla della poesia, né dunque un discorso primo che parla di un discorso oggetto, come accade appunto in una poesia sulla poesia. Al contrario, nel nostro caso non sussiste differenza alcuna – una differenza discernibile dal punto di vista logico o anche, diciamo così, a occhio nudo – tra le modalità della rappresentazione e la situazione rappresentata, tra il come si dice e il cosa si dice, tra il discorso poetico e il suo oggetto, come se non si potesse stabilire quale tra i due sia lo specchio e quale lo specchiato. Per riprendere quanto accennato più sopra, non sussiste qui una distinzione chiaramente discernibile tra il senso come significato e il senso come direzione pratica, empirica, di cui la poesia racconta.
C’è un pesce che procede controcorrente, e controcorrente procedono con lui e in lui, indistintamente, anche la lingua e la disposizione tutta del discorso poetico. Oppure c’è un uomo che si muove di qua e di là in un bosco senza mai decidersi per una parte o per l’altra, compiendo così la stessa oscillazione sul posto che compie il linguaggio di cui quella danza appare insieme la premessa e la conseguenza. O, ancora, c’è qualcuno che se ne sta immobile in una stanza per saltare col pensiero al di là dello spazio e del tempo presenti, proprio come la sua lingua poetica, che si fa di pietra per chiudersi alla consumazione dell’oggi e approdare direttamente al domani. In ogni caso, in queste poesie, chi dice e chi è detto? Chi determina e chi è determinato? Chi è il cosa e chi il come? Si sarà forse già intuito come ciascuna di queste poesie dia conto di sé nel suo stesso farsi, al punto che può legittimamente intendersi come una cartografia poetica che racconti la propria origine e le proprie condizioni d’esistenza. Il che significa, poi, che dando conto di sé attraverso se stessa, la poesia si morde la coda (e del resto la tautologia, l’essere così perché è così, non è certo un aspetto secondario dei procedimenti di chimica poetica). Queste poesie, in sostanza, espongono se stesse, proprio come fossero il correlativo oggettivo di questa o quella particolare modalità di significazione poetica. Di qui il loro valore esplicativo, perfino didascalico. In mancanza di meglio, le ho chiamate poesie autoillustrative (ma si potrebbero definire anche autogiustificative), proprio perché ogni volta, e comunque ciascuna a modo proprio, illustrano il processo di determinazione del rispettivo senso poetico. Come appellativo non sarà granché, ma mi sembra che chiarisca almeno un poco quello che intendo.
Solo un’avvertenza ulteriore. Questo mio interesse particolare, che in realtà corrisponde a un rovello e a una domanda che non trovano pace, ha a che vedere con la piega che da tempo ha assunto la mia pratica di lettore di versi. Tutto parte per me dalle constatazioni più immediate di un’esperienza della poesia. Leggo o ascolto un testo poetico, e quello che più richiama la mia attenzione non è tanto ciò che dice quanto ciò che assicura (o viceversa, nel caso non sussista, che preclude) la vividezza, l’efficacia, l’energia, la necessità, soprattutto la plausibilità di ciò che viene detto. Qualcosa come la presenza – come chiamarlo diversamente? – di un patto di garanzia. Ascolto le parole, seguo lo svolgimento del discorso, intercetto le immagini che dicono di una certa idea o visione del mondo, che posso condividere o non condividere, che posso sentire più o meno interessante e vicina, eppure la mia attenzione invariabilmente si rivolge alle possibili ragioni della sua particolare “tenuta”, a quel diverso, più imprendibile ma non meno importante discorso attraverso cui una poesia sta parlando anche di sé, come per assicurarci della fondatezza delle proprie ragioni, del suo essere motivata in un certo modo, cioè secondo necessità. Questa poesia sta, questa no, quest’altra così così, quest’altra non saprei dire. A catturarmi, insomma, è il carattere non arbitrario dell’ingaggio, o meglio dell’interanimazione reciproca tra forma e contenuto, come un altro suono o senso che s’accompagna al questo che una poesia più esplicitamente dice. È proprio questo che intendo come determinazione del senso poetico: la reciprocità tra il fatto che una poesia è quello che dice e il fatto che una poesia dice quello che è, per cui le due diverse prospettive risultano l’una condizione dell’altra. Dunque non si può nemmeno parlare di un mezzo formale che consenta l’esecuzione di certi contenuti, perché a loro volta quei contenuti sono il mezzo che consente all’atto poetico di dichiararsi come tale. Qui davvero etica ed estetica si rivelano una cosa sola.
Non posso non riconoscere, allora, che il senso di una poesia corre tanto più forte quanto meno può essere sottratto a se stesso; e che il significato è tanto più vivo, la sua capacità d’estensione tanto più grande, quanto meno può venire espropriato, sottratto alla sua determinazione particolare. Ecco, la mia attenzione si è rivolta anzitutto a questo vincolo di reciprocità tra ciò che sta e ciò che corre, tra fissità e movimento, tra la carta e la corrente del senso; un nesso anche paradossale, e probabilmente alla fine inverificabile, eppure, credo, indubitabile. Il fatto è che l’oggettivazione formale di una certa visione della realtà, da cui pure viene al lettore la possibilità di sottoporla a giudizio e criticarla, fa tutt’uno col suo porsi in qualche misura come incontrovertibile. E da questo deriva che una poesia che sia davvero tale possa essere sì giudicata, cioè in senso proprio criticata, ma non negata, ossia posta in questione quanto alla sua necessità e adeguatezza espressiva, alla legittimità della sua realizzazione. Si è insomma costretti a prendere atto non solo della sua capacità di sussistere ma anche di esistere. Questo semplice fatto per me risulta a tutti gli effetti discriminante. Non significa infatti qualcosa, e forse più di ogni altra cosa, che una poesia possa essere respinta ma non negata o delegittimata quanto alla sua stessa realtà, cioè alla sua vera presenza? Nell’arte poetica non si tratta tanto, dunque, di una questione di stile, di un’attenzione e di una cura speciale rivolte al come dire una certa cosa. Questa semmai è una conseguenza. Piuttosto che con qualche fantomatico principio formale o sostanziale, mi sembra che la poesia abbia a che vedere con un particolare modo d’impegnare la lingua e le sue risorse nei confronti della realtà. Vale a dire, nel dare effettivamente adito a quel vincolo di necessità, a quella motivazione di cui si è detto. Ogni poeta è tale, si può dire, perché nel mettere in forma di parole la vita ha trovato il proprio vincolo, perché ha riconosciuto il modo – il suo modo – per motivare il rapporto tra le cose e la lingua.
Da questo punto di vista, il vecchio adagio secondo cui in poesia si dice questo per dire altro è davvero insuperabile. Soprattutto perché di fatto “questo” e “altro” finiscono per scambiarsi le parti. Nel corso del tempo, del resto, questo fenomeno – è fenomenale, infatti – della duplicità d’aspetto o di carattere è stato rilevato tante volte, dai poeti stessi anzitutto, magari con immagini e definizioni a tutta prima diverse ma poi nella sostanza convergenti (alcune le vedremo senz’altro). E dunque: quel che s’intende come verità della poesia, o magari come giustizia poetica, ha forse a che vedere con questa duplicità, o magari doppiezza, con questo non farsi mai prendere con le mani nel sacco? Quanto a me, ne sono convinto. Ecco, allora, il sapere di non poter mai prendere una poesia del tutto in parola, di non poter risolvere il senso nel contenuto della lettera, ma insieme il convincimento che è proprio in nome di quello che viene la sua spinta a dire, e che la lettera di conseguenza va presa sul serio. Pur sapendo che i due aspetti sconfinano necessariamente l’uno nell’altro, riconosco che il mio interesse risulta un po’ sbilanciato, perché nelle letture che seguono più che al senso ho guardato al modo in cui il senso viene promosso e legittimato. E in verità più che di un interesse dovrei parlare di una fissazione, che mi ha reso forse un po’ cieco nei confronti di gran parte di quello che una poesia può dire del mondo e della nostra vita. Di ciò che davvero importa, insomma. Così adesso guardo dove mi trovo e mi accorgo di essere sempre lì. Se penso ad esempio a una Difesa della poesia che ho scritto ormai parecchi anni fa, devo riconoscere che non ho fatto altro che battere sugli stessi chiodi. E non è affatto detto che siano penetrati più a fondo.
Roberto Galaverni