Proponiamo un estratto dall’autobiografia dell’autore No Leading Lady, in cui R.C. Sherriff racconta la genesi del suo delizioso romanzo Due settimane in settembre.
Un giorno di punto in bianco mi venne un’idea per un romanzo.
Successe durante una vacanza a Bognor, dove avevamo l’abitudine di sederci sul lungomare a guardare la folla che passava.
Osservai quella fiumana interminabile di persone e iniziai a scegliere famiglie a caso e a immaginare le loro vite di tutti i giorni; quali speranze e ambizioni nutrissero i padri; se le madri fossero orgogliose dei figli o deluse da loro; quali di quei figli avrebbero avuto successo e quali invece si sarebbero limitati a lasciarsi trasportare dalla corrente, senza combinare nulla. Davanti a me scorreva un flusso incessante di facce che non avevo mai visto prima e non avrei rivisto mai più, ma per un attimo, mentre passavano davanti alla nostra panchina, li vedevo nitidamente, come individui, e di tanto in tanto qualcuno accendeva in me una scintilla di interesse che continuava a brillare nel ricordo dopo che se n’era andato.
Cominciò a venirmi voglia di prendere una di quelle famiglie a caso e costruire la storia immaginaria della loro vacanza annuale al mare.
Non poteva essere un’opera teatrale. Non era il tipo di storia adatto, e in ogni caso con il teatro avevo chiuso.
Doveva essere un romanzo, ma tutti i miei precedenti tentativi di scriverne uno erano finiti nel cestino della carta straccia. Il mio vocabolario dell’epoca non era all’altezza. Annaspavo, andavo a caccia di parole poco note che non avevo mai usato in precedenza e diventavo sempre più confuso, impantanato e frustrato. Ma in quel momento non mi conveniva scrivere con l’idea di pubblicare. Anche se fossi riuscito a finirlo non l’avrei mai spedito a un editore, rischiando un altro fallimento.
Volevo scrivere per il puro piacere di farlo, e cominciai una sera nella mia camera d’albergo. Ben presto mi ritrovai a scontrarmi con lo stesso, vecchio problema che mi aveva già tormentato in passato ogni volta che avevo tentato di scrivere un romanzo. Iniziai a spremermi le meningi in cerca delle parole, e quelle che trovavo non stavano bene insieme. Ero messo ancora peggio del solito, perché non avevo con me né il vocabolario né il dizionario dei sinonimi a darmi una mano.
Dopo una serie di sforzi infruttuosi cominciai a chiedermi se non fossi sempre andato fuori strada nei miei precedenti tentativi. Volevo scrivere di persone semplici, comuni, che facevano cose normali, eppure brancolavo alla ricerca di espressioni ridondanti e parole pompose. Era evidente che la via migliore fosse scrivere la storia di quelle persone con le stesse parole semplici che avrebbero usato loro per descrivere i propri sentimenti e le proprie avventure. Decisi di tentare quella strada, di limitarmi alla modesta riserva di parole che ero in grado di padroneggiare e vedere se avrebbero retto sulla lunga distanza. Forse non ne sarebbe nato un libro che qualcuno poteva aver voglia di leggere, però almeno avrei tenuto impegnata la penna e riempito le serate vuote.
La storia era semplice, così semplice che non avrei avuto la faccia tosta di usarla se avessi scritto per qualcun altro al di fuori di me. Una famigliola di periferia durante i suoi annuali quindici giorni di vacanza a Bognor: marito e moglie, una figlia adulta che lavora per una sarta, un figlio appena assunto in un ufficio di Londra e un altro più piccolo, che va ancora a scuola. Si trattava di un resoconto giornaliero della vacanza, dall’ultima sera trascorsa a casa prima di partire fino al giorno in cui facevano i bagagli per il viaggio di ritorno; della descrizione di come tutte le mattine uscivano dalla loro scalcagnata pensione per andare al mare; di come il padre traeva speranze per il futuro da quel breve periodo di libertà da un lavoro monotono; di come i figli incontravano l’amore e l’avventura; di come la madre, che aveva paura del mare, si sforzava di far credere agli altri che si stesse divertendo.
All’inizio lo stile terra terra non mi venne più facile di quello vecchio, ampolloso. Era difficile liberarsi dell’abitudine di andare in cerca di parole solenni e modi arzigogolati per dire le cose. Però, presto o tardi, qualche parola semplice, di quelle pagate un penny l’una, riusciva a farsi strada oltre un punto morto e con l’andar del tempo il lavoro iniziò a filare così liscio che ogni sera scrivevo più di quanto fossi mai riuscito a fare in passato in un’unica seduta.
Anche quel nuovo stile aveva i suoi trabocchetti. Se si scrive in maniera troppo semplice si rischiano cadute di tono, e la scrittura acquista una specie di pretenziosità al contrario. Se si esagera nel renderli semplici, i personaggi diventano troppo piccoli, e si finisce per trattarli con sufficienza. Mi ci volle tempo per dare equilibrio alla storia. Cominciai guardando dall’alto in basso le persone di cui scrivevo; poi esagerai nel senso opposto e mi ritrovai a considerarle con eccessiva ammirazione. Fu solo quando arrivai a conoscerle davvero che imparai a camminare loro accanto con disinvoltura, fianco a fianco.
L’attrattiva della storia consisteva nel fatto che non avevo preparato nessuna scaletta e non sapevo mai cosa sarebbe successo nel capitolo successivo finché non arrivavo a scriverlo. Questo mi manteneva in sintonia con i personaggi, perché neanche loro quando andavano a letto la sera sapevano cosa sarebbe successo il giorno dopo, non più di me quando spegnevo la lampada della scrivania e andavo a mia volta a dormire. Terminato il romanzo lo intitolai Due settimane in settembre.
Per tutta la durata del lavoro avevo continuato a ripetermi che stavo scrivendo solo per me, senza la minima intenzione di proporre il risultato a un editore. Se ci avessi pensato anche solo minimamente non mi sarei divertito così tanto. Ma una volta finito non riuscii a trattenermi dal farlo vedere a qualcuno per sapere cosa ne pensava. Nel rileggerlo mi sembrò scritto in una lingua infantile, ma nello stesso tempo fuori dal campo di interesse dei bambini. Sarebbe stato un errore proporlo come un libro per loro, ma non riuscivo a farmi venire in mente quale categoria di adulti potesse essere disposta a sorbirselo.
Victor Gollancz aveva pubblicato Il grande viaggio ed era l’unico editore che conoscevo di persona. Ma Gollancz era un intellettuale e un perfezionista. I romanzi che pubblicava venivano acclamati dalla critica per la loro alta qualità letteraria, e mandargli Due settimane in settembre era un po’ come offrire una caramellina alla frutta a un leone. Però non avevo niente da perdere. La mia reputazione come autore di narrativa era pari a zero, e i miei recenti fallimenti con la scrittura drammaturgica mi avevano vaccinato contro la delusione. Il romanzo seguiva la stessa formula che avevo già utilizzato per il teatro: lo stesso tipo di protagonisti, persone normali; lo stesso tipo di storie, basate sulla vita quotidiana. Mandarlo a Gollancz significava approfittare parecchio della nostra amicizia, però sapevo che l’avrebbe letto di persona, e che qualunque cosa ne avesse pensato sarebbe rimasta rigorosamente tra noi due. Lo conoscevo abbastanza bene per essere sicuro di stare in buone mani.
Aspettai con filosofia di ricevere indietro il romanzo accompagnato da un’amichevole lettera di rifiuto, e invece quella che mi arrivò fu la più grande sorpresa che avessi mai ricevuto in vita mia. «È un romanzo delizioso», erano le prime quattro parole, e furono come un raggio di sole dopo mesi trascorsi in una stanza buia. Era una lettera splendida. Ci si aspetta sempre che gli editori siano cauti e controllati, ma non c’era traccia di cautela nella lettera di Victor. Il suo entusiasmo era totale. «Sarò felice di pubblicarlo», mi aveva scritto. «Non cambierei neanche una parola».
E in effetti lo pubblicò esattamente come l’avevo scritto io, e le reazioni furono grandiose. «Un romanzo splendido», scrisse il «Daily Telegraph». «Un piccolo capolavoro», lo definì il «Sunday Express». «Incantevole», fu il commento di un altro quotidiano. Proprio come era successo con Il grande viaggio.
E tra il pubblico, che aveva voltato le spalle allo stesso genere di storie scritte in forma teatrale, il romanzo andò a ruba. La prima edizione si esaurì in una settimana; diecimila copie sparirono appena fuori dalla tipografia; ventimila si vendettero in un mese. Un editore americano lo fece uscire a tempo record. E anche oltreoceano le recensioni furono osannanti e le vendite altissime come in patria. Fu acquistato in Germania, Francia, Scandinavia, Italia e Spagna, e alla fine quasi dallo stesso numero di paesi europei che a suo tempo avevano comprato Il grande viaggio.
Per quale motivo avesse attecchito nessuno lo sapeva con certezza. Forse soprattutto perché la storia era facile da leggere, senza nulla di imponente o pretenzioso, e perché era una storia che non era già stata scritta. Una ragazza di New York mi raccontò in una lettera che lo leggeva tutte le mattine sul traghetto mentre attraversava il fiume Hudson per andare a lavorare in centro, e che la lettura le scaldava il cuore, la faceva sentire libera e felice.
Da parte mia, sembrava che riuscissi a fare centro solo se non ci provavo. Non ci avevo provato con Il grande viaggio. L’avevo scritto per passare il tempo nelle serate invernali, senza pensare minimamente alla pubblicazione. Ci avevo provato con tutte le mie forze nei due lavori teatrali successivi, ed entrambi erano finiti nello scarico del gabinetto. Avevo rinunciato a provarci perché non ne valeva più la pena, avevo scritto il romanzo per passare il tempo, e mi ero ritrovato di nuovo in cima al mondo.
Guardando le cose con lucidità, mi sembrava che quel libro non avesse fatto niente per rimettermi in piedi come scrittore professionista. Non si può vivere di saltuari colpi di fortuna che, a quanto sembrava, arrivavano solo dopo aver accumulato una quantità di fallimenti tale da spingermi a smettere di provarci. Mi ero bruciato gravemente le dita cercando di inseguire un mostruoso successo in teatro con altri due lavori drammaturgici, e non volevo rischiare che mi capitasse di nuovo. Se avessi cercato di approfittare del trionfo del mio primo romanzo tirandone fuori un secondo, i critici avrebbero detto che non era un altro Due settimane in settembre, e senza dubbio avrebbero avuto ragione; perciò la cosa migliore da fare era lasciar perdere e non svegliare il can che dorme.
R.C. Sherriff