Georges Didi-Huberman
Il gioco delle evidenze
La dialettica dello sguardo nell'arte contemporanea
Traduzione di Cinzia Arruzza
L’uomo e l’opera d’arte, chi vede e chi è visto: due posizioni che non sembrano intercambiabili. Eppure, nell’arte contemporanea, potrebbe non essere così.
Quel che osserviamo ha valore – ci colpisce, ci parla – perché ci riguarda. E se questo è vero, come pensare oggi le implicazioni estetiche, psicologiche, etiche dell’atto di guardare? Georges Didi-Huberman, uno dei più importanti teorici francesi contemporanei, individua nei “guardanti” due atteggiamenti opposti ed egualmente insufficienti: uno sempre pronto a credere, come l’apostolo davanti alla tomba di Cristo, che quanto ha di fronte agli occhi conduca a un piano posto oltre la visione stessa; l’altro ancorato all’apparente evidenza di ciò che si guarda, alla tautologia, al “ciò che si vede è ciò che si vede” e basta. Posizioni opposte e inconciliabili, che l’autore rintraccia nella storia dell’arte ma anche nella tradizione letteraria (dal Processo di Kafka all’Ulisse di Joyce). Per superare questa dicotomia occorre allora immaginare un modo di guardare che non crede a ciò che vede ma neppure si limita alla pura esaltazione della superficie. Per confrontarsi con il movimento dialettico tra apparenza e profondità che abita ogni immagine, l’autore sceglie di misurarsi con un’opera che rappresenta un “grado zero” dell’iconografia, forse la creazione più essenziale che la scultura contemporanea abbia offerto: il grande cubo nero dell’artista americano Tony Smith. È davanti a quest’oggetto – al suo potere di fascinazione, alla sua inquietante alterità, alla sua potenza – che si può ripensare il rapporto tra la forma e la presenza, la prospettiva temporale che vi appare, la distanza che ci impone. Dando una nuova lettura dell’arte minimalista e dei problemi teorici ed etici che essa ha sollevato, Didi-Huberman propone nel volume un’originale antropologia dell’immagine e un appassionante esame dei rapporti vivi fra l’opera e chi la guarda.
«Didi-Huberman è oggi il più significativo filosofo e storico dell’arte europeo».
Marco Belpoliti, «TTL – La Stampa»
«Forse nessuno negli ultimi anni ha cambiato il concetto di storia dell’arte quanto Georges Didi-Huberman».
Giuseppe Montesano, «L’Unità»
«I suoi studi incrociano la storia dell’arte con la filosofia e la psicanalisi nello sforzo di circoscrivere con la parola quel che sempre le sfugge: il campo del visuale».
Andrea Pinotti, «il manifesto»
«Nell’attuale dibattito sullo statuto dell’immagine, la riflessione del filosofo e storico dell’arte francese ha svolto e svolge un ruolo importante».
Giuseppe Di Liberti, «L’indice»
– 01/10/2008
Soglie e contatti
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Tutta la vita in un cubo nero
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Didi-Huberman e la dialettica dello sguardo
Se vedere è perdere, perché resti la traccia di una somiglianza perduta a ricordarci che qualcosa ci sfugge in maniera ineluttabile, l’immagine avrà una capacità svuotante. È la premessa da cui muovono le riflessioni sull’arte contemporanea di Georges Didi-Huberman in Il gioco delle evidenze (226 pagine, 26,50 euro, Fazi). Si avrà quindi la presenza di un’assenza nel punto d’inquietudine tra diastole e sistole, tra un fuori e un dentro. Bisogna quindi inquietare il nostro vedere, elaborando una perdita in cui esploda il visibile. Ci vuole un potere dello sguardo prestato al guardato dal guardante. Benjamin descriveva questa esperienza: «Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare» in «un singolare intreccio di spazio e tempo», di «apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina».
In questa distanza che ci guarda e ci tocca, vi è un potere della memoria, «memoria involontaria». Quando siamo improvvisamente toccati da qualcosa che vediamo, ci apriamo a una dimensione essenziale dello sguardo, che nella profondità trova lo spazio che si dà. Si dà, come sempre, in disparte, creando uno spaziamento. Si tratta quindi di superare la falsa opposizione di presenza e assenza e di lasciare che la presenza venga abbandonata al lavoro della cancellazione, al momento differenziale o différent che la costituisce e la supera. Il lavoro del suo spazializzarsi, del suo temporalizzarsi.
Nel farsi dello sguardo, vi è l’esigenza di pensare la forma come un processo di deformazione o la figura come il processo dello sfigurare. Il luogo dove vedere è perdere e in cui l’oggetto della perdita ci riguarda, è il luogo del perturbante (das Unheimliche) che sembra rispondere a ciò che Benjamin cercava di intendere con il carattere «strano» (sonderbar) e «singolare» (einmalig) dell’immagine auratica.
L’Unheimliche freudiano manifesta questo potere del guardato sul guardante degli oggetti auratici. L’oggetto unheimlich ci attrae verso l’ossessione, mescolando attrazione e angoscia, perché l’esperienza del perturbante ci espone al rischio di non vedere più. Si è fatta l’esperienza di un’apparizione strana, unica, di qualcosa «che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato» (Schelling).
Il perturbante disorienta. Non sappiamo più esattamente ciò che è davanti a noi e ciò che non lo è, e se il luogo verso cui ci dirigiamo sia dentro. Il disorientamento del nostro sguardo ci separa dall’altro e da noi stessi, in noi stessi. Siamo quindi minacciati dall’assenza. Questa scissione aperta in noi da ciò che vediamo, da ciò che ci riguarda, ci mostra una soglia governata da una legge misteriosa. Ci troviamo tra un davanti e un dentro. È necessario il tempo, tutto il tempo, per questa dimensione atemporale di eterna porta o soglia da varcare.
Se chiamiamo immagine l’oggetto del vedere e dello sguardo, davanti all’immagine ciascuno sta come davanti a una porta aperta nel quadro della quale non si può entrare. Di fatto noi portiamo lo spazio per mezzo della carne, come elemento non percepito, fondamentale, di tutte le nostre esperienze sensoriali o fantasmatiche. E questo spazio può apparire solo nella dimensione di un incontro, in cui lo si libera dai limiti, lo si separa dal qui, dalla prossimità visibile, e nello stesso tempo si presenta un là, una distanza che “apre” e lascia apparire.
Il luogo dell’immagine può essere colto attraverso le esperienze dialettiche dell’aura o del perturbante che si aprono a noi e finiscono per aprirsi in noi, incorporarci. La soglia, è una soglia interminabile di attese e folgorazioni senza fine, tra una memoria e un’aspettativa, tra ciò che un giorno ha conosciuto la fine e ciò che un giorno vedrà la fine. Ogni immagine è una soglia che apre il suo fondo, ma ritirandolo, ritirandosi, ma attraendoci. Attraverso di essa, il nostro sguardo può ricongiungere un lutto e un desiderio, in un tempo per sentirsi perdere tempo, per perdere se stessi.
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l’arte che ci ri-guarda
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Il gioco delle evidenze
– 17/04/2008
IL SAGGIO
IL SAGGIO
Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fazi, 2008, pp. 226, € 26,50
Se girare per mostre d’arte vi appassiona, ecco allora un libro che scuoterà irrimediabilmente la vostra relazione con il mondo delle immagini. Il titolo e il sottotitolo scelti per l’edizione italiana possono solamente cercare di sciogliere il fecondo gioco di parole del titolo francese “Ce que nous voyons ce qui nous regarde”, il quale gioca apertamente sull’ambivalenza del “nous regarde” che può voler dire sia “ci guarda” sia “ci riguarda”.
Georges Didi-Huberman, forse il più importante storico d’arte e filosofo del visivo che la contemporaneità offra, ci presenta una nuova fase della sua riflessione sull’esperienza visuale nella quale registriamo un’attenzione particolare alle implicazioni etico-estetiche e psicologiche dell’atto del guardare. Credenza e tautologia, questi sono i due atteggiamenti estremi e entrambi insufficienti di chi guarda: da un lato chi va oltre l’immagine per credere a qualcosa che sta in un piano retrostante e dall’altro chi si ferma alla superficie, alla mera evidenza delle cose (atteggiamento sintetizzato dall’espressione secca “quello che vedi è quello che vedi”). Il superamento della dicotomia è la sfida che si pone l’autore con questo saggio e il grande cubo nero di Tony Smith è l’opera d’arte contemporanea che offre gli spunti più interessanti per lo sviluppo del suo ragionamento, grazie al forte valore iconico di questa e alla sua rilevanza nell’ambito della minimal art.
Georges Didi-Huberman ripensa al rapporto tra forma e presenza, ridefinisce nuovamente il concetto di “aura” teorizzato da Walter Benjamin nel suo fondamentale L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ritorna sulla dialettica tra vuoto e pieno e consegna nelle nostre mani un libro che sa dirci molto dell’ambigua relazione che intratteniamo con le onnipresenti immagini della nostra vita (e non necessariamente solo con quelle di ambito artistico), con qualcosa che ci riguarda costantemente da vicino.
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