Tommaso Besozzi
Il sogno del settimo viaggio
A cura di Enrico Mannucci
Il sogno del settimo viaggio raccoglie i migliori reportage dall’Africa che Besozzi, uno dei più grandi giornalisti italiani del dopoguerra, autore su «L’Europeo» e «Il Giorno» di scoop clamorosi come quello sulla vera morte del bandito Giuliano, pubblicò durante gli anni Cinquanta. Protagonisti di queste cronache, veri e propri racconti, non sono tanto le popolazioni africane, ma quei camionisti italiani che si sono insabbiati sulle strade e nei villaggi sperduti dell’Africa orientale. Uomini poetici e disperati, eroici e folli, che hanno perduto quasi del tutto il contatto con la madrepatria, vivono tra il deserto e le rare città africane e hanno stabilito lì la loro vita zingaresca, le loro donne, il loro futuro. Il sogno del settimo viaggio, inedito in volume, presenta uno straordinario e sorprendente affresco narrativo e di costume e ci rivela un grande scrittore.
– 02/01/2000
L’Africa di un grande giornalista
Purtroppo scomparso dalla scena editoriale alcuni anni fa, il settimanale l’Europeo è stato fin dalla sua fondazione una fucina di grandi firme del giornalismo. Basterà citare Enzo Biagi, Oreste Del Buono, Franco Pierini. Di Biagi, Tommaso Besozzi fu maestro e lo stesso Biagi gli ha dedicato di recente un libro, “I giornali non sono scarpe”, uscito per i tipi di Baldini & Castoldi. “Il sogno del settimo viaggio”, curato da Enrico Mannucci, anche lui per lunghi anni L’Europeo, raccoglie i reportages di Besozzi dall’Africa delle colonie italiane durante gli anni ‘50. Destano impressione, e ammirazione, l’attualità del linguaggio giornalistico, la densità di particolari, l’asciuttezza della prosa. L’unione di questi tre elementi dà vita a cronache spoglie da ogni esotismo e invece rivolte a raccontare la crudeltà della vita quotidiana, il cammino difficile di piccole esigenze, l’ostinazione e la forza di fronte ai problemi economici e sociali degli italiani rimasti in Etiopia e in Somalia dopo la fine del colonialismo. Un libro da non perdere, perché esempio perfetto di uno stile che si è perduto.
– 06/01/2000
Racconti
Tommaso Besozzi, “Il sogno del settimo viaggio”. L’autore (1903-64) fu uno dei più importanti reporter italiani del secondo dopoguerra. In questo libro sono pubblicati alcuni suoi reportage dall’Etiopia e dall’Eritrea dei primi anni della decolonizzazione. Protagonisti sono gli italiani rimasti, diventati i “disperati dell’Africa orientale”, che si arrangiano a vivere ai limiti di una società che sta cambiando e che li guarda con sospetto. Emergono i camionisti, che affrontano viaggi di mesi tra strade sterrate, incidenti e imprevisti di ogni tipo. Besozzi fa di questi ‘insabbiati” gli eroi delle sue brevi storie e guarda all’Africa con occhio curioso e affascinato. Una terra stupenda e carica di problemi, e uomini e donne tanto diversi e stupiti dall’uomo bianco quanto l’uomo bianco lo è di loro. L’inizio di un grande cambiamento: “E’ davvero finita un’epoca, in Africa, e la frattura che non sarà più possibile rimarginare comincia proprio di qui… E’ veramente il momento in cui gli uomini di pelle bianca debbono rendere i conti”. Lo stile è asciutto, veloce, mai retorico.
– 03/12/2000
Dall’autore dello scoop sul bandito Giuliano, “Il sogno del settimo viaggio”
I camionisti dell’Asmara
Che ne è stato di quelli che dopo la seconda guerra mondiale rimasero in Africa? Ce lo racconta un giornalista atipico come Tommaso Besozzi, che più volte si è messo sulle loro tracce. raccogliendo testimonianze sulla decolonizzazione, senza cedere al fas
I camionisti dell’Asmara aspettano la fine delle piogge per mettersi in marcia per Addis Abeba: 1075 chilometri di strada impervia. Nel 1940 gli autocarri che trasportavano la frutta impiegavano 36 ore per compiere il tragitto.Oggi, se tutto va liscio, ci vuole un mese tra andata e ritorno. Sempre che si faccia ritorno. Una volta arrivati nella capitale solo chi è riuscito a rimettere il camion in condizione di affrontare di nuovo la traversata , solo chi non è indebitato, chi non ha questioni pendenti al tribunale , può riprendere il cammino. I camionisti dell’Asmara sono gli “insabbiati”, gli italiani rimasti in Africa dopo la seconda guerra mondiale che insistono con i loro “birocci” a tenere in vita il sogno delle colonie. Eroi le cui gesta furono narrate negli anni Cinquanta da un giornalista atipico come Tommaso Besozzi , che più volte si “perse” sulle loro tracce. E i cui reportage sono ora racconti ne “Il sogno del settimo viaggio” (Fazi Editore, pagg. 137). Ma non c’è nessun vezzo retorico nella scrittura di Tom (come veniva chiamato dai colleghi), nessun cedimento allo stile hemingwayano, nessun compiacimento verso il cosiddetto “mal d’Africa”. D’altronde Besozzi non ne era il tipo. Diventato famoso per il servizio sull’uccisione del bandito Giuliano (“Di sicuro c’è solo che è morto”, aveva titolato smantellando la versione ufficiale dei carabinieri) era rimasto, fino al suicidio nel 1963, pur sempre un clochard della penna con il fiuto del reporter, capace di indagare i risvolti più interessanti della notizia. Nel momento in cui, tramontato il mito coloniale della “quarta sponda”, gli inviati cercavano nel Continente nero un tocco di esotismo e seni nudi da fotografare, Tommaso Besozzi seppe invece raccontare le vicende di quanti giunti in Africa per fare fortuna si ritrovarono, dopo la decolonizzazione, a sbarcare il lunario in una terra ostile.
– 03/05/2000
Ritorno alle ex colonie
Uomini sconfitti con l’anima spaccata che non si danno per vinti perché consentono a un guizzo di follia di rimettere in gioco le loro esigenze: sono loro i protagonisti dei reportage dalle colonie italiane perdute in Africa, scritte nel 1950 e nel 1954 da Tommaso Besozzi come inviato dell’ “Europeo” di Arrigo Benedetti. Lo scenario su cui si muovono è di un mondo finito per sempre, di opportunità fatte balenare e colte sull’onda dei “successi imperiali”, per poi naufragare in un mare di sangue e dolore con la cacciata degli italiani a opera degli inglesi nel 1941. E con le rappresaglie contro la gente comune che, a differenza degli opportunisti piccoli e grandi della prima e dell’ultima ora, era rimasta al proprio posto, pronta a scambiare – in più volte invano – la propria intima onestà con un minimo, se non di benevolenza, di tolleranza e rispetto da parte dei nuovi padroni.Senza sentimentalismi, bandita ogni nostalgia per i passato, con intensa empatia Besozzi trasmette al lettore da queste righe, che asciutte escono dalla sua vena componendosi in veri e propri racconti, il senso di dignità profonda di quella gente e delle loro “iuzerò”, le loro signore, non concubine o amanti occasionali, ma donne che avevano magari salvato loro la vita a rischio della propria, e che erano le madri dei loro figli.Si delineano così figure maschili a tutto tondo, spesso tragiche, più raramente comiche. Tra queste, in Somalia ecco goffi cacciatori di coccodrilli e ippopotami (anche loro incredibilmente capaci, come gli umani, di morire di umiliazione e d’amore), e un arzillo sultano di 74 anni con 203 matrimoni alle spalle, ma mai con più di quattro mogli per volta, e l’equivalente di 28 giri di circonferenza della Terra nelle gambe per visitare regolarmente perché tenute a chilometri di distanza tra loro per quieto vivere.Dal clima massacrante di Massaua narra di vecchi “coloniali” che si ingegnano con industrie e commerci ai limiti dell’assurdo: farina di pesce, pinne do pescecane o grossi vermi marini trepang (entrambi afrodisiaci in Estremo Oriente), ossi di seppia, perlacce di ostriche di quart’ordine, polvere di spugne secche, qualsiasi cosa pur di non mollare, di restare aggrappati alla loro climaticamente invivibile città, avendo per interlocutori sconosciute nuove realtà internazionali che si chiamano neonato Israele o Cina comunista.Ma sono i camionisti dell’Eritrea e dell’Abissinia, tra tutti i tipi dell’ex Africa Orientale Italiana, a toccare di più il cuore di Besozzi: si mischia con uomini con la schiena spezzata ma con intatto il rispetto per se stessi, che campano trasportando carichi su rottami di camion, a 4-5 chilometri all’ora su “strade” con spuntoni di rocce a “dente di iena” alte mezzo metro, giù per scoscesi tratturi a strapiombo, attraverso fiumi violenti o con alvei prosciugati ma melmosi come sabbie mobili, vessati da predoni e funzionari corrotti, pale e zappe sempre alla mano per costruire tratti di pista con fatica di ore, giorni, di settimane. Individui sempre pronti a ripartire, le loro macchine senza parti di ricambio, i copertoni ricuciti col filo di ferro. Sono avventurieri che vivono avvolti nei loro autocarri scassati come i clochard nei propri cari stracci. Sono tenuti insieme e in cordata più che con funi di fortuna con reciproca solidarietà umana. Fanno sentire al cronista – e trasmette al lettore – il senso della sfida del “sogno del settimo viaggio”, quello che fa guadagnare qualcosa, dopo i primi cinque che non coprono le spese e portano al fallimento, alla débàcle umana, e il senso che trasmette di uscire almeno in pari. Il sogno diventa così quello di portare il proprio destino oltre ogni limite per salvarlo, cogliendo il suo significato più intimo: un richiamo che Besozzi sentiva potente, lui che, alla fine, quel settimo viaggio non riuscì a concludere uccidendosi il 18 novembre 1964, fiaccato non si saprà mai se dai “denti di iena” o da qualche predone del mondo circostante. O di un ostile demone interiore.
– 02/10/2000
Il sogno del settimo viaggio
Tommaso Besozzi fu uno degli ultimi giornalisti da strada a diventare una celebrità. Apparteneva alla categoria dei cronisti più puri, di quelli che usavano le scarpe prima ancora della penna. uomini trasformati poi in un mito.Reporter erranti cari alla cinematografia americana. Ai giorni nostri soppiantati dai deskisti: i cronisti culi di pietra che si allontanano dalle redazioni solo per la pausa pranzo.Il grande colpo, Besozzi lo mise a segno nel 1950 dopo l’assassinio del bandito Salvatore Giuliano. Inviato dell’Europeo, non prese per buona la ricostruzione ufficiale; “Di sicuro c’é solo che é morto” titolava l’articolo che smantellò la versione secondo cui il Robin Hood di Montelepre era stato ucciso in un conflitto a fuoco. Un pezzo esemplare di giornalismo investigativo, citatissimo in ogni scuola di comunicazione che si rispetti.“Tom”, come lo avevano soprannominato i colleghi, era fatto così. Andava, vedeva, raccontava.Sempre la stessa perizia. La medesima capacità di cogliere attraverso i particolari l’intera trama di un avvenimento. Era un ammalato di realtà e per questa ragione, “fu un grande cronista. Tanto grande che si suicidò.” Il 18 novembre del 1964 Besozzi si tolse di mezzo. Per farlo mise a punto in gran segreto un marchingegno micidiale, realizzato con la stessa perizia e meticolosità dedicata altre volte ai suoi articoli.Besozzi era nato a Vigevano il 20 gennaio del 1903 da una famiglia della media borghesia. Iscritto all’università, non fu mai dottore. nel 1927 era già un corrierista. Durante gli anni Trenta collaborò anche a Lettura, il mensile di divagazioni letterarie di via Solferino. Si affermò solo nel dopoguerra. Alla corte di Arrigo Benedetti che dirigeva il neonato Europeo divenne una prima lama. Di questo periodo sono le sue inchieste migliori. Fece scalpore quella, condotta in Francia, che portò al proscioglimento di Gino Corni, un italiano accusato per tre tentati omicidi.Sono datati fine decennio Cinquanta i primi segni del malessere. E’ l’inizio di una parabola discendente che non si arresterà più. Ma prima del tracollo c’é ancora il Giorno. Nel nuovo e scintillante quotidiano di Gaetano Baldacci, Besozzi combatte un corpo a corpo con quella forma di esaurimento nervoso che molto dopo, gli sarà fatale.A due spedizioni in Africa Orientale,(siamo ancora negli anni Cinquanta, per l’esattezza nel ‘50 e nel ‘54), appartengono i reportage raccolti nel volume “Il sogno del settimi viaggio”. “Tom vola nelle ex colonie italiche sulle tracce dgli ultimi compatrioti rimasti “insabbiati” sulle piste dell’altopiano etiope, tra Asmara e Addis Abeba. Gli piacciono i particolare i camionisti. Ne fa gli eroi delle sue microstorie. Ma eroi in miniatura, inconsapevoli protagonisti di una saga dal sapore decisamente crepuscolare. Altamente anti quella retorica hemingwayana allora di gran voga fra i giornalisti viaggiatori. Nel Continente nero, Besozzi non indossa la sahariana. Nè si atteggia a inviato speciale. Non imbraccia il fucile. Evita persino il binocolo. Non ha bisogno di suppellettili e amuleti per il suo personalissimi confronto conflittuale con la realtà: “Anche nel deserto se sai osservare succedono cose meravigliose”.In tono volutamente basso, cavalca sulla pagina scritta una mesta epica dei vinti. Racconta di esuli rimasti a lottare in terra ormai ostile. Di sconfitti di un tempo che fu. il cronista Besozzi é conquistato da quel miscuglio di rassegnazione e fatalismo tipico di chi ha coltivato un sogno andato in frantumi. Massaua, Decamere, Asmara, si trasformano ai suoi occhi in città teatro di uno spaesamento così folle da far sospettare un qualcosa di congeniale. E nei personaggi che le abitano quasi il segno di un destino condiviso.
– 01/04/2000
Anche Besozzi ci regala la sua Africa
“Il sogno del settimo viaggio” è una raccolta di racconti del grande giornalista narratore.
Poche parole ho scambiato con Tommaso Besozzi nelle sue rare apparizioni nel Transatlantico di Montecitorio,lui grande giornalista e io apprendista di vent’anni più giovane. La guerra era appena finita e ancora se ne aveva nell’anima il dolore, come lui mi disse; Besozzi era il modello del reporter-narratore, di colui che parlava di fatti concreti ma come se fossero immersi in un’aura di fantasia sognante, perfino quando nel 1950 sulle pagine dell’Europeo scopriva chi realmente avesse ucciso il bandito Salvatore Giuliano, al di là della eroica e bugiarda versione ufficiale.E’ uscita ora una sua raccolta di scritti africani (“Il sogno del settimo viaggio”, Fazi Editore) che, in quanto racconti, possono tener testa a Hemingway, sebbene ad un Hemingway più dolce e malinconico. All’Italiana! E del resto anche nei suoi racconti-corrispondenze, raccolti in questo libro, come in quelli dello scrittore americano, c’è molta Africa. Una comunanza di sentimenti che li avrebbe portati entrambi al suicidio.L’Africa stessa era per loro un sogno, come lo è stato a lungo anche per il popolo italiano che gli aveva persino orgogliosamente trovato la sua quarta sponda, perdendo di vista le polemiche sull’inutile “scatolone di sabbia” e trascurando il fatto di insistere nel colonialismo quando gli altri Paesi già vi rinunciavano. Cambiavano i tempi, e non se ne accorgevano.Con questo libro si rende giustizia, anche se tardivamente, a Besozzi il quale era assurto a grande notorietà per un caso di cronaca, eccezionale quanto si voglia, ma pur sempre un caso di cronaca: proprio quello relativo alla inquinata soppressione di Giuliano. Ma lui aveva ben altro nella penna: gli editori – e neppure i lettori – non sempre si avvedono delle qualità d’uno scrittore. E tardano a scoprirlo. Ma anche quando l’hanno scoperto, non sempre sanno sfruttarne a dovere il genio. E avviene che lo scrittore torni in una sorta di strana anonimia. Non è successo così a Moravia, a Calvino? E ci fermiamo qui nel rievocare nomi, per amor dell’Olimpo. Tom, puoi consolarti.Qui egli racconta di guidatori di camion che si affannano tra gli avanzi dell’impero sulle strade di Addis Abeba e Gondar: sono gli “insabbiati” perenni, i disperati dell’Africa Orientale. Ma essi non si preoccupavano perché li si poteva vivere senza orologio, senza calendario. Poi nel libro ci sono i poveri bianchi dell’Eritrea, come ci sono gli ippopotami e i coccodrilli; C’è perfino un don Giovanni somalo, cioè un sultano che sposa a settantaquattro anni una fanciulla al costo di cento cammelli: ed è la sua duecentoquarantatreesima moglie.Esaurimento nervoso, dissero per lui, superficialmente, i medici, quando Tommaso Besozzi si uccise. Egli si accorse che i suoi scritti non avevano più la presa di una volta e che anche il passaggio dall’Europeo di Arrigo Benedetti al Giorno, appena fondato da Gaetano Baldacci, si era rivelato un disastro.
I Reportages di Tommaso Besozzi e Pietro Veronese
Le loro Afriche
E’ tutta questione di punto di vista. Da dove guarda ai fatti il giornalista che la fortuna di viaggiare per raccontare avvenimenti più o meno noti? Sembra facile rispondere, magari tirando in ballo la trita questione dell’obiettività, dell’occhio che registra e della mano che riporta fedelmente. Ma se mai qualcuno ci ha creduto, oggi nessuno ci scommetterebbe un soldo. E allora si tratta di capire – per il lettore – e di rivelare – per il giornalista – da dove si guarda e che cosa si mette a fuoco.L’attenzione all’Africa delle storie individuali, ponte per raggiungere una dimensione più generale, accomuna il lavoro di due giornalisti tanto diversi come Tommaso Besozzi e Pietro Veronese, accostati dai calendari delle case editrici che hanno mandato il libreria “Il sogno del settimo viaggio” di Besozzi (Fazi, pp.137) e “Africa, reportages” di Veronese (Laterza, pp. 178). e dalla lettura ei volumi emerge un ritratto inedito del continente. A cominciare dalle storie di cui si sceglie di parlare.Besozzi viaggia tra gli italiani rimasti nelle ex colonie. Siamo a metà anni Cinquanta, e di quelle poche migliaia di persone non importa nulla a nessuno. Erano gli eroi della colonizzazione fascista, ora sono un peso di cui liberarsi. Sono gli “Insabbiati”, per lo più camionisti che fanno la spola in Eritrea, rafforzando un’esistenza tra mille traversie e tante avventure, di cui forse farebbe anche a meno. Ma certo non saprebbero più tornare indietro. Vivono in un tempo fermo, appiccicati ai soprannomi ricevuti all’arrivo. Come il “Pupo” – approdato in Africa che “ero coscritto” e poi rimasto lì, sempre il più piccolo perché dopo di lui non è più arrivato nessuno.Besozzi, che scrisse questi reportages per l’Europeo di Arrigo Benedetti, in certo modo è lui pure un “insabbiato”. E la sua vita di grande giornalista refrattario alle grandi luci alla fine lo porta al suicidio. Si chiedeva in uno dei suoi reportage se ci fosse qualcuno disposto a tendere la mano per salvare gli “uomini perduti” in Africa. Qualche anno dopo, nel 1964, nessuna mano è riuscito ad acchiapparlo prima che precipitasse fino al fondo della sua depressione. Meticoloso nella raccolta dei dettagli e delle informazioni per i suoi pezzi – il che gli consentì di scoprire la verità sulla morte di Salvatore Giuliano – fu altrettanto minuzioso nell’ammazzarsi, al punto da costruirsi l’arma del suicidio. Nel “Sogno del settimo viaggio” – curato da Enrico Mannucci, che il Besozzi ha anche scritto per Baldini & Castoldi la biografia (“I giornali non sono scarpe”) – ci sono pagine straordinarie. Besozzi scappa dall’epica, che sarebbe facilissima nella situazione in cui si trova, e predilige il tono antieroico. Uno degli esempi migliori è il resoconto sui mille mestieri inventati dagli “italiani naufragati”, gente che scommette ogni volta su una nuova impresa industriale, si costruisce persino gli strumenti di lavoro. Prima è la farina di pesce, poi i bottoni fatti con le conchiglie, oppure le spugne… E all’inevitabile fallimento si risponde ricominciando daccapo…C’è un’altra cosa che unisce testi tanto lontani nel tempo e nello stile, la più banale eppure la più rara. Ormai a caccia di storie si va sempre meno. Sempre di più i giornali sono scarpe, vengono no più “fatti” ma “prodotti” e dunque sono regolati da altre leggi che non sono quelle dell’informazione. L’inviato costa, lo spazio per il suo lavoro può essere più economicamente riempito mandando qualcuno a navigare su Internet. Anche lì di storie ce ne sono, e molte. Ma non hanno suono, non hanno sapore. L’informazione in tempo reale sembra quanto mai irreale. E forse oggi sono i giornalisti gli “insabbiati”.
GRANDI FIRME Escono in volume i reportage dall’Etiopia e dall’Eritrea: le inchieste di un inviato davvero specile tra gli ex coloni italiani
Cronache d’Africa di Tommaso Besozzi, l’Hemingway del nostro giornalismo.
Si dice che Ernest Hamingway, invitato negli anni Cinquanta a indicare il suo epigono italiano, abbia risposto “L’avete anche voi uno che scrive come me: Tommaso Besozzi”. Di quel grande giornalista, mai giunto al successo che avrebbe meritato e dai più dimenticato dopo la morte nel 1964, esce una raccolta di articoli che più Hamingwayani non potrebbero, almeno per quanto riguarda l’argomento. “Il sogno del settimo viaggio” racconta, infatti, la realtà sconosciuta dell’Africa, la lotta dell’uomo con la natura, il coraggio, la fatica, la difficile sopravvivenza. E la prosa è asciutta, immediata, come quella del maestro americano. ma gli articoli sapientemente scelti da Enrico Manucci, che ha il merito di aver già fatto rivivere, quattro anni fa, la figura di Besozzi in una biografia, mettono in risalto tutte le peculiarità dell’inviato davvero speciale che lavorò per il Corriere, per l’Europeo e, infine, per Il Giorno. Con la stessa fame di particolari con cui andò a misurare le tracce nel cortile di Castelvetrano dov’era stato ucciso Salvatore Giuliano (e fu il primo a confutare, con un clamoroso scoop, la versione ufficiale del conflitto a fuoco tra il bandito e le forze dell’ordine), Besozzi ricostruisce il safari in Somalia al seguito di un commerciante di animali per zoo, oppure la demolizione delle ex case degli italiani in Eritrea. E con la stessa passione un po’ fuorviante con cui mandò su tutte le furie il direttore Arrigo Benedetti perché aveva disertato un vertice internazionale a Parigi per vivere due giorni assieme ai clochard, si avventura nelle lande etiopiche alla scoperta di un oste friulano, rimasto in uno sperduto avamposto con la sua torma di figlioletti meticci, o percorre le viuzze una volta frenetiche di Massaua alla ricerca dei nostri connazionali improvvisati, dopo la catastrofe, mercanti di olio di pescecane. Ecco la straordinaria miscela Besozzi. La capacità di affresco e le doti narrative non vanno mai a scapito della tenacia del cronista; e gli sviluppi della storia maggiore non riescono a offuscare mai la sua attenzione per le vicende e i personaggi condannati ai margini dello scenario più importante. Per giunta, il giornalista di Vigevano salito alla ribalta della grande stampa sa raccontare in maniera epica senza cadere nella retorica. Esercizio complicato, specialmente quando, come in questa raccolta, deve destreggiarsi tra sentimenti acuti di sofferenza e di rimpianto. Giunge a compimento la decolonizzazione, l’amaro cammino a ritroso di quegli italiani che avevano varcato il mare sospinti dal sogno imperiale del “posto al sole”. E i protagonisti della maggior parte dei reportage sono gli “insabbiati” del dopoguerra, cronici del mal d’Africa, eroi della quotidianità disposti a combattere per un improbabile domani. In particolare, i pochi camionisti superstiti, i quali, per andare avanti, affrontano percorsi dove non esistono più ponti e asfalto, ma guadi, frane, fango, polvere. campioni, fino all’ultimo, di forza vitale. Quella che mancò a Tommaso Besozzi, eternamente afflitto dal tormento di un’incolmabile inadeguatezza. Fu così che l’inviato che piaceva a Hemingway piombò nella paranoia della pagina bianca, finendo per emarginarsi. E a 61 anni si uccise. Proprio come avrebbe fatto, più tardi, lo stesso Hamingway.
Il “mal d’Africa” dei nostri profughi
Tommaso Besozzi (1903-1964) è stato uno dei migliori cronisti italiani fra gli anni Trenta e Sessanta. Proveniente dal Corriere della sera, visse la stagione professionale più intensa all’Europeo di Arrigo Benedetti. Nel luglio 1950 vi firmò uno scoop clamoroso, correggendo la versione ufficiale sulla morte del bandito Salvatore Giuliano: non ucciso dai carabinieri in un conflitto a fuoco, ma eliminato da un sicario della mafia.Gli articoli dell’Europeo ripubblicati in questa raccolta, datati dal ‘50 al ‘57, si leggono con ammirazione. Ne emerge la semplicità d’un narratore di razza. Sono variazioni su un tema unico: le vicende degli italiani d’Africa Orientale, cioè quei nostri connazionali che, dopo il tramonto delle colonie, continuano a vivere laggiù.Besozzi li chiama “gli insabbiati”. Sono in prevalenza camionisti che si guadagnano la vita trasportando i loro poveri carichi da Addis Abeba ad Asmara. Città che erano state ricche appaiono ormai villaggi spogli e roventi. Eppure questi superstiti “non baratterebbero la loro sorte con alcun’altra”. Nessun sussiego da colonialisti “scaduti” impaccia i loro rapporti con gli indigeni. Besozzi – che morirà suicida a sessantun anni – offre così al lettore un’affettuosa rappresentazione del “mal d’Africa”.