Pubblichiamo la traduzione di Valentina Bortolamedi dell’articolo di Claire Fannon apparso il 21 aprile 2014 sul «Huffington Post».
Quest’anno, per il centonovantottesimo compleanno di Charlotte Brontë, è ora che io finalmente confessi un segreto che mi perseguita da tempo. Penso che Jane Eyre, il capolavoro di Brontë, sia un po’ sopravvalutato. So che la mia affermazione sembra radicale. È uno dei grandi classici vittoriani – e credetemi, non difenderei mai una stroncatura totale di questo romanzo tanto amato. Quando da adolescente lessi Jane Eyre per la prima volta, me ne innamorai perdutamente, e mi stimolò a leggere tutte le Brontë, divorando The Tenant of Wildfell Hall di Anne, Cime tempestose di Emily e Jane Eyre a ciclo continuo.
Jane Eyre arrivava nel profondo della mia anima, sintetizzando tutta l’angoscia adolescenziale che aveva piagato la mia non facile transizione all’età adulta. Le Brontë e Jane Austen furono la mia iniziazione al mondo della letteratura classica, ma Jane Eyre era il libro che sentivo più visceralmente vero e potente. Quindi fui sorpresa quando realizzai, rileggendolo qualche anno dopo per un corso all’università, che non trovavo più tanto virtuosistica la sua verosimiglianza. Sembrava stucchevole, ampolloso, quasi assurdo in certi punti, e il finale trionfante del matrimonio di Jane con il decisamente imperfetto Mr. Rochester mi turbò. Leggendo Una stanza tutta per sé, mi trovai d’accordo con Virginia Woolf, secondo la quale la rabbia di Brontë nei confronti delle limitazioni a cui era sottoposta in quanto donna indeboliva il suo controllo in quanto scrittrice, generando disomogeneità e strani cambi di tono in Jane Eyre. Studiare le implicazioni razziste, colonialiste e antifemministe dell’imprigionamento da parte di Rochester della sua “folle” moglie creola, Bertha Mason, mi fece mettere ulteriormente in discussione l’alta considerazione del libro che avevo avuto in passato. Per lo stesso corso all’università lessi Villette per la prima volta e mi trovai a domandarmi perché il quarto romanzo di Brontë non avesse avuto più successo del secondo, che oggi trovo così disarmonico e debole.
Nonostante le mie nuove riserve accademiche sul valore di Jane Eyre, con il passare del tempo mi resi conto che l’establishment intellettuale ne era ancora assolutamente convinto. Ottenne la dodicesima posizione nella classifica stilata dal «Guardian» dei cento migliori romanzi di tutti i tempi, e di recente «Flavorwire» lo ha piazzato al secondo posto nella sua classifica dei migliori romanzi inglesi del diciannovesimo secolo – escludendo Middlemarch e Orgoglio e pregiudizio, una decisione che posso definire solo criminale. (OK, è un pochino esagerato. Un pochino). Villette in queste classifiche compare poco o non compare proprio (nonostante «Flavorwire» l’inserisca di soppiatto al numero 48); Jane Eyre è stato decretato “il” romanzo di Charlotte Brontë in modo piuttosto definitivo.
Ci sono buone ragioni per l’importanza riconosciuta a Jane Eyre all’interno del canone letterario. È strutturato in maniera elegante e scritto con energia, con una forza drammatica che fa accelerare il battito del lettore. Può vantare frequenti esplosioni di prosa veramente ispirata che mostrano la genialità di Brontë. Nonostante la problematicità del ritratto di Bertha, Jane Eyre dà anche voce alla rabbia e alla frustrazione delle donne soggiogate: Brontë usa Jane come portavoce per le proprie denunce della misoginia diffusa. Sebbene Jane finisca per annullarsi nella cura matrimoniale entro la fine del romanzo, ha mantenuto la propria dignità e l’indipendenza per tutta la sua durata, tornando dal tirannico Mr. Rochester solo quando lui è stato umiliato abbastanza dalla cecità e dai danni subiti – ed è libero dopo la morte della sua folle moglie. Certo, Jane alla fin fine si sposa, ma si guadagna il ruolo casalingo passando per l’autosufficienza e la severità morale, non attraverso un atteggiamento passivo.
Dal canto suo, naturalmente, nemmeno Villette è privo di messaggi contrastanti sulla legittimazione femminile. Ma offre una narrazione alternativa e altrettanto forte, e contiene a sua volta lezioni convincenti che rimangono valide per le donne di oggi. Villette mostra una certa somiglianza brontiana con Jane Eyre – misticismo gotico, intensità spirituale, esplosioni di lirismo appassionato, un’eroina piuttosto insignificante che si fa strada in un mondo ostile – ma per molti altri versi è il contrario. Jane Eyre si sviluppa sulla netta contrapposizione tra bianco e nero, mentre Villette si sviluppa, dal punto di vista psicologico ma anche fattuale, all’interno di spazi grigi. Laddove viene stabilita la natura speciale di Jane, nonostante la sua povertà e l’aspetto ordinario, l’eroina di Villette, Lucy Snowe, è dipinta come una figura senza pretese che per la maggior parte del romanzo mantiene un ruolo di osservatrice. Jane insiste sul proprio operato, mentre Lucy, quando va bene, mostra una reazione emotiva. A dispetto di tutto ciò, è Lucy quella che si libera davvero dell’obbligato destino domestico.
Romanzo più psicologico e smorzato, Villette narra di una giovane donna che lotta con il conflitto interiore con cui molti di noi sono alle prese nel mondo reale. Abbassati i toni melodrammatici, si accende la sfumatura. Le battaglie emotive affrontate da Lucy Snowe sono rese ancora più scoraggianti dalle loro realistiche difficoltà: le sue rivali in amore, Ginevra e Paulina, non solo completamente spregevoli, e Lucy ha uno sguardo troppo lucido e maturo per non riconoscere le loro virtù e amarle a prescindere dalla gelosia. L’enigmatica direttrice della scuola dove Lucy insegna, Madame Beck, sarà anche una che complotta e manipola, ma Lucy ne ammira la forza di volontà e la capacità di leadership. La sensibilità di Lucy e il suo talento nel trattare l’ambiguità emergono in un romanzo che è molto affettuoso con i suoi personaggi – in particolare le donne – e che non pretende di imporre modelli, ma sottolinea i lati positivi e accetta quelli negativi di tutti i protagonisti.
L’interesse di Brontë per l’ambiguità è così evidente che persino i fatti, in Villette, restano irrisolti. La totale solitudine di Lucy Snowe nel mondo sembra essere occasionata da varie tragedie, ma lei esita a descrivere le sue sofferenze in modo diretto, offrendo invece al lettore la possibilità di credere a una verità migliore. Con gran riluttanza, l’autrice glissa su una grave perdita familiare all’inizio del libro:
«È facile congetturare, naturalmente, che fossi contenta di tornare in seno alla mia famiglia. Va bene! Questa amabile ipotesi non fa male a nessuno e perciò possiamo tranquillamente evitare di smentirla. Anzi, ben lungi dall’oppormi, permetterò al lettore di immaginarmi per i successivi otto anni come un naviglio addormentato nel più sereno clima, in un porto dove il mare è tranquillo come la superficie di uno specchio; il timoniere steso sul piccolo ponte, il viso rivolto al cielo, gli occhi chiusi: assorto, se volete, in una lunga preghiera. Più o meno in questo modo, si suppone, trascorrono la loro vita moltissime donne e fanciulle; perché io non dovrei fare come le altre?».
Pur facendo luce sul dolore che l’attanaglia, Lucy offre ai lettori una scelta felice, dandoci il permesso di leggere la storia in modo diverso. Dobbiamo decidere se accetteremo la verità del suo dolore o sceglieremo il sentiero piacevole dell’ignoranza ostinata. Il romanzo si conclude in maniera analoga, resistendo alla nitidezza in favore di un’ambiguità sconcertante. In Jane Eyre, Brontë ci presenta scelte chiare e un’irrevocabilità drammatica, mentre in Villette ci fa faticare per capire, per formulare un giudizio morale, e anche per stabilire quali fatti accettare come veri.
La sottigliezza di Villette culmina in un finale che è rivoluzionario ma che viene abilmente minimizzato. In un attimo, Brontë accantona la trama del matrimonio e la rimpiazza con una trama sulla carriera, e lo fa tanto velocemente che ai lettori può sfuggire la radicalità della sua scelta. La dimessa Lucy ha finalmente trovato l’amore con M. Paul, un collega irascibile ma premuroso della scuola, ma lui viene mandato all’estero per diversi anni prima che possano iniziare una vita insieme. Prima di partire le promette di ritornare e l’aiuta a metter su una scuola tutta sua. La scuola prospera e il suo successo le permette di vivere in maniera indipendente. Questo altro non sembra che un ulteriore passo nella trama tradizionale del matrimonio, ma all’improvviso Brontë butta via il copione e si azzarda a insinuare che l’amante di Lucy non tornerà mai per prenderla in moglie. Dopo aver descritto una tempesta terribile che prende il sopravvento sulla sua nave durante il viaggio di ritorno, Lucy si ferma:
«Fermati, fermati subito. È stato detto abbastanza. Non turbare nessun cuore tranquillo e buono; lascia che l’immaginazione speri ancora. Sia ancora concesso di sognare la delizia della gioia che rinasce dal grande terrore, il rapimento della salvezza dal pericolo, il meraviglioso sollievo dell’angoscia, il godimento del ritorno. Possano immaginare anche il ritorno e la vita felice che seguirà».
Alla fine, Brontë ci lancia un’ancora di salvezza, la fragile possibilità della beatitudine matrimoniale per Lucy, ma il suo messaggio è fin troppo chiaro: M. Paul è morto durante un naufragio. Ma la distruzione della prospettiva matrimoniale per Lucy la lascia con uno scopo importante nella vita: la sua scuola. La storia della protagonista non si costruisce su un matrimonio, ma su delle soddisfazioni lavorative. Nonostante la devastazione causata dalla morte del suo amante, la visione di una donna single di successo – personificata anche da Madame Beck in Villette – costituisce un’opzione alternativa per uno stile di vita possibile, per una donna. Laddove Jane Eyre vacillava, Villette sfida i lettori a immaginare una strada valida per un personaggio femminile che non finisca in un matrimonio né in un ruolo domestico.
A prescindere dal mio trascorso problematico con Jane Eyre, il mio amore per il romanzo durerà sempre. Ad ogni modo, Villette contiene dei piaceri sottili e toccanti che valgono una considerazione almeno pari a quella della sua controparte più esposta ai riflettori. Per festeggiare il compleanno di Charlotte Brontë, riserviamo tutti un po’ più di rispetto a Villette.
Traduzione di Valentina Bortolamedi