Pubblichiamo un secondo estratto di «Anima» di Wajdi Mouawad, una sconvolgente odissea contemporanea, e un’ardita provocazione letteraria: capitolo dopo capitolo, il filo della narrazione è ripreso da una successione di animali, immergendo il lettore nella loro percezione della realtà.
In fondo al corridoio c’era una finestra a ghigliottina che dava su un campo. Laggiù, in basso, si poteva indovinare il margine di una foresta appoggiata sulla piana come una lastra di marmo nero. Colei che amo ha aperto una porta. Una scala di legno senza alzate portava a una botola aperta nel soffitto. Colei che amo ha cominciato a salire, l’uomo l’ha seguita. Ha spinto un battente il cui meccanismo ha fatto scorrere la botola lateralmente, lasciando libero il passaggio. Lui si è issato dopo di lei, e anch’io ho potuto penetrare in quel nuovo territorio. Era una stanza unica, ricavata sotto le due falde di un tetto trasparente che dava sul cielo. C’era un letto che poggiava direttamente su dei tappeti. Un tavolo, una sedia e qualche mensola vuota. Si stava bene. Il pavimento era caldo. Lei gli si è avvicinata. Lo ha aiutato a liberarsi della mantella. Gli ha slegato i cordoncini che chiudevano la camicia. Lui se l’è tolta. Gli ha slacciato i pantaloni. Lo ha aiutato a toglierseli, poi lo ha portato fino al letto. Lui si è disteso. Lei si è spogliata e si è distesa al suo fianco. Si è rannicchiata contro di lui. Gli ha accarezzato il petto.
«Una settimana fa è arrivato un uomo insanguinato. Era nel panico. Un Mohawk. Uno che mio padre aveva già aiutato, tanto tempo fa. Cercava rifugio nella riserva. Lo hanno accolto, lo hanno tenuto nascosto. Tutti sapevano quello che aveva fatto, ma non si rifiuta l’ospitalità a un fratello, non si rifiuta l’ospitalità a un animale ferito. È venuto qui. Mi sono presa cura di lui. L’ho vegliato. Ho curato la sua ferita, l’ho ricucita. L’ho fatto dormire qui. In questa camera. Ha dormito nel letto in cui ti trovi tu ora. Parlava di te come tu parli di lui. Diceva l’uomo a cui ho fatto questo, ma non si sentiva in colpa. Ha detto di aver provato piacere a uccidere una donna. Ha detto di aver provato piacere a fare quello che ha fatto. Lo avrebbe fatto di nuovo. Non voleva essere catturato perché diceva di amare la libertà, di amare l’assassinio, la trasgressione e l’eccitazione sessuale che suscitava in lui. Era l’unica attività, sì, ha usato proprio questa parola, l’unica attività che non lo annoiava. È rimasto qui, senza mai lasciare questa stanza. Due giorni fa, un uomo della riserva è venuto a prenderlo e se ne sono andati. Vuoi ancora incontrarlo?».
«Sì».
«Abbracciami, e sarà lui che abbraccerai perché due giorni fa ero fra le sue braccia».
Lui si è messo a sedere sul letto, di scatto.
«Non dici nulla? Cosa aspetti? Prendimi. C’è ancora una parte di lui che mi è rimasta addosso. Se mi baci, bacerai delle labbra che lui ha baciato. Se mi accarezzi, accarezzerai una pelle che l’assassino di tua moglie ha accarezzato. Nessun altro mi ha toccata nel frattempo».
Lui ha scostato le coperte e l’ha contemplata nella sua nudità. «Sì, è stato qui!». Lentamente, le ha posato la mano sul ventre, lo ha accarezzato. «Sì, ha messo la mano dove ora la metti tu». Ha avvicinato il viso al viso di lei. «Ha messo le labbra su queste labbra». L’ha baciata, cercando di sentire il sapore della sua bocca. Aveva gli occhi aperti, ma qualcosa si era spento. Ha smesso di pensare. Lei si è aggrappata al suo corpo. «Io sono il luogo del tuo incontro con lui». Si è disteso sulla schiena e l’ha presa su di sé. Lei si è lasciata scivolare sul suo petto, strofinando il proprio sesso contro i suoi muscoli, fino ad accovacciarsi all’altezza del suo viso, appoggiandosi al muro con le mani. «Lo vedi, stai leccando ciò che lui ha leccato». Gemeva, contorcendosi languidamente, flettendosi e rialzandosi, muovendosi avanti e indietro lungo la sua lingua, riportando i fianchi all’altezza del suo sesso e sedendocisi sopra. Lui l’ha penetrata. Hanno emesso un sospiro profondo. «Pensa a lui, pensa che è stato dove ora sei tu». Lui ha stretto tra le mani i suoi glutei così rotondi, così compatti, ha mangiato i suoi seni, leccando, mordendo appena, penetrando senza sosta. «Adesso violentalo!», ha detto lei, inducendolo a dare ai suoi movimenti una sicurezza, una forza muscolare tale da strapparle subito un grido roco. «Scopami!», e ha cominciato ad accarezzargli i capelli con una tenerezza tale da catapultarlo nell’arco di un secondo nel cuore di se stesso, facendolo diventare un tutt’uno con il proprio sesso. «Sì, scopami, scopami, sì, sì, sto per godere, sto per godere… È lì che lo incontri, lì, lì lo incontri! Lì!». Lui ha alzato la testa per guardarla. Lei cercava la fissità, l’ha trovata. Lei godeva sotto i suoi occhi, nell’infinità del suo segreto, come se fosse diventata un paesaggio sconvolto dal tumulto del suo corpo. Lei godeva ancora. Sulle sue labbra dischiuse brillava una goccia di saliva che lui è andato a raccogliere con la punta della lingua. Lei è trasalita a questa carezza, riprendendo il movimento dell’amore, ma senza muovere né il busto né le gambe, facendo andare su e giù solo i fianchi, succhiando il suo sesso col proprio sesso. «Adesso godrai dentro di me, come lui ha goduto dentro di me, e, nelle profondità del mio corpo, ci sarà un po’ di te, un po’ di lui!». Quando l’ha sentito sul punto di liberarsi, si è ritratta, si è chinata, lo ha accolto nella sua bocca, lo ha succhiato, lo ha leccato, per poi tornargli sopra e lui, sprofondando dentro di lei, è esploso con un gemito di felicità e di beatitudine, inarcandosi più volte, in una tensione incessante e meravigliosa che è durata a lungo prima che, tornata la calma, lei si piegasse per andare tra le sue braccia, senza però staccarsi. Sono rimasti così. Lui si è addormentato. Verso la fine della notte, quando il cielo ha cominciato a mostrare le sue tinte azzurrate attraverso il tetto, lei si è alzata, si è vestita, poi, senza lasciarmi il tempo di seguirla, ha sceso i primi scalini. È scomparsa e la botola si è richiusa sopra di noi.
Wajdi Mouawad