Piero Sanavio

La gabbia di Pound

COD: d1f255a373a3 Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
98
Pagine:
200
Codice ISBN:
9788881125753
Prezzo cartaceo:
€ 18,00
Data pubblicazione:
21-01-2005

In una nuova edizione completamente rivista, aggiornata e ampliata, un piccolo classico sulla prigionia di Pound, oggi quanto mai attuale. Il volume è corredato da foto e documenti inediti. A partire dagli anni Trenta fino al 1945, il poeta americano Ezra Pound, visse in Italia. Vi ritornerà nel 1958 risiedendovi fino alla morte, avvenuta a Venezia nel 1972. Nel mezzo, tredici anni di prigionia: nel 1945 presso il dtc di Pisa, il campo delle forze alleate in Italia, in seguito all’accusa di alto tradimento per avere espresso dai microfoni di Radio Roma incitamenti antiamericani; dal 1946 al 1958 nel manicomio criminale di St Elizabeth. Nel campo prigionieri di Pisa, un “gulag della democrazia”, come lo definisce Sanavio, le celle erano costituite da gabbie all’aperto, pressoché identiche a quelle che abbiamo visto nelle foto di Guantánamo, esposte alle intemperie, senza riparo dal sole di quell’estate drammatica e torrida. La cella di Pound, poi, era isolata dalle altre e al poeta, a differenza che ad altri detenuti, non veniva concesso di uscire per mangiare e sgranchirsi. In quella cella Pound scrisse gran parte dei Canti pisani, forse il suo capolavoro: molti testi vennero in verità composti a mente, ripetuti per ore e ore per memorizzarli, poi trascritti a macchina anche a giorni di distanza grazie a un infermiere compiacente. Nel manicomio criminale di St Elizabeth, in cui fu costretto dopo che i periti gli diagnosticarono l’infermità mentale, Pound rimase per dodici anni, conoscendo una stagione di grande creatività ma anche di enormi sofferenze: quando fu finalmente liberato, visse gli ultimi quattordici anni in Italia sull’orlo della follia, in preda a una depressione cronica e accessi psicotici. Sanavio, che conobbe personalmente e visitò più volte Pound negli anni di St Elizabeth, ed ammirò enormemente il poeta ma non certo le sue idee politiche, ricostruisce quegli anni con documentazione di prima mano, spesso inedita, e grande tensione narrativa; mostra come a Pound non si potesse contestare che d’aver espresso opinioni, per altro molto più moderate di quanto la pubblicistica statunitense, e gli stessi documenti d’accusa, volessero far intendere; tenta “da sinistra” di fornire un quadro equilibrato del fascismo e dell’antisemitismo di Pound (Pound fu senz’altro fascista, ma non antisemita, conclude Sanavio); descrive con precisione e vigore il “terrore del diverso” nell’America degli anni Cinquanta e come questo prendesse non solo la forma del maccartismo ma anche, più in generale, di un’omologazione culturale che non aveva precedenti nella storia di quel paese, e che lo ha segnato fino ad oggi.
La gabbia di Pound è un libro elegante e avvincente e documentato, a mezzo fra biografia, saggio politico e saggio letterario; ed è anche il resoconto di una violenza fatta in nome di un’opinione a uno dei suoi più illustri cittadini da una democrazia che, a cinquant’anni di distanza, utilizza spesso gli stessi mezzi.

LA GABBIA DI POUND – RECENSIONI

 

Stefano Manferlotti, IL MATTINO
– 10/06/2005

 

Pound, un poeta nella gabbia della crudeltà

 

Ha fatto bene Piero Sanavio ad intitolare La gabbia di Pound (Fazi, pagg. 193, euro 17,50) il saggio in cui, con lucida passione, ricostruisce gli anni trascorsi da Ezra Pound in stato di detenzione, prima del Dtc (Diciplinary Training Center, 1945) di Pisa, quindi nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth, Washington (1946-1958). La foto della cella pisana ghiaccia infatti gli occhi del lettore: è un cubicolo stretto ed alto, all’aria aperta, fasciato per intero da una rete metallica e spoglio di qualsiasi suppellettile. Da questa specie di bara verticale, che ricorda in maniera inquietante le celle di Guantanamo, il detenuto Ezra Pound, poeta di altissima caratura (basterà citare gli immortali Cantos) non poteva uscire nemmeno per soddisfare i suoi bisogni fisiologici. Residente da tempo in Italia, dal dicembre del 1943 al maggio del 1945 aveva accettato di parlare dai microfoni di Radio Roma, sostenendo l’agonizzante ma tuttora virulento regime fascista. Colpa non lieve, di per sé e per una serie di motivi, ma ciò che Sanavio cerca innanzitutto di spiegarsi ed i spiegare sono le ragioni dell’accanimento con cui si infierì poi su di lui per tredici lunghi anni, trasformando uno degli uomini più intelligenti e combattivi del Novecento in un “vecchio spaventato”, la mente ormai ridotta ad un magma informe e senza luce. E tutto ciò mentre, per dirla con Quasimodo, legioni di “perdonati dalla misericordia” riprendevano la via di sempre, in qualche caso tra squilli di fanfara.
Nemico giurato di Roosvelt, al quale imputava la degenerazione del sistema economico americano in una sorta di restaurazione dei rapporti di forza presenti nel paese prima della cirsi del ’29 (il New Deal come colossale menzogna, insomma) che rimproverava per aver trascinato la nazione in una guerra che aveva il solo scopo di mascherare i propri insuccessi, e che accusava di aver violato la Costituzione riformando la Corte Suprema a suo uso e consumo, Pound mostrava di dimenticare troppe cose, facendo sua una parzialità di giudizio che lo avrebbe perduto. L’apprezzamento espresso nei confronti di Mussolini del regime fascista, per esempio. Poggiava su un errore di fondo: “preferire a una democrazia industriale e borghese, pur imperfetta e criticabile, come quella americana, una squallida dittatura balcanica come quella italiana”, imposta e sorretta da una borghesia reazionaria e culturalmente arretrata, per la quale i diritti civili erano poco più di una stravaganza giuridica, da combattere con ogni mezzo. Ma basta tutto ciò a spiegare la crudeltà del trattamento riservato a un uomo la cui arte onorava, in ogni caso, il paese in cui era natio? Pound parlava a ruota libera ma la sua generosità era proverbiale ( sostenne in tutti i modi Eliot ed Hemingway, che a loro volta non lo tradirono mai), non aveva mai torto un capello a chicchessia e, aggiunge Sanavio con accorata ironia, le sue trasmissioni non le ascoltava nessuno. Ma forse la risposta è questa: Pound pagò soprattutto la colpa di essere un intellettuale. Nulla irrita quei burocrati, funzionari e giudici che della mediocrità hanno fatto un vangelo, quanto il trovarsi di fronte a un uomo che si considera ed è superiore a loro. Se dall’alto arriva l’ordine di non averne pietà, lo eseguono con sadico zelo.

 

 

Giacomo Trinci, ALIAS
– 02/04/2005

 

L’Ezra Pound irriducibile di Piero Sanavio

 

Vi sono libri dalla natura strana, ambigua, che ci vengono incontro con passo drammatico e severo; l’eleganza letteraria di cui sono ben provvisti, con buona pace dei manganelliani di turno, non si sposa automaticamente al culto dandy della “menzogna” e della fatua ferocia linguistica, ma vira verso i territori impervi della storica, del resoconto stringente e netto. Uno di questi delicati mostri è proprio La gabbia di Pound di Piero Sanavio (Fazi “Le terre/ Biogafrie”, pp. 191, euro 17,50), che racconta in pagine di viva tensione narrativa, intervallate da foto di sinistra bellezza, la via crucis di un poeta tra i più grandi del secolo che abbiamo alle spalle, gli anni bui di Ezra Pound fino al silenzio. Tredici anni di prigionia dal 1945 al 1958, che sono seguiti con l’esercizio paziente di una carità conoscitiva che esige commozione e distacco insieme. Una prima versione di questo libro era uscita in edizione numerata per Schweiller nel 1986, e qui troviamo in più un nuovo materiale fotografico e documentario che ne accresce incidenza e una tale secchezza di verità da sconfinare nei nostri tempi di tenebra con rara forza comunicativa. Dal campo di prigionia di Pisa, un “gulag della democrazia” – così lo definisce Sanavio – attraversando gli anni dal 1946 al 1958 negli USA, presso il manicomio criminale di St. Elizabeth, Sanavio percorre il dispiegarsi di una macchina feroce e sorda che si chiama, e continua a chiamarsi, “democrazia reale”, il cui nemico principale, al di là della veste congiunturale, fascista comunista o islamica, è qualunque cosa osi mettere in crisi la sua potenza omologante. Scrive Sanavio: “Che fosse di simpatie fasciste e corporative, che ammirasse Mussolini, che avesse poca fiducia nell’esercizio della democrazia borghese (ma lo stesso Roosvelt, all’atto pratico, dimostrava di non averne nessuna), era assai meno importante della sua irriducibile indipendenza – Dal punto di vista del potere – era però proprio la sua coscienza della crisi storica del sistema a rendendolo, per il sistema a renderlo, per il sistema, pericoloso”.
Nei luminosi e cavi brandelli di poesia degli ultimi anni di Pound, qui riportati, circola la paura di essere perduto, sperso, proprio perché gli è toccato di vivere e scrivere nel luogo preciso in cui quello che per lui era il vero gli si presentava come il massimo della perversione della verità stessa, e lo strenuo difensore della Costituzione americana abitava la menzogna che lo faceva passare per antiamericano. Ma mano che si attraversano nel libro i limbi che disegnano il crollo progressivo di un uomo, e si toccano con Pound gabbie di ferro, corridoi, androni di spavento, viene in mente la massima che contrassegna, sulla linea del tempo, l’impazienza messicana, qui rovesciata e sostituita da frammentati spazi in sussulto: “Lo spazio incalza”. Ogni luogo diventa tutti i luoghi che la sterminata e grandiosa semina dei Cantos ha lasciato nella nostra terra desolata. Quello cui Pound aspirava, lo aveva detto un tempo a Bride Scratton, “costruire un sogno sopra il mondo”.

 

 

Paolo Rumiz, LA REPUBBLICA
– 26/03/2005

 

La Guantanamo di Ezra Pound

 

Chiuso come una bestia in una gabbia nel carcere militare americano di Pisa, unico detenuto senza protezione dal sole e dalla pioggia, umiliato davanti a tutti, costretto persino a defecare all’aperto. Così, nel 1945, prima de sbatterlo per tredici anni in un manicomio criminale, con l’accusa di aver criticato gli Stati Uniti dai microfoni di “Radio Roma” negli ultimi mesi di guerra. Un trattamento da Gulag inaudito per una democrazia. Un incubo, nel quale tuttavia il poeta scrisse i suoi capolavori, forse alimentato dalla sua sofferenza.
Ne scrive Piero Sanavio – traduttore di Ezra Pound, antropologo e giornalista – nel libro La gabbia di Pound. Un testo che ammette le gravi sottovalutazioni del poeta sul fascismo e il nazismo, ma anche mostra impressionanti paralleli con l’oggi. Non solo le gabbie di Guantanamo, dove sono chiusi senza tutela i sospetti nemici della Patria, ma anche un’ America che nel dopoguerra si chiude nella caccia alle streghe e nell’omologazione culturale.
L’autore, che ha conosciuto Ezra Pound, usa sistematicamente flash back e illumina immagini terribili. Ezra Pound con l’occhio spaventato di un animale, che passa dall’inglese all’italiano tra miagolii, raschiamenti di gola, fischi e colpi di tosse, che guarda un aereo passare e dice:”Non c’ è nulla dall’altra parte, sono solo con le idee, non ci sono più esseri umani”. E’ la foto di un uomo testardo e ingenuo,, totalmente privo di invidia ma durissimo con i cultori dell’ovvio. “Che fosse di simpatie fasciste era assai meno importante della sua irriducibile indipendenza”. Pound, scrive Sanavio, non fu mai antisemita e tantomeno antiamericano. Cercò di salvare la Costituzione Usa, il Patto delle libertà individuali, dall’aggressione dei poteri finanziari e monopolistici. Brook Adams, cinquant’anni prima, aveva detto le stesse cose, ma nessuno lo ficcò in una gabbia per questo. L’America era un’altra cosa.

 

E. P., CORRIERE DELLA SERA
– 07/02/2005

 

Quando gli editori francesi rifiutavano i “Cantos”

 

23 agosto 1957 St. Elizabeth
Puoi cooperare con Rene Laubiès e/o includendo, piuttosto che farne un duplicato, ciò che ha fatto, ma che è bloccato? E’ riuscito a pubblicare un canto in una rivista, ho scordato quale. Ha tradotto uno dei cantos sugli Adams. In ogni caso incontrarlo se vai a Parigi. m(olto) s(inceramente) t(uo) Questa lettera inedita di Ezra Pound accenna alle difficoltà editoriali che la sua opera ancora incontrava alla fine degli anni Cinquanta. Il poeta chiede a Piero Sanavio, a quel tempo pendolare tra Parigi e gli Usa, di aiutare Rene Laubiès (pittore astrattista nato in Algeria, con il quale è in contatto da anni), che si era sentito rifiutare dagli editori francesi Gallimard e Seuil la pubblicazione di alcuni “Cantos” poundiani da lui tradotti. Nonostante gli sforzi, dovettero passare quasi altri dieci anni prima che in Francia le Edizioni du l’Herne decidessero di mandare alle stampe due antologie critiche su Pound, curate da Sanavio e che comprendevano anche testi di Rene Laubiès.

 

Luigi Iannone, L’INDIPENDENTE
– 20/02/2005

 

Nella gabbia di Ezra

 

IL CARCERE di Pound con le giornate passate a scrivere i suoi capolavori. Sanavio ripercorre la figura del Pound fascista “ma non antisemita” in un saggio (corredato anche da foto e documenti inediti) sulla violenza “morale” fatta ad un intellettuale condannato per le sue idee e sulla protervia delle democrazie occidentali che hanno tentato, in parte riuscendovi, di trasformare un uomo in un “soggetto diverso”. Nel maggio del ’45 due partigiani conducono Pound al Comando alleato, internato poi in una gabbia di ferro all’aperto e quindi esposto a tutte le intemperie. Sarà isolato dagli altri e impossibilitato a muoversi ma riuscirà a non soccombere, leggendo e traducendo Confucio in italiano e componendo Canti.
Dichiarato pazzo per aver scritto che l’usura è il male peggiore della nostra epoca, rovina dei popoli e causa di guerre. Oggi riaffiora alla memoria questo Pound annichilito, un poeta che suggellò con dei capolavori letterari la sua libertà intellettuale ed in grado di disarticolare o spiantare qualunque costrizione fisica. Il libro fa riflettere sugli errori speculari delle dittature e delle democrazie. Anche se su quest’ultime, portatrici oggettive di diritti e libertà, grava in assoluto un maggior carico di responsabilità.

 

Eleonora Buratti, IL MATTINO DI PADOVA
– 21/02/2005

 

Il racconto dei mille volti dello scandaloso Ezra Pound

 

Oggi parlare di Ezra Pound non scandalizza più nessuno. Si può tranquillamente apprezzare la su genialità di poeta e accettarne con compiaciuta tolleranza le simpatie fasciste, si possono considerare la sua depressione e i suoi accessi psicotici come curiosità aneddotiche, elementi identificativi, e la sua presunta pazzia può suggerire argute speculazioni sul senso della normalità.
“Certamente non era così quarantacinque anni or sono, nella puzza di zolfo dei suoi errori politici e nella mancanza di chiavi di decodificazione dell’opera letteraria” – sottolinea Piero Sanavio nell’introduzione al suo La gabbia di Pound, il libro uscito in stampa limitata nel 1986 e ora ripubblicato da Fazi in edizione rivista, arricchita e accresciuta (191 pagg., 17,50 euro).
e’ il racconto della vita di Ezra Pound, in particolare della sua carcerazione a seguito delle dichiarazioni antiamericane espresse dai microfoni di Radio Roma e punite con la reclusione nel 1945 presso DTC di Pisa e poi, fino al 1958, nel manicomio criminale americano di St. Elizabeth; ed è il racconto degli anni successivi alla sua liberazione, vissuti in preda alle psicosi, fino a quando, nel 1972, “scivolò via rapidamente nel sonno, come dentro l’acqua”.
Ma attraverso questi fatti – documentati da fotografie, lettere, atti – il libro ripercorre anche la storia politica e culturale d’Europa e d’America vista con gli occhi di Ezra Pound, secondo cui l’intera cultura dell’Occidente era omologata alle necessità di propaganda dell’Urss, secondo cui Mussolini era “un opportunista che ha ragione” e Roosvelt un presidente fallito che, tentando di fare uscire gli Stati Uniti dalla grande crisi del ’29, con il New Deal aveva di fatto compiuto operazioni discutibili contro i cittadini americani e nell’interesse del potere bancario.
E per questo Ezra Pound venne punito, “non per la violenza con cui esprimeva le sue idee, semmai perché difendeva con violenza quelle idee”.
L’elegante opera di Sanavio, che sfugge ad ogni classificazione di genere collocandosi tra il romanzo, la biografia e il saggio politico e letterario, i interessa infine di Pound come uomo e come artista. Sanavio si sofferma sulla sua follia (follia o anticonformismo?) e sulle difficoltà di un individuo che ebbe se stesso come peggior nemico.
Il libro riporta alcune sue poesie, dà atto dei suoi pensieri, veicola le sue opinioni sulla cultura, sulla letteratura, sull’arte – problemi risolvibili anzitutto in termini monetari, campi in cui non può essere praticata la democrazia (che “può esistere soltanto in condizioni feudali, quando nessuno teme di riconoscere le capacità creative del suo vicino”), mezzi indispensabili di qualunque pensiero e opinione, e quindi funzionali anche al buon funzionamento dello Stato.
Piero Sanavio ha incontrato più volte Ezra Pound e più volte ha scritto di lui e della sua opera, ma La gabbia di Pound non è né un’agiografia né un’analisi dettagliata del suo pensiero; è un nuovo, intenso sguardo su un gigante del XX secolo, e un interessante modo di fare letteratura.

 

L’ESPRESSO
– 04/03/2005

 

Freschi di stampa

 

“Non ho parlato di questa guerra ma ho protestato contro un sistema che crea una guerra dopo l’altra, in serie e sistematicamente”. Così Pound si difendeva dall’accusa dell’anti-americanismo che gli costò 13 anni di prigionia in manicomi disumani.
Lo racconta con passione uno studioso “di sinistra”.

 

Gerardo Picardo , IL SECOLO D’ITALIA
– 09/03/2005

 

Se la democrazia sequestra la poesia

 

Occuparsi oggi di Ezra Pound non rappresenta nessun coraggio e nessuna novità. Non era certo così quarantacinque anni or sono, quando questo poeta veniva immerso nella ‘puzza di zolfo’ delle sue scelte politiche e mancavano, almeno in Italia, decodificazioni compiute della sua opera letteraria. Carlo Izzo, che lo aveva conosciuto a Venezia prima della guerra, ne parlava in maniera impressionistica, filtrando ogni cosa attraverso il proprio protagonismo. Occorrerà aspettare l’antologia critica di Pter Russell e, più tardi, la traduzione dei ‘Pisan Cantos’ di Alfredo Rizzardi per avere qualche strumento che permettesse di ‘smontare’ il testo. Un altro elemento che giocava un ruolo negativo nei riguardi del poeta era l’assoluta mancanza di una aneddotica che potesse trasformarlo in personaggio giornalistico. Diversamente da altri scrittori stranieri che ci piovevano addosso, Pound non era infatti alcolizzato, non frequantava country club, non amava la cioccolata dei ‘liberatori’ a stelle e strisce e parlava di cose di casa nostra. Inaudito!, anche perché la sua America non era quella di John Ford. A partire dagli anni Trenta e fino al 1945, Ezra Pound visse in Italia. Vi ritornò poi nel 1958; nel mezzo, tredici anni di prigionia: nel 1945 presso il Dtc di Pisa, un campo delle forze alleate in Italia, in seguito all’accusa di alto tradimento per aver espresso dai microfoni di Radio Roma “incitamenti antimericani”. E poi, dal 1956 al ’58 negli Usa, presso il manicomio criminale di St. Elizabeth. Nel campo di Pisa, “un gulag della democrazia”, come lo definiscono queste pagine di Piero Sanavio (“La Gabbia di Pound”, Fazi editore, pp. 193, euro 17,50) le celle erano semplici gabbie all’aperto. Quella del poeta, poi, era isolata dalle altre e all’autore dei ‘Cantos’ non veniva concesso di uscire per mangiare e sgranchirsi. Eppure in quella ‘gabbia’ Pound scrisse gran parte dei suoi “Canti pisani”, forse il suo capolavoro. Molti testi furono in realtà composti a mente, ripetuti per ore e poi trascritti a macchina anche a giorni di distanza grazie a un infermiere compassionevole. A St. Elizabeth Pound rimase per dodici anni, conoscendo una stagione di grande creatività ma anche di enormi sofferenze e quando fu finalmente liberato, visse gli ultimi anni in preda a una depressione cronica che non lo avrebbe più lasciato. Sanavio, che visitò più volte il poeta negli anni duri di St. Elizabeth, ricostruisce le due prigionie con documentazione inedita e forte tensione narrativa offrendo, “da sinistra”, un quadro equilibrato del pensatore americano. Pound, che per l’autore del saggio fu senz’altro fascista, non fu infatti mai e in alcun modo antisemita. Le imputazioni a suo carico, che il 19 novembre 1945 il giudice Bolitha J.Laws aveva letto nell’aula del tribunale della capitale americana erano gravissime: per esse il poeta rischiava la condanna a morte. “Ne era cosciente e da tempo”, annota Sanavio. Alla radio aveva sostenuto, come aveva scritto a Biddle, che egli parlava con assoluta libertà e che il governo italiano “si era impegnato con lui a non chiedergli mai nulla che fosse contrario alla sua coscienza” e alla sua lealtà di cittadino americano. “Tutto questo era vero, ed esistono in proposito qualificate testimonianze”. La parte in cui egli era prigioniero, nel Dtc, era ‘death zone’. Di tanto in tanto qualcuno dei suoi compagni era prelevato dai mastodointici MP e trascinato a essere “appeso per la gola finché morte non sopravvenga”. Li rivedeva spesso quei morti, ne risentiva le voci, come aveva scritto nei “Cantos”. Il 15 maggio del 1943, prendendo spunto da un discorso del segretario di Stato Sumner Welles, dove l’esponente della Casa Bianca sosteneveva che l’aggressione economica era un fattore di guerra, Pound ritorceva la frase contro gli Stati Uniti e commentava: “Ai non americani, la storia americana degli ultimi trent’anni appare come una serie ininterrotta di aggressioni compiute dagli Stati Uniti: che sono la patria dei Rockfeller, dei Guggenheim, dei Morgan. La guerra civile americana segnò un record mondiale di carnaio e vinsero le due parti; e intanto i ragazzi in divisa blu e quelli in divisa grigia obbedienmtemnete morivano”. Pound criticava l’impero a stelle e strisce in quanto puntava il dito contro le degenerazioni di un sistema economico che, con il New Deal, F.D. Roosevelt e gli interessi che a lui facevano capo, si erano proposti di salvare. E nel 1933 scriveva a proposito di Mussolini: “E’ un opportunista che ha ragione, trascinato da una profonda preoccupazione per il proprio Paese, non per un’Italia come burocrazia o macchina statale, ma per uno Stato organico, composto dall’ultimo aratore e dall’ultima raccoglitrice di olive. Credo che un’Italia forte sia lo sola possibile àncora per il bene dell’Europa”. Da Radio Roma, il 20 aprile 1942, aveva ripetuto che “gli italiani sono i più grandi anarchici del mondo. Soltanto il fascismo poteva tenere questa gente insieme”. Non era dissimile il suo odio per i “falsificatori della moneta”. Ma “va subito chiarito che Pound non intendeva combattere il fascismo, pure se occasionalmente ne riconosceva il provincialismo e le limitazioni. Fu fascista, pure se a suo modo, ed ebbe anche rapporti con la Rsi. Prendendo alla lettera la propaganda di Mussolini, vedeva nel cosiddetto programma di Verona una dichiarazione di ‘socialismo orofinario’. Lo colpiva in particolare la frase ‘diritto alla proprietà’. Gli pareva una dichiarazione di portata rivoluzionaria, un rivesciamento della concezione del diritto ‘della’ proprietà”. E tuttavia, proprio per questa sua visione del fascismo, Pound inquietava gli ortodossi del nuovo regime. Diceva di considerare il suo Paese un gigantesco manicomio. E del resto uno degli slogan che la classe media d’oltreceano imponeva in quegli anni era: “Se l’America non ti piace, vattene”. In simile prospettive Ezra Pound, non certo ridicibile all’immagine stereotipa del fascista, accusato di antisemitismo come altri lo erano di comunismo, si trovò a giocare il ruolo quanto mai scomodo di demonio incarnato, che si sperava di ricondurre a ragione. Eccolo allora il poeta in ceppi e pronto a essere punito. Ma “attaccare Pound quando non poteva difendersi – annota il testo – non era dissimile dal denunciare all’FBI i propri amici che vent’anni prima avevano espresso idee progressiste o avevano raccolto fondi per la Spagna”. La delezione, insomma, anche nel Paese della Libertà, garantiva sempre dei vantaggi derivanti dall’essere nalla cosiddetta ‘ortodossia’, e costituiva anzi “quasi un giuramento sulla bandiera”. Pound fu senz’altro il peggio nemico dei teorici e dei pragmatisti del New Deal. Per lo stesso motico scherzava con i ‘pesci piloti’ – per usare un’immagine di H. Hemingway – costituita dall’opinione media e dai medici che lo studiavano come fosse una scimmia. Uno “scheletro nella credenza nazionale”, fu definito. In effetti, lungi dall’essere antimericano, come a molti pareva, egli era forse l’ultimo scrittore ‘civile’ del suo Paese dopo Walt Whitman. Come questi egli voleva infatti veramente salvare la Costituzione, ei Cantos, le traduzioni da Confucio, “anche per questo erano stati scritti”. Patriottismo per lui non era cieca accettazione di trasmessi principi ma difesa delle idee, anzitutto il patto tra l’uomo e lo Stato. Era il ‘patto’ per i protestanti inglesi e la ‘Patria’ per Pound. Se davvero qualcuno pensò, con il manicomio, di impedire a una mente di pensare e di spingere un poeta nell’oscurità della follia, costui alla fine ottenne il suo scopo, perché s’era sempre opposto a “puttane per Eleusi”, sostenendo che “sotto usura nessuna pietra è tagliata liscia”. In una delle ultime foto, Ezra è nudo fino alla cintola. Ha le mani in tasca, gli occhi chiusi, la testa buttata all’indietro e la bocca spalancata in un grido che è un attacco alla mediocrità del pensiero. Era battuto e lo sapeva. “Ho infranto la tromba, perdio. Quel porco è morto e non troveranno un altro avorio così buono”, scriveva. E ancora: “Persi il mio centro combattendo il mondo. I sogni cozzano e sono infranti/e sì che cercavo di costruire un paradiso terrestre”. Ma il suo nome restava pulito come sempre, “intocco, anche quando quello dei suoi nemici un giorno, presto, sarà scordato”.

La gabbia di Pound - RASSEGNA STAMPA

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