Pier Luigi Celli
Breviario di cinismo ben temperato
Al contempo “manuale di sopravvivenza etica” per manager, uomini politici e di cultura all’apice della carriera e atto di pacata ma dura denuncia delle perversioni del potere, buona parte di questo breviario di Pier Luigi Celli consiste in un diario della sua esperienza di manager e poi di direttore generale della Rai, e dell’incontro-scontro con lottizzatori e lottizzati, parassiti e leccapiedi, politicanti, ballerine in odore di prima serata e sedicenti, frustrati maître à penser. Scritto in un registro “rapido” e sarcastico, il libro è diviso in due parti. I brevi capitoli della prima sono di volta in volta dedicati ai peggiori tipi del mondo culturale e aziendale italiano (il “migrante”, il “trombone”, il “mutante”, il “kapò”…) e a come difendersi dal logoramento morale o persino dalla disperazione che il potere porta con sé (“Elogio della vergogna”, “Sul buon uso degli avversari”, “Come passare un tempo che non si ama”, “Come si costruisce un’azienda”…). La seconda parte, “Piccolo mondo obliquo”, è un impietoso ritratto della Rai dei secondi anni Novanta, con le sue girandole di nominati, i burocratismi insopprimibili, le epurazioni pre – e postelettorali. A tutto ciò, sostiene Celli, occorre sopravvivere con dignità: e in questo libro ci indica come.
– 24/02/2003
Un manager in via di estinzione
Più che in un’azienda a volte si ha l’impressione di stare in uno zoo, o in una riserva naturale di specie rare. C’è il “trombone”: quello che per forza deve andare controtempo, giocare a rimpiattino, pizzicare in contrappunto. C’è il “manager fatto in casa”: quello che periodicamente rinasce dalle ceneri come l’araba fenice ma volando basso, come tutti i paraculi, se cade non si fa male e a rialzarsi ci mette un niente. Ma il peggiore di tutti è il “kapò”: in genere basso, grassoccio, le mani umide e il sudore puzzolente. Occupa posizioni intermedie nella gerarchia aziendale ed è afflitto dalla frustrazione di non essere diventato un Mc Kinsey-boy.Con il rigore scientifico di un etologo e il bisturi di un filosofo illuminato Pier Luigi Celli ha sezionato e raccolto per Fazi in un libro intitolato Breviario di cinismo ben temperato alcune riflessioni sulle sue esperienze manageriali con un’appendice particolare sulla Rai che lo ha visto direttore generale dal ’98 al 2001. In un’originale commistione di generi sapientemente calibrata, il diario e il racconto con qualche accento di saggistica, l’autore di origini riminesi (Verucchio per la precisione) compone un sarcastico resoconto in cui emerge eroicamente dalla palude delle bassezze umane la figura del cinico.Per chi ancora non avesse letto il suo libro, cosa significa l’espressione “cinismo ben temperato”?“È un atteggiamento verso una situazione spiacevole, da cui si vogliono prendere le distanze. È una forma di distacco razionale, un modo per dire e dirsi passerà”Si può affermare che il cinico moderno che lei descrive assomigli vagamente all’idealista del passato?“Il cinico è un signore che frequenta cattive compagnie. A lui piacerebbe vivere in un mondo perfetto e conserva forti valori morali. Il suo profilo potrebbe accostarsi all’idealismo voltariano. È una sorta di carogna gentile”.Qual è la prima regola da tenere a mente per sopravvivere nella fauna aziendale italiana?“Come gli altri tipi di faune, quella aziendale assomiglia a un enorme circo. Non bisogna farsi coinvolgere troppo e mantenere un buon livello di ironia come valvola di sfogo. L’ironia oggi viene soffocata dalla mancanza di tempo, come il congiuntivo, sta morendo lentamente. È un esercizio che ha bisogno di applicazione ma tutti sono diventati estremamente nevrotici e non hanno più spazi per divagare”.Cosa pensa dei numerosissimi volumi il cui scopo è migliorare le capacità personali di un manager? Servono realmente o fanno la fortuna di un settore editoriale?“È tutta mondezza. Sono libri inutili, una perdita di tempo. Le basi da cui attingere anche per un manager sono buone letture di storia, filosofia e letteratura. Fondamentale è anche il saper mantenere la curiosità verso gli altri”.Nel momento in cui ha deciso di scrivere questo libro è stato frenato dal fatto che qualcuno avrebbe potuto riconoscersi nei ritratti che lei fa?“No, non molto. I personaggi che racconto sono comunque inseriti in un contesto generale. Certo, alcuni potrebbero riconoscersi ma il cinico è per definizione colui che non ha paura di dire le cose”.Quali sono i principali limiti del mondo aziendale italiano all’interno del sistema europeo?“In Italia oggi abbiamo imprese a carattere medio-piccolo perché quelle grandi sono in via di estinzione. In Europa invece le grandi hanno sempre avuto un buon andamento. L’Italia si è ripiegata su se stessa in una logica padronale perché c’è una carenza strutturale in materia di classe manageriale. Il principio vigente è quello del fai da te quindi nessuno è interessato ad assumere il ruolo di maestro nel formare le persone giuste per il dopo”.Esiste la possibilità che la Rai un giorno possa essere meno lottizzata dalla politica?“L’unica via di salvezza è una messa in sicurezza fuori dalle battaglie politiche. Quello che abbiamo oggi non è di certo un servizio pubblico”.
– 11/11/2002
Breviario di cinismo ben temperato
Un “manuale di sopravvivenza etica” per manager, uomini politici e di cultura all’apice della carriera. Ma allo stesso tempo è anche un atto di calma ma severa denuncia delle perversioni del potere. Pier Luigi Celli ha deciso di raccontare in una sorta di diario la sua esperienza di manager e poi di direttore generale della Rai: lo scontro-incontro con”parassiti e leccapiedi, politicanti, ballerine in odore di prima serata e sedicenti, frustrati maitre à penser”. Il libro è diviso in due parti: una prima costituita da brevi capitoli di volta in volta dedicati ai peggiori tipi del mondo culturale e aziendale italiano. La seconda parte, Piccolo mondo obliquo, è un impieoso, e quanto mai appropriato in questi tempi, ritratto della Rai dei secondi anni Novanta, con i burocratismi insopprimibili e le epurazioni pre e postelettorali.
– 28/09/2002
Le memorie dell’ex direttore. Celli: cambiare la Rai? Non ci sono riuscito
Dopo aver passato una vita in posizioni di crescente responsabilità in varie aziende e aver governato la Rai, da direttore generale dal 1998 al 2001, Pier Giorgio Celli distilla ora la sua esperienza e le sue affilate riflessioni in un libro dal titolo “Breviario di cinismo ben temperato” in uscita da Fazi editori. Sapendo bene di cosa parla, l’autore descrive una fauna politica, intellettuale e giornalistica che non ha orrore di se stessa e si incarna di volta in volta nel “migrante permanente”, “nell’aspirante infame”, nel “trombone” e in altri prototipi osservati da vicino dietro i vetri scuri di Viale Mazzini o sotto gli ombrelloni di Capalbio. Ciascun tipo ha il suo capitoletto, la sua aneddotica, il suo caustico profilo. Ma il meglio giunge nelle pagine (e sono la maggioranza dedicate ai riti e ai miti del Cda della Rai e delle sue immediate propaggini. Del resto il lettore può accogliere il libro in vario modo. C’è un aspetto allegorico e iconoclasta, quando traccia le caricature dei personaggi che agiscono nella grande commedia del potere politico e radiotelevisivo (in parte coincidenti): tanto che nei salotti giusti sarà facile dare un nome al grande manager che, alla vigilia della terza età, si innamora della bella giovane rampante; o del tal funzionario tv, che apprende della sua rovina dalla soubrette che non è più in grado di promuovere, molto prima che da un ordine di servizio del Cda. C’è in fine l’autobiografia del direttore generale, intitolata significativamente “Piccolo mondo obliquo (La Rai delle mie trame)”, rappresentata come una grottesca traversata nella galassia di interessi e comportamenti di professionalità e di inefficienze che è la televisione pubblica italiana.
Diffusi in ogni pagina sono la prosa tagliente, la forza del sarcasmo, il moralismo perentorio niente affatto ammorbidito dall’uso di mondo: un insieme di qualità essenziali in questo piccolo libro, che segue altri dello stesso autore animati dallo stesso fuoco (“Il manager avveduto”, “Graffiti aziendali”, “L’illusione manageriale”, “Addio al padre”).
Ma in più c’è – neanche troppo tra le righe anche il rimpianto. “Cosa resta – si chiede Celli – a chi aveva pensato di poter cambiare, se non la testa, almeno parte delle abitudini del management RAI, disegnando uno scenario di affermazione professionale e di orgoglio di bandiera? Parlo per me – aggiunge – ma penso anche ai molti che ci avevano creduto”. Ebbene resta, si risponde l’ex direttore generale, “solo una grande rassegnazione. La percezione esatta della nostra sconfitta”.
“Nel mio libro sconsiglio l’odio e consiglio un’amante”
“Nel mio libro sconsiglio l’odio e consiglio un’amante”
La battuta di avvio migliore non è all’inizio. Arriva a pagina 66: “E’ già difficile essere un infame”. Peccato. “Decidere è un po’ morire. Si perdono possibilità che non torneranno quasi mai”, le prime righe “vere” sono più banali. E portano meno dentro il senso del libro, Breviario di cinismo ben temperato. La nuova opera di Pier Luigi Celli – (in libreria dal 27 settembre per i tipi di Fazi Editore) – non è l’elaborazione di un lutto, ovvero l’interruzione traumatica, nel febbraio 2001, della direzione centrale alla Rai, versante dalemiano, assolutamente fuori sintonia con quella che sarebbe stata la deriva zaccariana nel segno di Santoro e Luttazzi.
“No, non ho avuto fasi luttuose. Elaborare un lutto vuol dire fissare l’emotività, cercare una convincente via di fuga. Qui è l’opposto: apro i sentimenti verso il mondo, sospendo la ricerca di una verità assoluta, dichiaro disponibilità. “Cinismo” lo uso in questo senso”.
Il libro è un cocktail fascinoso di storie aziendal-politiche che echeggiano la cronaca quotidiana e di meditazioni etico-filosofiche sui destini della società e della cultura moderna. Spiazza chi vuole appoggiarsi solo su uno dei due corni: “Ma a me piace intrecciare il racconto. Sono solo la narrazione, le storie, i personaggi che fanno entrare nel mondo”.
Spiazza molto, anche, l’immagine di Celli depositata nei giornali.
Tagliatore di teste, manager-intellettuale un po’ presuntuoso e, comunque, navigatore, lui sì, temperatissimo alle bufere nella vita di Palazzo.
Si apre il volume pensando che quest’indole si scopra. Con annesse vendette di nomi e cognomi. Niente. Il primo identikit arriva a pagina 54. Siamo nel capitolo “Fenomenologia del mutante”: “Quei nomadi dalle passioni flebili che, non avendo casa in proprio, sono perennemente in cerca del protettore di turno”. Habitat perfetto, per loro: “La burrosa, decadente banalità officiata da Telecamere, con cipria ed estenuazioni mediterranee”.
Sistemata Anna La Rosa, Celli si diletta in una casistica di tipi umani: trasversali, mutanti “stabilizzanti”, tromboni, aspiranti infami, resistenti “inutili” e “organici”. Tutti legati a quel tempo particolare che si definisce “transizione”: il passaggio di potere fra centro-sinistra e centro-destra.
In questi ritratti non entra un po’ di rancore?
“No, non soffro troppo per essere un ex potente: alla coreografia non bado, mi basta star bene con me stesso”.
Davvero nessuna cicatrice per l’abbandono forzato della Rai?
“Intanto me ne sono voluto andare io. L’avevo già deciso a dicembre, quando pure rilasciavo interviste in cui dicevo che non avrei mollato. Erano mesi terribili, con l’approssimarsi di una scadenza elettorale gestita in modo demenziale. Non volevo la campagna schieratissima da Zaccaria. Del resto l’hanno pagata duramente”.
Cosa le resta di quell’esperienza?
“Soltanto l’impressione della facilità con cui si sparisce dalla scena, senza lasciar memoria se non per gli aspetti negativi. La Rai sempre la Rai…Le pagine del libro dove ne parlo, le ho scritte quando ero lì. Da quando l’ho lasciata, non me ne sono più occupato. Non ho neanche letto il recente progetto di Gasparri. La Rai va ignorata, forse è l’unico modo per salvarla. Credo che le imprese abbiano lo stesso ciclo di vita delle persone. A un certo punto vanno in decadenza. Alcune lo fanno con dignità, altre degenerano, ho paura che la Rai sia di queste ultime”.
Aggiriamo la Rai, allora, sempre tentando di estrarre qualche carta d’identità per i ritratti che pullulano in ogni pagina.
Il “migrante nevrotizzato” che, tra un approdo e l’altro si inventa un club, un movimento, una confraternita religiosa, un partito suo, ovviamente temporaneo: sarà mica Adornato? Il “resistente organico”, che sopravvive alla sconfitta, aspira all’onore delle armi e, se possibile, anche al risarcimento, poi scarica sui compagni di partito il suo spirito di rivalsa (nonché l’onere di ricollocarlo). Sarà mica Santoro? Il “migrante permanente” che matura la propensione al nomadismo nel luogoprivilegiato della spiaggia di Capalbio. Sarà mica Chicco Testa? E il veneziano – categoria “sopravvisuto endemico” – che parla per enigmi e conta sul fascino della lingua e il richiamo francescano dell’aspetto. Sarà mica Cacciari?
“Ma no! Nessuno di questi. A Capalbio, per esempio, ci sono altri voltagabbana. E poi io non ho mai fatto vita di salotti a Roma, non sto dietro alle chiacchiere. Una volta Sabelli Fioretti mi ha fatto dire una cosa pesante sui giornalisti Rai e, da allora, quella battuta viene usata come pietra di paragone. L’ha rifatto anche Serventi Longhi. Gli ho telefonato per dirgli che non lo querelavo…”.
Cauto, cautissimo Celli. Via, una dose di “caccia al personaggio” sembra lecita, anche senza finire all’intimidatorio “fuori il nome”, stile Pigi Battista.
Chi le sta più antipatico?
“Non mi pare che ci sia quasi nessuno degno di odio. Con Biagi non mi sono mai trovato: ma perché insistere? Ho fatto pace anche con la Moratti che mi tolse di mezzo la prima volta che ero alla Rai. Sono veramente invecchiato…”. Il manager intellettuale (Celli va celebre anche per i suoi aforismi; sul passaggio imperfetto al sistema maggioritario ne sforna uno seduta stante: “transizione immobile”) torna coriaceo ai ragionamenti astratti. La questione degli odi gli apre un orizzonte.
“Il mio cinismo è fatto di virtù deboli. Le chiamo “penultime”: la tolleranza, meglio ancora la clemenza, una parola quasi scomparsa dal vocabolario quotidiano. Mai stato un “bau bau” come pure mi hanno dipinto. Volevo adottare la clemenza anche quando ero alla Rai. Non condividevo uno spoil-system esasperato: ho sempre cercato di temperarlo, quantomeno applicarlo con consapevolezza. Più in generale mi pare difficile, in politica come nella vita, impostare tutto sulla dialettica “amico-nemico”. Perché devi odiare? L’odio è una passione che va spesa con molta parsimonia. Meglio parlare di avversari, persone e posizioni con cui qualche terreno comune lo puoi trovare”.
Non nomina i “girotondi” ma si capisce che lo convince poco la sinistra “dura e pura”, arroccata contro Berlusconi sui bastioni della giustizia e del sistema informativo. E torna in mente l’etichetta di manager legato a D’Alema: “L’ho già detto. Sono andato alla Rai senza conoscerlo. Lui, comunque, una strategia ritengo l’avesse”.
Un esempio degli incroci imprevedibili che si possono avere con l’avversario, Celli l’aveva dato chiedendo a Giuliano Ferrara (sarà mica lui il protagonista del capitolo “Colazione con il nemico”?) la prefazione per il libro precedente Passioni fuori corso, uscito da Mondadori.
Scrisse Ferrara: “Strana bestia d’uomo, questo Celli…Avevo fondato un giornale e su quel giornale pestai duro…Mi sta simpatico, e forse anch’io non gli sto antipatico…Perché è intelligente, cosa decisiva. Ma anche sanguigno, sbatti porte, orgoglioso…vuole capire come sono fatti gli uomini, vorrebbe rinverdire l’interesse per la dialettica della comunità che fu della grande scuola di dirigenti formatasi in clima olivettiano”.
Nel Breviario, però, non ci sono molti altri esempi positivi. Le storie che imperversano sono acri, velenose, meschine, degradate. Non ciniche, l’opposto: affannosamente mondane. Il cinismo è di chi le può osservare con comprensivo distacco. Anche se talvolta la precisione fa pensare alla partecipazione personale. C’è l’altissimo dirigente alle prese con l’insonnia che all’alba si aggira per la casa solitario. C’è un elogio della valenza salvifica di un’amante, davanti ai momenti di difficoltà. Detto per inciso, non pare troppo carino per la consorte: “Ma quante volte lo devo ripetere che non è un’autobiografia. In questo libro c’è poco della mia esperienza personale e molto dell’osservazione su quel che mi capita intorno”.
C’è un punto, invece, dove Celli si espone: l’apertura di credito verso chi ha preso anche il suo posto, i nuovi quadri del centro-destra. Magari rozzi, senza uso di mondo, anche sconci nella sete di potere. Ma non criminalizzabili per questo. Nessun disprezzo per la “gens nova”?
“No, va tenuto conto che non ha esperienza, ha bisogno di tempo. Senza opportunismi, tenendo fermi alcuni principi di fondo, ma ci vuole comprensione, tolleranza, appunto”. Fin dove? “Fino alla verifica dei risultati”.
Del resto Celli è ossessionato dalla necessità di dar spazio alle energie nuove. Anche a costo di ribaltare certezze consolidate. L’ha misurato nelle tante aziende conosciute: “Mi fa paura chi non ha mai dubbi”. Si apre un altro terreno di ragionamenti, forse quello cui il manager che vuol restare uomo, tiene di più. Celli è un nemico della fredda razionalità aziendale. Rifugge il metodo McKinsey. I quadri perfettamente delineati gli fanno ribrezzo: “Non funzionano. Anche nelle aziende, io cerco l’anima”. Perché è convinto dell’ineliminabile importanza dei fattori emotivi, del ruolo influente che su ogni fenomeno ha, comunque, l’osservatore. Principio di indeterminazione di Heisenberg, gli dici. E lui: “Certo, l’impresa è falsamente razionale”. Elementi religiosi o comunque irrazionali nei paradigmi logici della conoscenza secondo Kuhn, aggiungi. E lui: “Kuhn è un grande”. In quel momento si spenge automaticamente la luce, nella stanza di Unicredito dove Celli è direttore per la “corporate identity”. Succederà altre due volte, dopo. E lui: “ecco, vede, ci sono tanti misteri dentro le aziende. Non era mai capitato prima. E non è un meccanismo automatico di risparmio energetico”.
Lo preoccupa il crollo delle scuole formative di un tempo. Quelle d’impresa – come l’industria pubblica o l’Olivetti – ma anche le parrocchie o le scuole di partito: “L’impresa ha responsabilità formative enormi. E’ l’unico luogo dove si può assorbire un’etica della responsabilità”.
Con questo spirito Celli si è catapultato nella nuova avventura bancaria. E la cartolibreria di Novafeltria dove, da direttore della Rai, prometteva di stabilirsi se fosse saltato (con un simbolicissimo passaggio da villaggi globali a villaggi veri e propri)? “Non era un vezzo, purtroppo l’hanno venduta senza avvertirmi”.
– 04/10/2002
I tromboni di Celli
L’ex direttore generale Rai scrive un breviario di sopravvivenza per i manager. E accusa.
Deve ancora liberarsi di tanti sassolini, Pier Luigi celli. Anche per questo, dopo essere stato direttore generale della Rai a i tempi dell’Ulivo, ha scritto un libro (Breviario di cinismo ben temperato, Fazi editore) per fare i conti con i protagonisti di un mondo: “Lottizzatori e lottizzati, parassiti e leccapiedi, ballerine in odore di prima serata e sedicenti, frustrati, maitres-à-penser”. Non solo un manuale di sopravvivenza per manager.
Le pagine al vetriolo di Celli sono anche un elegante atto di accusa dei peggiori vizi del mondo imprenditoriale e politico attraverso una galleria di personaggi facilmente riconoscibili: il “migrante”, il “mutante”, il “trombone”, il “kapò”.
– 12/10/2002
Piccolo mondo obliquo cioè la Rai vista da Celli
Pier Luigi Celli appartiene a una specie oramai in via d’estinzione: i manager umanisti. Dev’essere (anche) per questo che cambia spesso lavoro. Ed è sicuramente per questo che scrive libri, con un’ambizione per dir così illuministica: cioè con la convinzione che le parole e i ragionamenti e le riflessioni possano incidere sui comportamenti e sugli eventi, e in definitiva possano migliorare, se non il mondo, quantomeno una sua porzione. Se questa convinzione sia fondata è naturalmente un altro discorso: lo stesso Celli, del resto, da buon illuminista qual è, riveste i suoi pensieri col panno leggero dell’ironia, evita (quasi sempre) di prendersi troppo sul serio, e di fronte ai disastri e alla meschinità dell’Italia di oggi saggiamente conclude che “ci sono altre cose per cui merita soffrire, se proprio deve”.
Il suo nuovo libro, che s’intitola Breviario di cinismo ben temperato, raccoglie scritti brevi, riflessioni, racconti a chiave e aforismi che ruotano intorno al tema del potere – e in modo particolare a quel luogo emblematico e specialissimo del potere che è la Rai. Da buon entomologo, Celli scruta al microscopio i comportamenti, i tic, i riflessi condizionati, le figure tipiche che compongono una fauna del tutto originale: sebbene l’originalità non stia tanto nella sua unicità, ma nel fatto che gli uomini di viale Mazzini, per motivi non del tutto chiariti neppure da Celli, riassumono e amplificano tutti quanti i vizi nazionali, e dunque si propongono come campioni e metafore viventi della traballante azienda Italia. Sfilano dunque sul palcoscenico delle vanità approntato da Celli – che è stato, com’è noto, direttore generale della Rai, e che dalla Rai si è bruscamente allontanato dopo averne verificato l’irriformabilità – il “kapò”, il “migrante permanente” (“Non c’è nessuno come l’avventuriero delle idee che abbia sempre il capello in ordine, la barba curata, e nemmeno una goccia di sudore sulla fronte”), il “famiglio”, il “mutante”, il “trombone”, il “resistente inutile” e quello “organico”, l’“aspirante infame” (“È difficile essere un infame. Bisogna rinunciare a molte cose, a cominciare dalla vergogna”), l’“organigrammista” , lo “scrittore di lettere anonime”” e via catalogando.
C’è naturalmente, in queste riflessioni, l’amarezza dello sconfitto, e sconfitto due volte: dalle resistenze interne di un organismo che Celli stesso definisce “immortale”, perché appartenente a quel gruppo di “specie specialiste” che sono caratterizzate “dalla costanza delle condizioni di fondo e, insieme, dalla particolare sensibilità alla variazione dei fattori ambientali, dei climi, dei comportamenti”; e dal venir meno di una direzione politica forte (il governo D’Alema), dimostratasi non capace di sostenerlo e di aiutarlo nel progetto di riforma avviato. E tuttavia nell’analisi della sconfitta non c’è rancore, né recriminazione: ma, come si diceva, molta ironia e una punta di moralismo. Né mancano momenti meravigliosamente surreali – soprattutto nei “sette dialoghi u/morali” ambientati nei piani alti di viale Mazzini e raccolti nella sezione “Piccolo mondo obliquo” – che correggono l’impianto illuministico con uno spruzzo di stralunata incredulità, fino a concludere, con divertita mestizia, che “chi l’ha detto che sono i risultati che contano? Conta chi c’è”.
– 28/09/2002
Il “Breviario” di Celli racconta una Rai cinica
Roma. Dopo aver passato una vita in posizione di crescente responsabilità in varie aziende e aver governato la Rai, da direttore generale dal 1998 al 2001, Pier Giorgio Celli distilla ora la sua esperienza e le sue affilate riflessioni in un libro dal titolo “Breviario di cinismo ben temperato”, in uscita da Fazi editore.
Sapendo bene di cosa si parla, l’autore descrive una fauna politica, intellettuale e giornalistica, che non ha orrore di se stessa e si incarna di volta in volta nel “migrante permanente”, “nell’aspirante infame”, nel “trombone” e in altri prototipi osservati da vicino dietro i vetri scuri di viale Mazzini o sotto gli ombrelloni di Capalbio. Ciascun tipo ha il suo capitoletto, la sua aneddotica il suo caustico profilo.
Ma il meglio giunge nelle pagine (e sono la maggioranza) dedicati ai riti e ai miti del Cda della Rai e delle sue immediate propaggini. Qui il saggio sfiora l’invettiva, sia che si sciolga in pagine chiaramente autobiografiche, sia che si articoli in fitti dialoghi surreali e pienamente realistici allo stesso tempo, pagine che potrebbero recitare con successo sia Paolo Poli, che Marco Paolini.
C’è poi un aspetto allegorico e iconoclasta, quando traccia le caricature dei personaggi che agiscono nella grande commedia del potere politico e radiotelevisivo (in parte coincidenti).
– 28/09/2002
Celli, ecco la mia Rai
Si intitola Breviario di cinismo ben temperato l’ultimo libro dell’ex direttore Rai Pierluigi Celli.
Dopo aver governato la Rai come direttore generale dal 1998 al 2001, Pier Giorgio Celli affida le sue riflessioni in un libro intitolato: Breviario di cinismo ben temperato (Fazi editore). L’autore racconta di una fauna politica, intellettuale e giornalistica “che non ha orrore di se stessa e si incarna di volta in volta nel ‘migrante permanente’, ‘nell’aspirante infame’, nel ‘trombone’, tutti modelli osservati direttamente al lavoro negli uffici di viale Mazzini.
Del resto il lettore può leggere tra le righe e interpretare il libro in vario modo. C’è un aspetto che rimanda alla cultura d’azienda: “decidere è un po’ morire; si perdono delle possibilità che non torneranno quasi mai”; c’è poi un aspetto allegorico e iconoclasta, quando traccia le caricature dei personaggi che agiscono nel teatrino politico e radiotelevisivo. C’è infine l’autobiografia del direttore generale, intitolata Piccolo mondo obliquo (La Rai delle mie trame), rappresentata come una grottesca navigazione nella galassia di interessi e comportamenti, di professionalità e di inefficienze, che è la televisione italiana.
Nel libro, che ne segue altri sempre dello stesso autore ( Il manager avveduto, Graffiti aziendali, L’illusione manageriale) , Celli parla di “una grande rassegnazione. La percezione esatta della nostra sconfitta”.