Gustaw Herling
Le perle di Vermeer
Introduzione di Francesco M. Cataluccio
Traduzione di Laura Quercioli Mincer e Piero Di Nepi
Cosa succede quando un grande scrittore interroga la bellezza nelle sue forme mediate da sguardi di artisti del passato? Può gareggiare con l’immagine attraverso uno “stile simbiotico” che restituisca l’emozione dell’esperienza estetica; o muoversi con un’indagine serrata e poliziesca a catturare l’intima verità dell’opera, la trama filosofica e poetica che si nasconde “dietro” l’immagine. Gustaw Herling intesse ne Le perle di Vermeer una trama ideale di quadri e città, tra Rinascimento e Barocco, in una piccola galleria di sette “medaglioni”, unità narrative tratte dal suo Diario scritto di notte. Le città italiane come Parma, Siena o Volterra; i grandi pittori come Caravaggio, Rembrandt e Vermeer, ci parlano, attraverso Herling, di quella “zona d’ombra” dove s’esprime l’umano nella sua ambigua collocazione tra bene e male, tra luce e tenebre, con un anelito di eternità e bellezza, sempre deluso, sempre inseguito.
«Un agile libretto […] poche pagine ma deliziose».
«Il Mondo»
«Un viaggio nella zona d’ombra, dove duellano bene e male, luce e tenebre».
«Tuttolibri»
“Le perle di Vermeer” di Gustav Herling
LA TRAMA FILOSOFICA DIETRO L’IMMAGINE
“Sono rimasto a Napoli perché era la città che Livia amava, mentre io lontano dalla Polonia non avevo più una mia città. Ma sapevo che chi sceglie l’esilio paga un prezzo e che la vita in Italia per me sarebbe stata dura”.A Napoli l’esule polacco, lo scrittore Gustav Herling, ancora studente di filosofia, ma già apprezzato critico letterario, arrivò per la prima volta durante la seconda guerra mondiale, dopo essere stato internato nel campo di concentramento sovietico di Kargopol, sul Mar Baltico, tra il 1940 e 1942. Herling faceva parte del secondo corpo polacco comandato dal generale Anders, e fu mandato per un breve periodo di convalescenza a Sorrento, dove a villa Tritone si trovava Benedetto Croce con la famiglia.Il giovane critico andò a trovare il vecchio filosofo, e conobbe una delle sue figlie, Livia, appunto, e anni dopo la sposò; e fu per Livia che decise di stabilirsi a Napoli, nel 1955, preferendola a Parigi, patria degli esuli dell’Est e dove si stampava “Kultura”, la rivista dei fuoriusciti polacchi. Herling sapeva di non poter tornare nella Polonia comunista, dove non avrebbe avuto più possibilità di scrivere, di pensare. Ma sapeva anche che in Italia per lui sarebbe stata molto dura, lontano dagli altri fuoriusciti, in un Paese che artisti e scrittori scelgono soprattutto per motivi estetici. Infatti, solo nel 1991, dopo che Feltrinelli pubblicò “Diario scritto di notte”, Herling ha conosciuto la notorietà, è stato apprezzato, dopo lunghi anni di semioscurità, pur avendo dato alle stampe numerosi volumi, tra cui il bellissimo “Un mondo a parte”, apparso da Laterza nel 1956, e riproposto da Feltrinelli nel 1994, una testimonianza fondamentale sui gulag sovietici, per il quale fu bollato indelebilmente come anticomunista e preso a bersaglio da certa intellettualità.Ma Herling, vietato per anni in patria , dove i suoi libri stanno conoscendo adesso un grande successo, quel successo che finalmente lo ha additato al grosso pubblico anche in Italia, che scrive in polacco, ha pubblicato anche alti importanti volumi, come “L’isola” (Mondadori) e la raccolta di racconti “Ritratto veneziano” (Feltrinelli). Adesso l’editore romano Fazi, nella sua bella collana “Le porte”, ha pubblicato una raccolta di scritti di Herling sull’arte e sulle città italiane, che non sono solo dei pungenti interrogativi sulla bellezza letta attraverso delle esprressioni figurative, ma anche una sorte di apologhi a chiave. Il libro si intitola “Le perle di Vermeer” (Fazi editore, pp.XVI-85, lire 20.000) e reca una penetrante introduzione di Francesco M. Cataluccio, lo studioso italiano più attento all’opera dello scrittore polacco.Scrittore che sfugge alle definizioni, Herling in queste pagine, tratte da “Sei medaglioni e i cofanetto d’argento”, apparso a Varsavia nel 1994, disegna un suo percorso personale di lettura, alla ricerca, tramite le immagini dei pittori, del “nucleo poetico della loro arte”. Così Vermeer, Caravaggio, Ribera, Mantegna, Masaccio, Rembrandt, Altichiero, Simone Martini, Duccio da Buoninsegna sono sondati non con l’occhio del “professionista”, dello storico dell’arte, ma indugiando, con una prosa lucida e accattivante, sulle loro idee, sulle emozioni che i loro quadri trasmettono. “Per lui, i quadri e le statue non sono un fine, ma un mezzo”, scrive giustamente Cataluccio nel suo saggio, per analizzare fino in fondo gli elementi che compongono l’opera, quel mosaico di segreti e riferimenti, di misteri e di storie che racchiudono. Non “medaglioni”, dunque, né semplici ritratti, ma la compenetrazione di elementi che Herling con il suo approccio personale, ricco di documentazione, dipana descrivendo le opere con gusto del particolare, come se il lettore le conoscesse, le avesse davanti agli occhi. Un itinerario personalissimo, che si muove anche tra alcune città italiane, tra il “grande palcoscenico” di Siena, dove “tutto invecchia, nulla muore”, e Volterra, Cortona, Parma, con “il suo carattere di miniatura” e l’attrazione esercitata da Stendhal. Ma è nel dialogo con i pittori che questi testi rivelano il personalissimo procedere dello scrittore, affascinato dai pittori della luce e delle tenebre, come il Caravaggio, in cui “la luce e l’ombra esprimono rispettivamente il mondo visibile e quello non visibile”, in una compenetrazione di vita e di morte, o come in Ribera e Rembrandt, nell’analisi dei suoi ritratti, nei quali l’olandese investigava il proprio volto “in quanto espressione delle trasformazioni della psiche”. Luce e tenebre, mistero dell’ignoto e potenza della rivelazione, dunque; ma anche indagine del certo e dell’incerto, come in Vermeer, condotta con fare investigativo, in un procedere ideale per capire la trama filosofica e poetica che si nasconde dietro l’immagine.Quell’immagine che Herling rivela in un procedere piano, con accostamenti imprevedibili, tra nuclei narrativi che alla fine ubbidiscono non solo a un intento estetico, alla ricerca della bellezza sempre inseguita ma mai definitivamente catturata, ma anche alla ricerca di se stessi, dal proprio essere. In fondo, come diceva Pascal, “se non esistessero le tenebre, l’uomo non avvertirebbe la propria corruzione, e se non esistesse la luce, non avrebbe speranza di risanamento.
– 09/08/1997
In una raccolta edita da Fazi l’analisi di Gustaw Herling sui rapporti fra arte e letteratura
Così anche il tempo si è fermato nei quadri di Vermeer
In miniatura o “in nuce”? Fa lo stesso, quello che conta è l’intenzione (e il desiderio) dello scrivente. Intendo miniaturizzare un gigante, voglio sgranare il nucleo del suo genio, simile a un gioiello dalle molte sfaccettature, a una perla dalle molte sfaccettature, e descrivere alcune di esse con la massima concisione. Credo infatti che l’amore per i grandi artisti, così come l’innamoramento per una persona, sia un sentimento che impone una pudica parsimonia di termini. Tanto più grande è l’amore, tanto meno le parole Assapora l’arte del tuo prescelto, esprimiti quando veramente devi farlo, ammira la sua opera in un silenzio raramente interrotto”.Con queste parole lo scrittore polacco Gustaw Herling (nato a Kielce nel 1919, vive a Napoli dal 1955), fornisce una delle più brillanti variazioni sul tema dell’ambiguità simbiotica che caratterizza i rapporti tra arti figurative e letteratura ogni qualvolta l’opera letteraria si ponga come chiave interpretativa di una creazione artistica e del suo artefice, ambiguità che costituisce il fulcro di “Le perle di Vermeer”, una raccolta di sette unità narrative tratte dal ponderoso “work in progress”, intrapreso da Herling nel 1971, intitolato “Diario scritto di notte”. La raccolta, pubblicata dalla Fazi Editore e curata da un esperto dell’opera di Herling come Francesco M. Cataluccio (curatore, fra l’altro, dell’edizione italiana delle opere di Witola Gombrowicz) conferma una volta di più il talento “poetico-esegetico” di Herling, un autore che il pubblico italiano sta scoprendo, seppur tardivamente grazie alla traduzione di opere come “Un mondo a parte” (Feltrinelli 1994) pubblicato nel 1951 e definito da Bertrand Russel “il libro più sconvolgente e meglio scritto sui lager sovietici” frutto dell’esperienza di due anni di prigionia nel campo di internamento di Kargopol durante la seconda guerra mondiale. Con “Le perle di Vermeer” Herling si pone in qualche modo sulla scia di Rudolf Borchardt (1877-1945) che con il suo “Città italiane” (Adelphi, 1989) continua a rappresentare uno dei massimi esempi di scrittore – esegeta dedito alla ricerca dell’ “essenza” estetico – culturale celata dietro un paesaggio o un’opera d’arte, un autore Borchardt con il quale Herling condivide la patria d’elezione, l’Italia (Borchardt visse per più di trent’anni in Toscana). Tuttavia – a dispetto delle sorprendenti analogie – sarebbe quantomeno azzardato inquadrare Gustaw Herling come un semplice epigono di Borchardt; per lo scrittore polacco, infatti, l’immagine pittorica rappresenta, per così dire, l’ “attimo estetico” con cui si concretizza l’eterno contrasto Luce/Ombra/Bene/Male, contrasto che però non individua un “Weltanschauung” di tipo manicheo in quanto Herling riconosce l’ambiguità che contraddistingue il confine tra gli opposti. In quest’ottica si inserisce la predilezione nei confronti di pittori la cui arte è caratterizzata da forti contrasti luministici, come Caravaggio, Rembrandt, Vermeer, Ribeira, a ciascuno dei quali Herling dedica uno dei “medaglioni” (la definizione è dello stesso Herling) che compongono la silloge di “Le perle di Vermeer”. E proprio nel medaglione dedicato al Maestro di Delft, da cui la raccolta prende il titolo, Herling si lancia in una delle sue più affascinanti interpretazioni sull’arte di Vermeer, paragonando la tipica atmosfera di tempo sospeso che contraddistingue i quadri di Vermeer al processo di accrescimento della perla intorno al suo nucleo (interessante parallelismo nucleo biologico / nucleo poetico). E’ però nel medaglione dedicato a Rembrandt (“Rembrandt in miniatura”) che Herling chiarisce la sua visione dei rapporti fra arte e letteratura (“… Tanto più grande l’amore, tante meno le parole …” pag. 38) proponendosi come un puro evocatore di immagini, attraverso le quali si dipana il filo delle vicende umane ed artistiche del grande pittore fiammingo (da notare l’impianto volutamente teatrale che caratterizza la descrizione degli ultimi istanti di vita di Rembrandt). La stessa impostazione di carattere evocativo si ritrova nella descrizione della Parma di Stendhal (pagg. 10-12) o in quella di Siena e dei suoi dintorni (pagg. 14-25), ma soprattutto, con un impatto visivo di grande violenza, nel medaglione dedicato a Caravaggio (pagg. 26-37), in cui Herling immagina il pittore di fronte al rogo di Giordano Bruno (“Caravaggio indietreggiò, accecato dall’ultima luce del rogo che si andava spegnendo. Rimase fermo nell’ombra e con le mani contratte si coprì il viso, il viso a noi noto dall’autoritratto con la testa mozzata di Golia”), una scena di cui lo scrittore polacco si serve per ribadire la sua teoria sul parallelismo tra la filosofia di Bruno e l’arte di Caravaggio (“…Bruno situava Dio e ne andava alla ricerca in quella striscia, incommensurabilmente stretta, situata fra la luce e l’ombra, Caravaggio in pittura, così credo, faceva lo stesso” pagg. 33). Una teoria, quella dell’ambiguo crinale Luce/Ombra, che si attaglia perfettamente alla poetica dell’autore di “Un mondo a parte”.
Gustav Herling e i segreti pittorici
Perle d’arte
Cristina Campo nello scritto ‘La torre e l’isola’ dove affianca paragoni, nella diversità, fra Gustav Herling e Jorge Luis Borger, così dice: “E tra il gelo pitagorismo di Borger e la tenebrosa cattolicità di Herling c’è una costante comune: sono i due soli narratori contemporanei incapaci di ideare un racconto che non abbia il rigore di una fuga o di una ‘chanson royale’: dove nulla resterà senza una risposta, senza un’eco fatale e rivelatrice; dove il mistero si manifesterà, come deve, nel silenzio degli specchi e nei cicli della spirale”, offrendoci non un ritratto ma preziosi indizi. Così la recente pubblicazione di alcuni dei suoi saggi sull’arte ci potranno sembrare non solo legittimi ma anche attesi. Infatti i suoi “intarsi improvvisi”ci portano nel mondo della pittura con tutte le magiche suggestioni letterarie che vi incastona. Il libro si intitola ‘Le perle di Vermeer’ dal titolo di uno dei medaglioni presenti nel volume e di questo parleremo. Prima premettiamo però quello che documenta anche Francesco M. Cataluccio nell’introduzione: “L’approccio di Herling all’arte non è, come lui stesso ammette, da “professionista”. Si definisce modestamente” un frequentatore di mostre non reazioni alla pittura tipicamente letterarie”, tratto esplicito per come dobbiamo leggere queste pagine impregnate dei musei visitati e scritte con un inchiostro che si è bagnato negli olii che descrive. Lo spazio narrativo si muove dentro lo spazio pittorico del quadro nella cornice letterarie delle biografie. Una critica d’arte non da critico d’arte e neppure da storico, ma per questo molto importante come contributo alla lettura dell’arte. Così dobbiamo leggere questi quadri che conquistano il suo sguardo. L’interesse recente del Vermeer ‘riscoperto’ è già nel 1991 per Herling inquietudine e fascinazione. Inizia a riflettere su quello che Proust definiva “il più bel quadro del mondo”, cioè ‘Veduta di Deft’. “Proust… riteneva con gli occhi di Bergotte che il frammento di muro giallo nell’angolo destro fosse dipinto in modo così perfetto, che osservarlo da solo avrebbe potuto tranquillamente passare per un’opera di “bellezza autosufficiente”. Bergotte nel ‘Delirio dell’agonia’ ripeteva: “un frammento di muro giallo”. Così arriva a enucleare attitudini delle donne di Vermeer: “simili immagini di donna sono dominate da un’aura di clausura. Forse per questo il leggere e lo scrivere lettere vi svolgono un ruolo fuori dell’ordinario: è il linguaggio di color che sono abituati al silenzio”. Ma ciò che Hearling trova sono proprio le perle pescate nei fondali della pittura, una pittura del “tempo sospeso” come la genesi delle perle che adornano i quadri e le donne di Vermeer. “Che si sollevi il velo del segreto pittorico e poetico di Vermeer. Trentino di farlo le perle da lui predilette”.
– 09/11/1997
Luci e ombre delle “Perle di Vermeer” di Herling
Alla ricerca di un ponte fra Rinascimento e Barocco
Non sempre ci aggradano i testi di critica d’arte, prolissi, scientifici, a volte scostanti; diverso è il nostro stato d’animo di fronte alle letture piacevoli, interessanti e un po’ “sui generis”, come “Le perle di Vermeer” (Fazi editore), egregiamente scritto dal polacco Gustaw Herling, già creatore di “Inny swiat” nel 1951. Non è un racconto e neppure una biografia, va ben oltre, si infila prepotentemente nei paesaggi, nei personaggi e nelle menti dei più grandi artisti che hanno percorso il Rinascimento e l’età Barocca. I quadri dei suoi “prescelti” divengono sette testi sui quali riflettere in modo tutto nuovo. Una sorta di mélange di sensazioni, polemiche morali e politiche, ma soprattutto l’autore apre nuovi spiragli di luce su aspetti decisamente trascurati dalla letteratura e dall’arte. I suoi occhi sono quelli di un curioso affascinato dai più piccoli particolari con i quali ricostruisce, con maestria, la psicologia sconosciuta di un artista. Non si reputa né un professionista e neppure uno storico dell’arte, il suo scopo principale è recuperare nei pittori il nucleo poetico della loro essenza. In questo campo effettua spesso delle fredde considerazioni e scava gli elementi che permettono di ricostruire la storia. Nel difficile percorso il suo pensiero è colpito più dal paesaggio che dalle figure, ma ciò che più lo attrae è stabilire in che rapporto si pongono con la pittura le coppie di opposti che fanno parte della vita: luce e tenebre, bene e male; tra queste non c’è una perfetta simbiosi ma una sottile “zona grigia” che annebbia i vari campi d’azione. Il viaggio artistico di Herling parte da Parma, piccola e monumentale, col suo Duomo modello di crescita organica, e nelle opere che lo rendono vivo con l’Antelami, maestro romanico dell’armonia terrena, che sicuramente ha tenuto sulle sue ginocchia quel frate Salimbene autore del “Chronicon” medievale. E Siena, la Piazza del campo, il piccolo “theatrum mundi”, la fonte Gaia, la maestà di Duccio e quella di Simone Martini; Enea Silvio Piccolomini, Papa Pio II, scrittore di quella novella giovanile “Storia di due amanti” dagli accenti audaci e decisamente poco adeguati alla psiche di un futuro Papa. Volterra, paesaggio tetro circondato da dirupi e profondi abissi per atterrare, in questo volo di fantasia, nella città di Cortona, caciarona nel mercato del sabato e silenziosa nel cimitero oltre le mura. Gli artisti? Non sono molti quelli citati, ma forte è sicuramente il loro impatto nell’arte, a partire dal grande Caravaggio, antenato di quel genere pittorico chiamato realismo ma che Herling preferisce etichettare più come rivoluzionario, o alla maniera di Verlaine, un “peintre maudit”; genio e sregolatezza, amante del vino, delle belle donne e delle risse. Un Caravaggio portavoce di una tecnica di rappresentazione in cui la luce e l’ombra esprimono rispettivamente il mondo visibile e quello invisibile, dove, in questa stretta fascia caravaggesca, l’eretico Giordano Bruno cercava Dio. E Rembrandt la perla dalle molte sfumature che aveva attinto esclusivamente da se stesso e aveva cercato solo le sue visioni; conoscitore di abiti e costumi, di catene, ciondoli, vezzi e bijoux, pittore teatrale che dipinse Betsabea con la lettera di Davide. Ma cosa c’era scritto in quella lettera? E così, di aneddoto in aneddoto si arriva a Vermeer e alle sue perle, artista invaso dai problemi e vessato della miseria, pittore della “veduta di Deft” che Proust definì il più bel quadro del mondo; ma soprattutto le sue perle che adornano la maggior parte delle dame che ritrae: piccole sfere che hanno fatto impazzire gli storici dell’arte, ma che per Herling sono un modo per sottolineare il segreto affascinante che si nasconde dietro la loro nascita, lenta e statica, senza escludere che ogni suo quadro ne è appunto la rappresentazione. L’ultimo citato è Ribeira, lo Spagnolo partenopeo, legato a Napoli e a Mergellina, fatta di cielo, mare e dolci colline, amante di quei volti che si ritrovano tre secoli e mezzo dopo in giro per la città. Il libro si chiude con un cammino nel mondo dell’arte fatto di storia, di religione, di pensieri e di male, che in tutte le epoche rincorre senza tregua l’uomo. Un libro da leggere, introdotto piacevolmente da Francesco M. Cataluccio.
“Le perle di Vermeer” di Gustav Herling
La trama filosofica dietro l’immagine
“Sono rimasto a Napoli perché era la città che Livia amava, mentre io lontano dalla Polonia non avevo più una mia città. Ma sapevo che chi sceglie l’esilio paga un prezzo e che la vita in Italia per me sarebbe stata dura”.A Napoli l’esule polacco, lo scrittore Gustav Herling, ancora studente di filosofia, ma già apprezzato critico letterario, arrivò per la prima volta durante la seconda guerra mondiale, dopo essere stato internato nel campo di concentramento sovietico di Kargopol, sul Mar Baltico, tra il 1940 e 1942. Herling faceva parte del secondo corpo polacco comandato dal generale Anders, e fu mandato per un breve periodo di convalescenza a Sorrento, dove a villa Tritone si trovava Benedetto Croce con la famiglia.Il giovane critico andò a trovare il vecchio filosofo, e conobbe una delle sue figlie, Livia, appunto, e anni dopo la sposò; e fu per Livia che decise di stabilirsi a Napoli, nel 1955, preferendola a Parigi, patria degli esuli dell’Est e dove si stampava “Kultura”, la rivista dei fuoriusciti polacchi. Herling sapeva di non poter tornare nella Polonia comunista, dove non avrebbe avuto più possibilità di scrivere, di pensare. Ma sapeva anche che in Italia per lui sarebbe stata molto dura, lontano dagli altri fuoriusciti, in un Paese che artisti e scrittori scelgono soprattutto per motivi estetici. Infatti, solo nel 1991, dopo che Feltrinelli pubblicò “Diario scritto di notte”, Herling ha conosciuto la notorietà, è stato apprezzato, dopo lunghi anni di semioscurità, pur avendo dato alle stampe numerosi volumi, tra cui il bellissimo “Un mondo a parte”, apparso da Laterza nel 1956, e riproposto da Feltrinelli nel 1994, una testimonianza fondamentale sui gulag sovietici, per il quale fu bollato indelebilmente come anticomunista e preso a bersaglio da certa intellettualità.Ma Herling, vietato per anni in patria , dove i suoi libri stanno conoscendo adesso un grande successo, quel successo che finalmente lo ha additato al grosso pubblico anche in Italia, che scrive in polacco, ha pubblicato anche alti importanti volumi, come “L’isola” (Mondadori) e la raccolta di racconti “Ritratto veneziano” (Feltrinelli). Adesso l’editore romano Fazi, nella sua bella collana “Le porte”, ha pubblicato una raccolta di scritti di Herling sull’arte e sulle città italiane, che non sono solo dei pungenti interrogativi sulla bellezza letta attraverso delle esprressioni figurative, ma anche una sorte di apologhi a chiave. Il libro si intitola “Le perle di Vermeer” (Fazi editore, pp.XVI-85, lire 20.000) e reca una penetrante introduzione di Francesco M. Cataluccio, lo studioso italiano più attento all’opera dello scrittore polacco.Scrittore che sfugge alle definizioni, Herling in queste pagine, tratte da “Sei medaglioni e i cofanetto d’argento”, apparso a Varsavia nel 1994, disegna un suo percorso personale di lettura, alla ricerca, tramite le immagini dei pittori, del “nucleo poetico della loro arte”. Così Vermeer, Caravaggio, Ribera, Mantegna, Masaccio, Rembrandt, Altichiero, Simone Martini, Duccio da Buoninsegna sono sondati non con l’occhio del “professionista”, dello storico dell’arte, ma indugiando, con una prosa lucida e accattivante, sulle loro idee, sulle emozioni che i loro quadri trasmettono. “Per lui, i quadri e le statue non sono un fine, ma un mezzo”, scrive giustamente Cataluccio nel suo saggio, per analizzare fino in fondo gli elementi che compongono l’opera, quel mosaico di segreti e riferimenti, di misteri e di storie che racchiudono. Non “medaglioni”, dunque, né semplici ritratti, ma la compenetrazione di elementi che Herling con il suo approccio personale, ricco di documentazione, dipana descrivendo le opere con gusto del particolare, come se il lettore le conoscesse, le avesse davanti agli occhi. Un itinerario personalissimo, che si muove anche tra alcune città italiane, tra il “grande palcoscenico” di Siena, dove “tutto invecchia, nulla muore”, e Volterra, Cortona, Parma, con “il suo carattere di miniatura” e l’attrazione esercitata da Stendhal. Ma è nel dialogo con i pittori che questi testi rivelano il personalissimo procedere dello scrittore, affascinato dai pittori della luce e delle tenebre, come il Caravaggio, in cui “la luce e l’ombra esprimono rispettivamente il mondo visibile e quello non visibile”, in una compenetrazione di vita e di morte, o come in Ribera e Rembrandt, nell’analisi dei suoi ritratti, nei quali l’olandese investigava il proprio volto “in quanto espressione delle trasformazioni della psiche”. Luce e tenebre, mistero dell’ignoto e potenza della rivelazione, dunque; ma anche indagine del certo e dell’incerto, come in Vermeer, condotta con fare investigativo, in un procedere ideale per capire la trama filosofica e poetica che si nasconde dietro l’immagine.Quell’immagine che Herling rivela in un procedere piano, con accostamenti imprevedibili, tra nuclei narrativi che alla fine ubbidiscono non solo a un intento estetico, alla ricerca della bellezza sempre inseguita ma mai definitivamente catturata, ma anche alla ricerca di se stessi, dal proprio essere. In fondo, come diceva Pascal, “se non esistessero le tenebre, l’uomo non avvertirebbe la propria corruzione, e se non esistesse la luce, non avrebbe speranza di risanamento.
GUSTAV HERLING E I SEGRETI PITTORICI
Perle d’arte
Cristina Campo nello scritto “La torre e l’isola” dove affianca paragoni, nella diversità, fra Gustav Herling e Jorge Luis Borges, così dice: “E tra il gelo pitagorismo di Borges e la tenebrosa cattolicità di Herling c’è una costante comune: sono i due soli narratori contemporanei incapaci di ideare un racconto che non abbia il rigore di una fuga o di una ‘chanson royale’: dove nulla resterà senza una risposta, senza un’eco fatale e rivelatrice; dove il mistero si manifesterà, come deve, nel silenzio degli specchi e nei cicli della spirale”, offrendoci non un ritratto ma preziosi indizi. Così la recente pubblicazione di alcuni dei suoi saggi sull’arte ci potranno sembrare non solo legittimi ma anche attesi. Infatti i suoi “intarsi improvvisi” ci portano nel mondo della pittura con tutte le magiche suggestioni letterarie che vi incastona. Il libro si intitola “Le perle di Vermeer” dal titolo di uno dei medaglioni presenti nel volume e di questo parleremo. Prima premettiamo però quello che documenta anche Francesco M.Cataluccio nell’introduzione: “L’approccio di Herling all’arte non è, come lui stesso ammette, da ‘professionista’. Si definisce modestamente ‘un frequentatore di mostre con reazioni alla pittura tipicamente letterarie'”, tratto esplicito per come dobbiamo leggere queste pagine impregnate dei musei visitati e scritte con un inchiostro che si è bagnato negli olii che descrive. Lo spazio narrativo si muove dentro lo spazio pittorico del quadro nella cornice letteraria delle biografie. Una critica d’arte non da critico d’arte e neppure da storico, ma per questo molto importante come contributo alla lettura dell’arte. Così dobbiamo leggere questi quadri che conquistano il suo sguardo. L’interesse recente del Vermeer ‘riscoperto’ è già nel 1991 per Herling inquietudine e fascinazione. Inizia a riflettere su quello che Proust definiva “il più bel quadro del mondo”, cioè “Veduta di Deft”. ” Proust… riteneva con gli occhi di Bergotte che il frammento di muro giallo nell’angolo destro fosse dipinto in modo così perfetto, che osservarlo da solo avrebbe potuto tranquillamente passare per un’opera di “bellezza autosufficiente”. Bergotte nel delirio dell’agonia ripeteva: “un frammento di muro giallo” “. Così arriva a enucleare attitudini delle donne di Vermeer: “simili immagini di donna sono dominate da un’aura di clausura. Forse per questo il leggere e lo scrivere lettere vi svolgono un ruolo fuori dell’ordinario: è un linguaggio di coloro che sono abituati al silenzio.” Ma ciò che Herling trova sono proprio le perle pescate nei fondali della pittura, una pittura del “tempo sospeso” come la genesi delle perle che adornano i quadri e le donne di Vermeer. ” Che si sollevi il velo del segreto pittorico e poetico di Vermeer. Tentino di farlo le perle da lui predilette. “
– 07/08/2000
Gustaw , apolide incompreso tra due totalitarismi
Il 1° settembre del 1939, quando l’esercito del Reich invase la Polonia, quando cominciò il finimondo, Gustav Herling Grudzinsk aveva quasi 20 anni e 6 mesi. Aveva quasi 20 anni e 6 mesi quando l’Armata Rossa occupò la Polonia Orientale. Aveva quasi 20 anni e 6 mesi quando Hitler e Stalin firmarono un trattato di frontiera e amicizia. Aveva da 3 giorni compiuto 21 anni quando i tedeschi arrivarono sulla Manica. Poiché aveva 21 anni, poiché non era nazista, poiché non era comunista, Gustaw Herling decise di lasciare la Polonia per arruolarsi nell’esercito francese. Herling avrebbe potuto essere arrestato dai tedeschi e finire in un lager. Lo arrestarono i russi e finì in un gulag. Vi patì 2 anni. Aveva 23 anni quando riuscì a raggiungere i volontari polacchi al comando di Anders: con Anders combatté in Nord Africa e nell’Italia del Sud. Con Anders fu a Montecassino. Quando il finimondo finì divenne italiano. Si stabilì a Napoli, si accostò a don Benedetto Croce, ne sposò la figlia. Scrisse delle sue esperienze. In “Un mondo a parte” raccontò della brutalità, della disumanizzazione in un campo di concentramento sovietico. Era allora un tempo felice, in cui sapeva dove stava il male, dove stava il bene. Il male stava tutto nei lager. Era stato stabilito a Norimberga. I campi di concentramento sovietici non esistevano. Era stato stabilito a Yalta. Tuttavia poiché era genero di don Benedetto, la Laterza, casa editrice di famiglia, accettò di pubblicare il libro di quel giovanotto che non sembrava sapere dove stesse il bene, dove stesse il male, di quel polacco che era anti-comunista senza essere fascista. Ci fu qualche rumore risentito, ci fu un immenso silenzio sdegnato. Ci fu un riconoscimento sonoro di Bertrand Russel, che trovava naturale dire la verità, che trovava doveroso essere antifascista senza essere comunista. A Herling non restò che una vita appartata di intellettuale, di scrittore, accanto a personaggi che come lui non amavano la destra, e non erano amati dalla sinistra. Collaborò a Tempo Presente, la rivista dell’apostata Ignazio Silone. Lavorò per Kultura, la rivista parigina che radunava i dissidenti delle repubbliche del socialismo realizzato. Scrisse sul Mondo di Mario Pannunzio, sul Corriere di Giovanni Spadolini. Aspettò appartato la notizia che non poteva mancare. Crollò un muro. Travolse una catasta di pregiudizi, di luoghi comuni. I libri di Herling furono pubblicati. Fazi pubblicò le “Perle di Vermeer”. Feltrinelli pubblicò il “Diario scritto di notte”, Einaudi, fedele nei secoli, non pubblicò una sua conversazione a prefazione dei “Racconti della Kholima” di Shalamov. Sostenne che la qualità era scadente. Gustaw Herling è morto giovedì 5 luglio.
Le perle di Vermeeer
Non pensate che sia il solito viaggio in Italia del barbaro slavo rapito dall’arte e dalla civiltà mediterranea. Il libro di Gustaw Herling, é vero, comincia così, con una visita nelle città di provincia “addormentate solo per chi ignora cosa sia un sogno bello e ricco”. Parma, minuscola e monumentale scrigno d’equilibrio: i bassorilievi del Duomo scolpiti dall’Antelami, le cupole dipinte dal Correggio, e sullo sfondo l’ombra di Stendhal a caccia di vecchi manoscritti e storie da romanzare. Siena, con la piazza del Campo che sembra una conchiglia, le madonne di Duccio e di Simone Martini, gli affreschi di Pinturicchio alla Biblioteca Piccolomini, e l’estasi mistica di Santa Caterina, “tesa tra l’umano nulla e il divino tutto”. Volterra, arroccata tra i dirupi su antichi tumuli etruschi: é una necropoli spolverata e ripulita, dove aleggia di nuovo però l’ombra vitale dell’autore di “Il rosso e il nero” che qui seguiva di nascosto una sua fiamma in visita al figlio militare. E poi Cortona che s’apre allo sguardo del viandante in forma di mercato e cimitero. Ma le città d’Italia non sono prese in sé, bensì come simbolo dei contrasti dell’esistenza, percorsa da luci e ombre e divisa tra il sogno e la realtà. E’ questo il vero tema dei cinque medaglioni che seguono su altrettanti pittori (uno in più rispetto all’edizione polacca del 1994), estratti come i saggi precedenti dal “Diario scritto di notte” l’opus magnum che da anni va componendo Herling, scrittore cosmopolacco, deportato ne lager di Kargopol’ sul Mar Bianco nel 1941, sopravvissuto al gulag e trapiantato a Napoli dal 1955 come sposo di Lidia, una delle filgie di Benedetto Croce. Senza indulgere all’edonismo della critica (Roberto Longhi e Bernhard Berenson restano sullo sfondo impalliditi) l’autore si getta nella storia della pittura con l’irruenza d’un sapiente seduttore. E confessa: “L’amore per i grandi artisti, come l’innamoramento per una persona, é un sentimento che impone una pudica parsimonia dei termini.”Caravaggio ha per lui il volto di Golia con la testa mozzata nel suo autoritratto conservato alla Galleria Borghese: occhio spento, labbro carnoso, una ferita in fronte, i segni della tenebrosa esistenza d’un baro, spergiuro e assassino, che s’aggira tra bettole e prostitute romane, nei dintorni di San Salvatore in Campo dove vive, e in una notte del febbraio del 1600 assiste all’ultima fiammata che s’alza dallle ceneri di Giordano Bruno, l’eretico mandato al rogo in Campo de’Fiori. Estrema comunione di destino: il primo realista, il secondo filosofo della natura, sono accomunati dalla fede in un Dio nascosto, inconoscibile, e tanto più sono attratti dalla luce divina quanto sono più consapevoli dell’ombra terrena, anche se tutti e due sono destinati a morire nel buio.Vecchio, vedovo, caduto in miseria dopo una vita ricca e fortunata, Rembrandt invece ha per Herling il volto dell’autoritratto del 1657: “Negli occhi l’improvviso balenare dello sgomento”. E l’autore lo immagina morire, colpito da un cavalletto che gli cade sulla nuca, nello sforzo estremo di dipingere se stesso per lenire la malattia che lo tormenta. Dei quadri di Vermeer, (“La veduta di Delft”, la “Pescatricce di perle”) e dei loro colori, giallo limone, azzurro spento, grigio chiaro, coglie lo stupore attonito, “il sottile dubitare della realtà” e quel tempo immobile.Ma é la morte a rivelare la vita. Dopo Ribera, che non riesce ad essere crudele, nonostante l’efferatezza delle sue scene, Herling descrive il realismo straziante del “Cristo Morto” di Andrea Mantegna. E di quel quadro conservato a Brera, il reduce di Kargopol’ coglie un particolare scabroso (l’ultimo sussulto nel corpo senza vita del Crocefisso) per dirci che il dolore, essenza del cristianesimo, lo é anche della condizione umana.