Dan Hofstadter

La storia d’amore come opera d’arte

COD: 084b6fbb1072 Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
12
Pagine:
336
Codice ISBN:
9788881120529
Prezzo cartaceo:
€ 8,00
Data pubblicazione:
01-10-1997

Traduzione di Chiara Vatteroni

«L’amore è un modo di ricordare e il ricordo un modo di amare».

L’età romantica, sostiene Dan Hofstadter in questo libro originale e trascinante, trasformò il legame amoroso in una vera e propria opera d’arte, in cui riversare tesori di raffinatezza, sensibilità e fantasia. E in nessuna civiltà come in quella francese dell’Ottocento tale splendido gioco coinvolse tanti artisti e scrittori, destinati a provare le più sublimi felicità e assieme le più amare disillusioni. Con una partecipazione ironica e distaccata, l’autore ci guida attraverso i carteggi che ispirarono le opere più acclamate di uomini e donne celebri come Proust, Chateaubriand, Constant, George Sand, De Musset, leggendo, con intuito strabiliante nelle pieghe più segrete della loro vite, come nelle pagine di un sorprendente romanzo.

«È l’erudizione, sono le piccole notizie setacciate frugando negli archivi a tenere lo specchio all’estro malizioso di Hofstadter».
Antonio Debenedetti, «Il Corriere della Sera»

«Hofstadter riscopre le educazioni sentimentali che regalarono alla letteratura francese dell’Ottocento romanzi dimenticati come l’Adolphe di Constant o capolavori come la Recherche di Proust».
Laura Verlicchi, «il Giornale»

LA STORIA D’AMORE COME OPERA D’ARTE – RECENSIONI

 

P.N.Furbank, LA RIVISTA DEI LIBRI
– 04/01/1998

 

AMORI DI LETTERATI

 

“Contre Sainte – Beuve di Proust, vale a dire la raccolta dei suoi inediti pubblicata con questo titolo nel 1954, fu una rivelazione per una mezza dozzina di ragioni. Come spiega Bernard de Fallois nell’introduzione, il progetto, da tempo accarezzato, di scrivere una sorta di requisitoria contro Sainte – Beuve era stato all’origine del grande ciclo narrativo “À la recherche du temps perdu”. Accadde più o meno nel 1908. Proust era malato, pensava che le sue facoltà mentali, o almeno la sua sensibilità, stessero scemando e sentiva con una stretta al cuore il rischio che le cose che aveva da dire – e che nessuno aveva mai detto – non venissero mai espresse. Fu allora che si dedicò definitivamente al lavoro e all’arte, a un’idea della vita come di “qualcosa al di fuori della vita, e per nulla partecipe della sua vanità e della sua fatuità”. Per lui divenne quindi importante spiegare perché l’idea della letteratura di Sainte – Beuve e il suo famoso “metodo” critico fossero totalmente sbagliati. Sainte – Beuve sosteneva che, studiando un’opera letteraria, si studiava in sostanza un autore, e che per questo era necessario sapere di lui tutto il possibile: cosa pensava della religione, come reagiva alla natura, come si comportava con le donne, i soldi, ecc. (E conoscerlo di persona, o aver modo di consultare persone, vive o morte, che lo avevano conosciuto, sarebbe stato un vantaggio inestimabile). Poi, una volta studiati in questo modo molti e differenti scrittori, si poteva sperare di dare alla letteratura una base scientifica, stabilendo una classificazione “botanica” dei vari generi e specie di scrittori. L’obiezione di Proust a questa tesi è decisiva. Il “metodo” di Sainte – Beuve non ha alcune speranza di riuscita, perché un libro è il prodotto di un “io” differente da quello che esprimiamo “nelle nostre abitudini, in società e nei nostri vizi”. Per cercar di capire questo “io”, dobbiamo operare non consultando testimoni, ma attraverso l’introspezione: indagando nel profondo di noi stessi e ricreandolo, o tentando di ricrearlo, dentro di noi. Questa tuttavia, trattandosi di Proust, non è certo la sua unica riflessione su Sainte – Beuve. Ritiene infatti insignificante che Sainte – Beuve, il quale aveva sognato una vita da agiato dilettante, sia diventato uno scrittore assai più brillante quando fu costretto a produrre un saggio ogni settimana (i suoi famosi “Lundis”), razziando disperatamente a tal fine quei pensieri profondi che aveva tenuto in serbo per un romanzo o una raccolta di poesie. Di fatto Proust parla della scrittura di Sainte – Beuve in termini molto generosi, e l’idea della sua settimana “febbrile e affascinante” – che sfociava nello splendido risveglio del lunedì quando, con il cielo dell’alba ancora pallido e buio oltre le tende, apriva il “Constitutionnel” e rileggeva le proprie abbaglianti parole con la consapevolezza che i suoi ammiratori del “beau monde” stavano facendo la stessa cosa – affascinava Proust come la visione di una felicità assurda ma reale. E la sua mente fantasticava sul risveglio di un giovane aspirante scrittore, che per settimane aveva atteso invano di vedere stampato un suo articolo, ma la cui madre, stamattina, ha lasciato una copia del giornale sul suo capezzale con aria fin troppo indifferente e si è allontanata in gran fretta… Il percorso di questi pensieri, che parte dalla falsità del metodo critico di Sainte – Beuve e approda prima al felice godimento da parte dello stesso Sainte – Beuve del proprio lavoro e del suo successo mondano, poi a una scena del tutto immaginaria che combacia perfettamente con la non ancora scritta “À la recherche du temps perdu”, è straordinariamente suggestivo e ci ricorda ancora una volta l’apertura mentale di Proust. Sembra che Sainte – Beuve continui a ossessionare molti intellettuali. Era una presenza importante in “La rovina di Kasch” di Roberto Calasso e lo è anche in “La storia d’amore come opera d’arte” di Dan Hofstadter. Noto che entrambi, come altri, tendono a sostenere che Proust aveva in comune con Sainte – Beuve più di quanto gli piacesse ammettere. “Proprio dove vuole offrire una descrizione demolitrice del “metodo” di Sainte – Beuve”, scrive Calasso, “Proust ne scopriva il segreto, che gli era invece molto affine”. Analogamente, secondo Dan Hofstadter, “Sainte – Beuve è una figura dominante nel mondo di Proust, un nonno odioso che entra nella casa mentale del giovane sputando sentenze a getto continuo e pretendendo attenzione e assicurazione di sopravvivenza”. Non è possibile non sentire, dice ancora Hofstadter, che l’atteggiamento di Proust verso questo “antenato autoritario” è più ambiguo di quanto egli sia disposto a riconoscere”. “Dopo tutto i due scrittori hanno alcuni punti in comune: che cos’è l’esaltazione del salotto fatta da Sainte – Beuve se non una sorta di premonizione storica della salottomania dello stesso Proust, del suo compulsivo aggirarsi per il Faubourg Saint – Germain?” C’è in questo una mezza verità, o una quarto di verità, ma non mi pare che sia di grande aiuto. Ciò che ci mostrano le pagine di “Contre Sainte – Beuve” è comunque che nel suo rapporto con Sainte – Beuve non c’è nulla su cui Proust, con lo spessore del genio, non avesse già riflettuto a fondo per conto proprio. Tuttavia che autori e critici non dovrebbero occuparsi degli scrittori ma delle opere, o dovrebbero almeno resistere alla tentazione di fare confusione tra loro, era un principio sostenuto da T. S. Eliot, nell’ambito di una teoria dell’Impersonalità, e propugnato in maniera più rigorosa dagli esponenti del New Criticism. Ciò che Proust dice non è esattamente questo, ma ne è un potente compimento, poiché quell'”io” dell’autore che egli ci invita a ricreare dentro di noi non è rintracciabile al di fuori delle sue opere. E’ una regola aurea, ma risono persone che non ne sembrano convinte e che si sforzano continuamente di aggirarla. Il libro di Dan Hofstadter è un esempio significativo. Egli ci racconta ancora una volta un certo numero di storie d’amore che coinvolsero scrittori famosi, alcuni del Primo Ottocento, altri dell’ultimo decennio del secolo. Per il primo gruppo abbiamo la relazione di Benjamin Constant con la Belle de Zuylen, la sua infatuazione per Juliette Récamier e i suoi famosi quindici anni di “schiavitù” con Madame de Staël; la grande passione di Alfred de Musset e George Sand che ispirò a lui la lirica “Nuit de mai” e la “Confession d’un enfant du siècle” e diede a lei materiale per più di un romanzo; e la lunga e dignitosa “amitié amoureuse” fra Juliette Récamier e Chateaubriand. A questo punto il libro apre una parentesi per offrirci alcune riflessioni sulle mode mutevoli e sui modelli ricorrenti nelle relazioni amorose. Man mano che leggiamo delle “grandi relazioni amorose” del secolo scorso, dice Hofstadter, siamo tentati a classificarli in diversi tipi, ma è una tentazione cui conviene resistere, perché i francesi hanno un patrimonio troppo vasto di conoscenze mondane sull’amore, e perché anche in questo campo le mode cambiano in fretta. “La mente, cercando di afferrare questo o quello stile di corteggiamento, è come un riflettore che gioca sulla passerella di una sfilata di moda dove ogni disegno è in continuo movimento e scompare all’improvviso tra le quinte”. Studiando ciò che rimane delle antiche passioni – ingiallite pagine di diario, lettere d’amore legate con un nastro e vecchi “romans à clef” – si può anche essere tentati a vedere nell’amore la permanenza di un mito, ma è un’illusione. Già ai tempi di Flaubert, “il lacrimoso amante dell’epoca romantica che minaccia il suicidio era già tramontato”. Qual è allora il tono caratteristico delle “liasons” letterarie del periodo successivo (la fine del XIX secolo) di cui Hofstadter passa poi ad occuparsi? E’ quella, dice, che Benjamin Constant chiamava “sensibilità ostile”. E’ un procedimento più simile allo scolpire che al modellare. “Nell’apprendere quello che non piaceva nel comportamento delle persone, si scoprivano di sé appetiti e atteggiamenti, la propria individualità”. Ciò porta Hofstadter, con una transizione che non riesco a comprendere, a parlare di come gli scrittori definiscono se stessi attraverso la loro antipatia per altri scrittori – ad esempio Balzac con la sua riscrittura vendicativa del romanzo “Volupté” di Sainte – Beuve e di “Adolphe” di Constant – e questo a sua volta porta Hofstadter ad attaccare con virulenza Sainte – Beuve. Ma su questo tornerò più avanti. Poi il libro riprende con un lungo resoconto del rapporto di amore e odio fra Anatole France e la sua mecenate Léontine de Caillavet, ben nota per il suo salotto letterario, e con la sconcertante saga dei sentimenti di Proust per Jeanne Pouquet che sposò il suo amatissimo amico Gaston, figlio di Madame de Caillavet e famoso autore di commedie di “boulevard”. Hofstadter afferma, con parole disarmanti, di non aver avuto la pretesa di produrre un’opera scientificamente originale, e di non aver voluto “aggiungere nulla alla somma dell’umana conoscenza”, ma di essere stato stimolato a scrivere il libro da certe recenti rivelazioni su antichi eventi; in particolare dalla scoperta, fatta da Georges Lubin, che George Sand modificò le proprie lettere, in vista di una eventuale edizione postuma, per apparire in una luce migliore, e dalla pubblicazione, per la prima volta, della corrispondenza Caillavet – France nonché dei ricordi su Léontine de Caillavet e il suo salotto da parte di Jeanne Pouquet e di Micelle Maurois. Il libro è strutturato con abilità, anche perché nella realtà queste storie d’amore erano intrecciate, e nel susseguirsi delle sue argomentazioni ritorna continuamente ai due temi principali: il romanzo “Adolphe” di Constant e la personalità di Sainte – Beuve. “Adolphe” racconta l’evolversi del rapporto fra un giovane sfaccendato e una donna più anziana, iniziato per vanità e per capriccio e concluso con un intrappolamento fatale e una paralisi della volontà (di entrambi) che può cessare solo con la morte della donna. Come è facile immaginare, i modi contrastanti in cui i protagonisti di Hofstadter interpretano “Adolphe” ci dicono di loro quanto del romanzo in sé, se non di più. Per ciò che riguarda Sainte – Beuve, egli figura come consigliere e coscienzioso mezzano di George Sand nella sua relazione con Musset; come ambiguo testimone del legame tra Chateaubriand e Juliette Récamier, e come un misto di modello di comportamento e di terribile monito per lo stesso Hofstadter. Hofstadter ha scritto un libro assai leggibile e in un certo senso affascinante. Per prima cosa ha la scrittura vivace di un buon autore di romanzi storici. “Tutta l’infelicità cominciò un pomeriggio all’inizio dell’autunno del 1794 quando Madame de Staël, che stava viaggiando sulla strada che costeggiava il lago da Ginevra a Losanna, si accorse di essere inseguita a tutta velocità da un cavaliere solitario”. Comincia così la storia di Madame de Staël e Benjamin Constant, “un tipo alto e dinoccolato che portava i capelli color carota a coda di cavallo e aveva un certo modo di sorridere con mezza faccia”. Un altro inizio (quello della storia di Juliette Récamier e di Chateaubriand) è questo: “L’uomo che un giorno avrebbe risolto l’enigma di Juliette era di nove anni più vecchio di lei: un bretone basso dalla carnagione bruna, con occhi tristemente pensierosi e sopracciglia telegrafiche”. E’ un po’ troppo colorito, ma ci si può abituare. Sa inoltre cogliere certi particolari biografici significativi. Si rimane avvinti leggendo del momento culminante di un battibecco fra Anatole France e sua moglie Valérie: “…Lo scrittore, sorpreso nel bel mezzo del lavoro, si alzò dalla scrivania, sbatté la carta e il calamaio su un vassoio e, ancora in vestaglia, pantofole e berretto, senza interrompere il movimento della mano che scriveva e trascinandosi dietro il cordone della vestaglia, continuò a scribacchiare alacremente finché non raggiunse l’Hôtel Carnot”. Ma proviamo a essere pignoli e ingrati e cerchiamo di riflettere a fondo sul tema di Hofstadter considerandolo puramente come tema. Forse nell’epoca di Oscar Wilde l’espressione “la storia d’amore come opera d’arte” poteva sembrare il paradosso di un esteta, ideato per far infuriare i filistei; ma nel tono di Hofstadter c’è qualcosa da cui si può dedurre che egli sia passato dalla loro parte. In ogni caso, anche correndo il rischio di apparire il più squallido dei pedanti, devo dire che non c’è modo di attribuire a quell’espressione un minimo di senso. E’ evidente che un innamorato non può considerare una storia d’amore come un’opera d’arte, perché se lo facesse non sarebbe più un innamorato ma un “poseur”; e da quale prospettiva un osservatore esterno, esteta o no, potrebbe vedere in lui un innamorato, e non uno che si finge scherzosamente tale, è difficile immaginare – e di sicuro Hofstadter non si avvicina mai a scoprirla. In qualunque modo si possa intendere quell’espressione, come viene qui usata, con riferimento all’ “arte”, può essere solo a detrimento dell’arte, e anche a detrimento dell’amore. La verità è che non sarebbe lecito, anche se fosse possibile, studiare e classificare le storie d’amore; credere il contrario è solo un brutto caso di mania antologizzante. Nell’ipotesi che un biografo si sentisse profondamente coinvolto nella vita di una persona viva o morta, per lui sarebbe naturale indagare sui suoi amori, poiché potrebbero (ma forse no, naturalmente) rivelare verità preziose sulla persona stessa nella sua totalità. Lette in questo spirito, le lettere d’amore potrebbero dirci cose importanti; e, fatto ancor più pertinente, sarebbe un modo umanamente accettabile di leggerle. Ma mettersi alle spalle di una persona innamorata, con la quale si hanno particolari legami, mentre sta scrivendo una lettera d’amore – be’, non bisognerebbe farlo, e certamente non lo si farebbe mai nella realtà; e se lo si facesse ci verrebbe facilmente voglia di ridere. Questo non è, penso, un modo scorretto di descrivere ciò che accade a volte nel libro di Hofstadter. “Come una madre che distoglie un marmocchio da un interesse rischioso, Léontine cerca di richiamare l’attenzione delle chiacchierate epistolari sui progetti letterari di Anatole”, questo scrive di una delle lettere di Léontine de Caillavet; e l’ironia appare stonata e gratuita. Di George Sand si dice che riesce a “mettere alla prova alcune delle idee più astratte di una ragazza moderna” e che insiste continuamente con Musset “sulla sincerità, spiritualità e sull’assoluta artisticità della loro storia” (l’irritato corsivo è mio). Prendiamo in esame una delle narrazioni più prolungate di Hofstadter, quella sul rapporto fra Léontine de Caillavet e Anatole France, perché è un buon esempio sia dei suoi punti di forza che delle sue debolezze. Comincia con una descrizione, molto abile e scritta con eleganza, della personalità di Madame de Caillavet e con un istruttivo resoconto di come avviò il suo salotto letterario, appena inficiato dall’affermazione che un suo ex amante, Victor Brochard, “figura, radicalmente cambiato, come il pedante Brichot in “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust”. (Ma se è “radicalmente cambiato” come si può dire che “figura”?) Segue una prima descrizione, decisamente denigratoria, di Anatole France, nella quale non è sempre chiaro se si stia parlando dell’uomo o dello scrittore. Apprendiamo infatti che “nel clima del positivismo della fine del diciannovesimo secolo era quasi avvizzito: a quarantaquattro anni aveva già la schiena curva dell’eterno studente, dello scrittore che non trova ispirazione non tanto nelle proprie intuizioni quanto nei libri altrui”. Si parla molto dei suoi “inopportuni” baffoni, che richiamavano l’attenzione “sulla pretesa virilità di chi li portava”, ma gli davano l’aspetto di un capostazione di provincia. Fino al 1881, quando pubblicò “Le crime de Sylvestre Bonnard”, era stato, ci si dice, “un bellicoso e goffo peso gallo che parlava male e, genericamente, un “frustrato” che “aveva il segreto malumore dello scrittore sbocciato tardi” contro autori a lui superiori come Verlaine, Mallarmé e Zola. Ma come può un biografo, ci domandiamo, esprimere su France giudizi così categorici senza aver dato modo al lettore di farsene un’opinione? E come è possibile un’interpretazione così assoluta di un paio di baffi? La Caillavet sottrae France a un’altra signora che tiene anch’essa un salotto, gli insegna a parlare senza tartagliare e gli organizza attorno un proprio salotto; non passa molto tempo prima che lei s’innamori appassionatamente di lui e lui di lei. Quando la donna è nel suo castello in provincia o fa la cura delle acque in una stazione termale dell’Alta Savoia, i due si scrivono praticamente ogni giorno – anche se, a causa del servizio postale, devono di solito rispondere non all’ultima ma alla penultima. Anche per questo, la corrispondenza è tutta alti e bassi e malintesi, peana di idolatria e di odio, e gemiti per le lacerazioni inflitte “dagli artigli di ferro della gelosia”. Hofstadter però tratta questa relazione in maniera strana e, secondo me, insufficiente. Tende a presentare quelle che devono essere evidentemente delle parafrasi quasi letterali di queste lettere enfatiche e istrioniche come se fossero parte di una narrazione oggettiva. Descrive come Madame de Caillavet beve la gelida acqua medicinale per curare i suoi disturbi renali e il suo “catarro uterino”, e nota: “Tuttavia, pur purificando le viscere, Léontine si avvelenava lo spirito”. Ora questo “avvelenamento” è leggibile in un modo se si pensa a ciò che può averle scritto l’amante, in un altro ben diverso se lo si considera una affermazione del suo biografo. Il quale, analogamente, o viceversa, scrive: “All’esterno, tuttavia, sui pendii intorno, la vendemmia proseguiva sotto una volta fresca, trasparente e azzurra: ogni mattina il sole assorbiva rapidamente la rugiada della notte precedente e metteva in risalto le sfumature brillanti dei germogli di vite”; e se la si immagina come una cosa detta da lui, e non da Madame de Caillavet, è una frase quasi ridicolmente banale. Cos’hanno a che fare con noi le sfumature brillanti delle viti? A un certo punto Hofstadter usa l’espressione “le grandi relazioni amorose del secolo scorso”, e la parola “grandi” fa venire i nervi. Può essere grande un libro e può essere grande una persona, ma non credo che possa esserlo una relazione amorosa, nello stesso modo in cui non è possibile né una grande malattia né un grande suicidio. Come epiteto è puro Metro – Goldwyn – Mayer, peggio ancora di “grandi amanti” – che è già piuttosto brutto. Fa infatti riferimento a un mero valore giornalistico, calcolato sulla base della fama di cui godono gli amanti in questione. Ma i termini “arte” e “opera d’arte” sono più importanti. C’è una specie di legge secondo la quale se si va a frugare nei margini o nei suburbi dell’arte, in quella terra di nessuno fra l’arte del romanzo e i fatti della biografia, l’arte stessa finirà per soffrirne. E qui si può vedere fin troppo chiaramente in funzione questa legge. Quali messaggi ci trasmettono questi amori fra letterati, sia pure in un certo senso ben raccontati? Che “Adolphe” in realtà non è un romanzo di prim’ordine (“troppo retorico e didattico”, “tutto raccontato e non mostrato”); che i romanzi di George Sand sono illeggibili (“Des histoires à dormir debout”, storie che non stanno né in cielo né in terra); che nei romanzi di Paul Bourget c’è solo grossolanità e superficialità; che la “Confession” di Musset “si dà la zappa sui piedi” e che Anatole France con “Le Lys rouge” fece il passo più lungo della gamba. Per di più non sono oggetto di disprezzo soltanto le opere di questi scrittori (che sono poi ciò che li rende meritevoli del nostro interesse), ma anche i loro amori. Ci sono nel libro di Hofstadter, come succede spesso in opere del genere, strani sussulti, o strani squilibri, il cui effetto è che i valori sono permanentemente nel caos e continuano a cambiare. Ci si chiede di considerare “grandi” questi amori e di credere, per esempio, che l’epistolario Sand – Musset contenga “le più interessanti lettere d’amore mai scritte”. Ma più avanti ci sentiamo dire che la “relazione Sand – Musset presagì un formato narrativo del ventesimo secolo, la “soap opera”. Ci si dice anche, e questo in tono beffardo, che “Alfred venne immediatamente a sapere del fango gettato sul tradimento accuratamente nascosto da George durante il suo attacco di febbre tifoidea”, e che “secondo la logica delle conversazioni intime… i segreti rivelati da uno dei due provocano inesorabilmente nell’altro una rivelazione equivalente”. Arriviamo poi a un brano nel quale tutte queste storie – “la storia del Don Giovanni che è interessato solo a trasformare il no della preda in un sì e poi rimane intrappolato con una amazzone per quindici anni” (Constant o forse Adolphe), “la storia dell’uomo che falsifica non solo la propria vita ma anche il suo grande amore, ed è quindi eletto portavoce del proprio tempo” (Chateaubriand), “la storia della matura autrice che trova un uomo più giovane cui prodigare tutta la propria sensibilità solo per scoprire che è un ingrato assoluto” vengono liquidate sprezzantemente come banali e costruite “intorno a un minuscolo, ridicolo intrigo”. In un altro brano alle lettere d’amore dei romantici, delle quali il libro riporta molti esempi, si rimprovera “quell’erotismo vagamente stantio”, e si dice che sono destinate al “mucchio di rottami della storia”. Cercare di tenere un piede in due scarpe in questa maniera, passando in continuazione da un rispetto reverenziale a un cinismo beffardo, non è segno di equilibrio ma di indulgenza verso se stessi o di confusione mentale. Altrettanto contraddittorio è il fatto che Hofstadter denunci la mania assurda di occuparsi dell’identità dei personaggi dei romanzi (scoprire cioè a chi corrispondano nella realtà le figure inventate), dichiarando apertamente che “qualsiasi tentativo di paragonare una persona reale con un personaggio narrativo è implicitamente maldestro”, ma passi poi a indulgere allegramente a questa stessa mania a ogni piè sospinto. Dice che Jeanne Pouquet è il modello della Gilberte di Proust, che però “sfuma” anche in un’altra sua amica, Marie de Bénardaky. E identifica con sicurezza Anatole France nel Bergotte dello stesso Proust, interpretando il primo e deludente incontro di Marcel con questo personaggio come una stoccata a Sainte – Beuve – il quale credeva che gli scrittori dovessero assomigliare al loro stile. Come incombe Sainte – Beuve su questo libro! La confusione diventa ancor più pronunciata e intricata quando il libro affronta direttamente Sainte – Beuve. Hofstadter ci racconta che questo “paffuto ometto” era un “fanatico pettegolo” e osserva, senza arrossire, che “apparteneva a quel vasto ramo della tribù degli scribacchini che ritiene che il pettegolezzo sia l’essenza dell’arte letteraria”. Colma tuttavia di elogi, giustissimi, certe sue qualità: “Le sue più delicate intuizioni riescono improvvisamente ad ampliare la nostra conoscenza della qualità di un testo e soprattutto quando deve recensire uno dei molti libri importanti del suo tempo… in cui arte e vita sono sottilmente intrecciate”. Rimprovera Proust per l’attacco a Sainte – Beuve, dato che, dopo tutto, hanno tante cose in comune. “Nella sua discussione di come Sainte – Beuve non abbia apprezzato il genio di Baudelaire, ci rendiamo conto che Proust è involontariamente “diventato” Sainte – Beuve… e così, proprio da quella specie di pettegolezzo che Sainte – Beuve amava servire, finisce con il farne di propri”. Ma poi Hofstadter passa alla relazione di Sainte – Beuve con la moglie di Victor Hugo, e a questo punto il tono diviene estremamente virulento. E’ solo il pudore della lingua francese, dice, a nascondere l’orribile verità di un figuro come Sainte – Beuve, il cui comportamento, a un attento esame, “può apparire vistosamente volgare, in un modo quasi surreale”. La colpa, sembrerebbe, è in parte nell’aspetto del pover’uomo. Il vero Sainte – Beuve della storia, “il Sainte – Beuve piccolino, grasso, calvo, dalle labbra tumide, che si stropicciava le mani ed era sessualmente promiscuo, il Sainte – Beuve dei vicoli e dei bordelli” era, ci dice Hofstadter, “un’apparizione da risvegliare i morti”; soffriva inoltre di una malformazione congenita del pene. Si direbbe che il suo aspetto debba essergli imputato quasi come se fosse un crimine e che ci si imponga di giudicare imperdonabilmente grossolano l’aver egli fatto becco Victor Hugo. “I suoi ingredienti fondamentali sono un artista famoso e supervirile, la moglie trascurata e un piccolo critico servile; metteteci dentro una relazione illecita con numerosi incontri segreti nelle chiese, aggiungete un po’ di chiacchiere sul fatto di “lasciare che Madame decida per se stessa”, conditela con una corrispondenza untuosamente disonesta ed ecco qui, pronto per essere servito in tavola, il “plat de résistance” di tutti gli scandali letterari francesi”. Si cita una critica di Sainte – Beuve alle lettere di Benjamin Constant a Madame Récamier, nella quale asseriva che la donna, autorizzandone la pubblicazione, voleva tacitamente dire: “Benjamin Constant mi ha amato, quindi era un uomo sensibile”; e aggiungeva: “Ma dal fatto che un uomo sia stato innamorato di una donna, che l’abbia desiderata ardentemente e le abbia scritto un migliaio di cose vivaci, argute e apparentemente appassionate per fare appello alla sua tenerezza e possederla – da tutto questo che cosa si può ragionevolmente dedurre sulla sensibilità del signore in questione? Non è quello che uno scrive “prima” [di una seduzione] che importa”. Sembra un’osservazione del tutto innocua e anche abbastanza intelligente, e tuttavia Hofstadter ne parla come di un esempio classico dei “veleni” di Sainte – Beuve. Ma qualche pagina prima avevamo letto queste orribili parole: “Nessuno scrittore che abbia un robusto odio per i recensori dovrebbe negarsi la consolazione di raffigurarsi Sainte – Beuve seduto al tavolo da lavoro durante la primavera del 1856, con la bocca che sbavava leggermente in quel suo modo incontrollabile, mentre legge attentamente “Madame Bovary” e cerca di frenare lo stupore che qualcuno abbia scritto un romanzo che non sembra autobiografico, una storia in cui non si riesce a trovare l’autore”. Questo sì che merita davvero di essere definito “vistosamente volgare, in un modo quasi surreale”. Insieme al “piccolo critico servile”, fa pensare che stia succedendo qualcosa di molto strano e che ci siano emozioni non controllate. Il virile contrapposto all’effeminato, il creatore contrapposto al critico: sono fantasie di odio alle quali è brutto indulgere, sia pure per una bizzarra forma di divertimento. Penso che in questo libro si possa trovare una chiave del fascino che esercita oggi Sainte – Beuve. Sembra che gli sia stato affidato il ruolo di vittima virtuale; del capro espiatorio per il peccato di pettegolezzo letterario e di indulgenza alla “fallacia autobiografica”. Se si tratta infatti di un peccato, può sembrare giusto che Sainte – Beuve, reo di averne fatto un principio intellettuale, meriti di essere offerto in sacrificio più di tanti altri. Ma in realtà ciò non significa non capirlo; era infatti unico, non rappresentativo, ed era un uomo decisamente strano e straordinario. Non c’era in lui, a differenza che nella maggior parte dei pettegoli letterari, confusione di motivi. Secondo il suo sistema, ci si concedevano libertà personali con i grandi, perché era questo che richiedeva la critica letteraria, e nello stesso spirito egli si concedeva le stesse libertà con i grandi ancora in vita. Prendeva la letteratura estremamente sul serio, e con uno spirito scientifico. E anche se ne aveva una concezione profondamente falsa, come sostiene a ragione Proust, si può ugualmente leggere la sua opera con rispetto come frutto di una ricca immaginazione.

 

Antonio De Benedetti, CORRIERE DELLA SERA

Elzeviro – Le storie d’amore dei grandi

Incontri d’autore a lume di candela

 

Tutto muove da una trovata brillante e un po’ spavalda. Raccontare le storie d’amore dei grandi scrittori anziché quelle troppo note dei loro personaggi. Così l’americano Dan Hofstadter, con l’inchiostro dell’ironia e il sussiego dell’erudizione, ricostruisce le tumultuose relazioni sentimentali, i deliri erotici, i sogni e le miserie di alcuni “mostri sacri” vissuti cento o duecento anni fa. Ecco allora germane de Stael, la più importante donna di lettere del suo tempo, vestire “la sua figura bovina (sic)” dei panni di un’odalisca mentre sottolinea involontariamente i “tratti troppo grandi” del volto coprendosi con un vistoso turbante. Si aggiunga che, a credere nelle testimonianze riportate da Hofstadter, questa grande paladina delle idee liberali capace persino di tener testa a Napoleone, camminava “con un passo svelto da cameriera”. La natura le aveva tuttavia fatto dono di braccia bellissime, dotandola altresì di una voce irresistibilmente deduttiva. Nel corso del suo curioso racconto, che appare adesso nella traduzione italiana con il titolo La storia d’amore come opera d’arte (Fazi Editore, pagg.333, lire 30 mila). Hofstadter azzarda che furono proprio quelle braccia e fu proprio quella voce a conquistare Benjamin Constant. A quel tempo, un giovanotto “alto e dinoccolato che portava i capelli color carota a coda di cavallo” e aveva un buffo modo di sorridere “con solo mezza faccia”. Le corde vocali ebbero, a quanto pare, un ruolo importantissimo nella relazione di questi due protagonisti. Leggiamo infatti che “Germane e Benjamin conversarono in Germani e in Francia, conversarono felicemente e rabbiosamente…ampliando in alcune occasioni il loro discorso con altri mezzi”, visto che spesso “conversarono anche facendo l’amore”. “E tuttavia fu la parola e non il sesso il vero veicolo conduttore della loro unione”. Non a caso sembra fra Germane e beniamini rifossero continue “scenate” seguite da interminabili “spiegazioni”. Se Madame de Stael e l’autore dell’ Adolphe occupano il lungo capitolo iniziale del libro di Hofstadter, la parte centrale fa spazio a un pettegolo e scoppiettate “romanzetto” sulla tempestosa relazione fra George Sand e Alfred de Musset. “Forse nessuna unione nella storia letteraria francese fece scrollare le teste e mise in moto le lingue per un periodo altrettanto lungo. La celebrità della coppia si sviluppò in modo naturale perché essi portarono avanti la relazione alla luce di una cultura non infettata dal puritanesimo e furono forse la prima coppia letteraria dei tempi moderni in cui la donna si considerò pari all’uomo”. E’ l’erudizione, sono le piccole notizie setacciate frugando negli archivi a tenere lo specchio all0estro malizioso di Hofstadter e a fare delle sue pagine un gradevole intruglio di preziosità raffinate e di semplificazioni sfacciatamente divulgative, di interpretazioni ambiziose e di rimasticature talvolta un po’ rozze o banali. Ecco allora rivivere, in una chiave forse un po’ troppo brillante, l’incontro della giovane scrittrice (da poco trasferitasi a Parigi con i due bambini avuti dal barone Dudevant) con Charles Augustin de Sainte-Beuve. “Piccolino, grasso, calvo, con le labbra tumide” e afflitto da una penosa imperfezione sessuale, “l’ipospadia”, il grande critico apparve immediatamente all’affascinante autrice di “Lelia” come un possibile alleato. “…Aveva disperatamente bisogno di un ascoltatore comprensivo e in lui c’era molto del confessore (“anche perché era fanaticamente pettegolo e curioso”)”. Sainte-Beuve, sembra tuttavia di capire, ebbe paura di questa “grande consumatrice di uomini e di inchiostro che, in cappello a cilindro e fumando il sigaro, finì con l’inventare un nuovo tipo di donna. E così, con la scusa di non guastare un’amicizia tanto bella quanto difficile da gestire, spinse la Sand prima fra le braccia di Théodore Jouffroy, un filosofo di belle speranze, e poi di Alfred de Musset. Altre pagine divertenti questo libro sull’amore – condotto da Hofstadter con atteggiata cattiveria da conversatore disincantato e snob – riserva alla “storia” fra Anatole France e Madame de Caillavet, l’ultima grande “salonnière”, che ricevette per quasi trent’anni ogni mercoledì la Parigi “più intelligente” a lume di candela perché temeva che la luce elettrica fosse dannosa per la pelle.

 

Serena Tonon, MESSAGGERO VENETO
– 12/07/1997

Carteggi d’amore analizzati come fossero opere d’arte

Lettere al microscopio

 

Se la lettera è un’opera d’arte, come sostiene lo studioso americano, certamente è un’arte antica di cui si decretò implicitamente la morte nel 1876, anno in cui Graham Bell brevettò il telefono. Non fu certo improvvisamente che si smise di scrivere, ma il telefono cambiò presto la vita e le abitudini della gente. Chi, oggi, invece di usare il telefono o il fax o Internet scriverebbe una lunga e appassionata lettera d’amore ? Il saggio prende in esame i carteggi di coppie famose che si formarono in Francia tra la fine del Settecento e la prima guerra mondiale; è diviso in due parti che analizzano ognuna un dato periodo di tempo con l’intenzione di verificare il ripetersi e il mantenersi degli stessi miti e argomenti e nel tentativo di essere introdotti nell’atmosfera dei personaggi, nei loro pensieri, nella loro interiorità per respirarne il palpitare e riviverne le esperienze. Non è, però, possibile dimenticarci di essere cittadini del Duemila in cui telefonia e telematica sono il suggello di una società che vive frettolosamente e non ha il tempo di fermarsi a pensare e meno ancora a scrivere. Una lettera d’amore racchiudeva un complesso mondo di suggestioni e sentimenti, la si può considerare un prolungamento della mano dell’amato la cui pressione si percepiva attraverso la calligrafia. Concretamente priva di peso, conserva in sé il palpitare di un mondo passato in cui scrivere era un’abitudine quotidiana di cui non poteva fare a meno. Significava schiudere con sincerità il proprio animo, le sommesse emozioni, i più reconditi battiti del cuore. Scrivere significava conoscersi molto profondamente ed essere disposti ad ascoltarsi e a svelarsi. L’autore accompagna la lettura di cospicue quantità di lettere, per lo più inedite, interrogandosi proprio sulla più corretta interpretazione delle personalità narrative che vi emergono, soffermandosi sull0uso di un certo termine invece che di un altro, sulla diversa calligrafia e sull’uso della punteggiatura che varia tra uno scritto e l’altro. Piano piano ci affezioniamo ai personaggi e alle loro storie e li vediamo con un abito e volto emergere dalle pagine scritte ad essere accanto a noi. Ma, si domanda lo studioso, questa maniera espressiva che molto racchiude dell’animo umano, è un’opera d’arte ? E’ una forma narrativa importante quanto un romanzo ? Ha certamente delle caratteristiche sue proprie come l’essere scritta in prima persona e in forma di monologo. Ma quanto di quello che è stato scritto è sinceramente vero e quanto è invece frutto della volontà di raccontare inventando situazioni e personaggi ? E se la lettera intima è un’opera d’arte quale doveva essere il pubblico di cui ogni forma artistica ha bisogno ?

 

Alessandro Iovinelli, AVVENIMENTI

 

L’amore scritto in Francia

Dan Hofstadter – La storia d’amore come opera d’arte

L’incipit del saggio di Hofstadter non è dedicato all’amore, né alla letteratura, ma alla corrispondenza. “La domanda “niente posta per me oggi?” è di quelle che, negli ultimi tempi, molti hanno smesso di porsi: è un’epoca in cui non si vuole essere il tipo di persona che scrive o si aspetta di ricevere delle lettere”. L’apologia della lettera è giusta, per quanto interessata, da parte dello studioso americano: che ne sarebbe del mestiere del filologo, del biografo, perfino dello storico, se non disponessero della materia prima (carteggi, diari, manoscritti inediti)? La scrittura è alla base della concezione romantica dell’amore – tanto quanto il telefono, per la sua incapacità di “esplorare le nostre emozioni”, è responsabile della sua morte. Da queste premesse parte la ricostruzione di alcune delle storie d’amore più famose della letteratura francese dell’Ottocento. Famose, innanzi tutto, perché scritte, soprattutto scritte, ancor più che vissute. Benjamin Constant e Madame De Stael, Chateaubriand e Juliette Recamier, Alfred de Musset e George Sand, Anatole France e Léontine de Caillavet, furono molto diversi tra loro per carattere, ambiente e situazione storica, ma in quanto coppie ebbero qualcosa che li accomuna ancora oggi. Vissero la loro storia d’amore come fonte della creazione artistica, a volte la vissero solo in funzione di questa – e nient’altro. Di qui l’ipotesi – più implicita, a dire il vero, nel testo di quanto possa apparire dall’epilogo, o dallo stesso titolo – di una particolare forma di amore che fa della trasposizione letteraria l’essenza più vera. Ma Hofstadter non è Denis de Rougemont, l’autore di quel saggio che fece dell’amore la discriminante più autentica della civiltà occidentale: il suo è il talento di un giornalista culturale di razza, capace di assemblare l’imponente materiale documentario in un montaggio che lascia conciliare al lettore il piacere della riflessione estetica con il gusto del pettegolezzo. Dove invece ci sarebbe molto da ridire è simmai sull’ultimo capitolo – quello di Proust e i calchi reali delle sue “fanciulle in fiore” – laddove il biografo ci è d’aiuto quanto un sordo in un’orchestra. Per chi ne vuol sapere di più, in questo caso, non ci sono scorciatoie – ma solo la “Recherche”. “Solo”, si intende, per modo di dire.

 

Maria Serena Palieri, L’UNITÀ

 

Ma si può annusare un file?

 

Si dice che Arthur Miller quando, ancora sposato con la prima moglie, riceveva le lettere di Marilyn, le annusasse, alla ricerca del profumo della diva bionda che l’aveva stregato. Salvo rispondere – siccome, nonostante questi esercizi nasali, ancora non ammetteva di essere innamorato – a quei messaggi caldi, ingenui e devoti, con epistole gelide. Il telefono seduce, o frustra, l’orecchio. Il fax e l’E-Mail comunicano senza sonoro ma in “tempo reale”, in concomitanza, cioè, col fluire dei sentimenti. Ma si può annusare un messaggio in segreteria telefonica o un messaggio ricevuto per posta elettronica? No. Né si possono scrivere con l’inchiostro viola che Marilyn usava. Questa è la particolare sensitività del mezzo. Scriversi lettere spinti dalla passione, però, è diventato un lusso per edonisti: e, come escono libri dedicati alla perduta cucina rinascimentale a base di cinghiale e cioccolata o alle perfezioni meccaniche degli orologi ante – Swatch, appaiono nelle stesse settimane due volumi dedicati a quest’argomento. Dan Hofstadter, autore di “La storia d’amore come opera d’arte” (Fazi editore, pagg.334, £.30.000) è un saggista newyorchese dalla brillantissima scrittura. Ed è un voyeur: gli epistolari amorosi gli interessano se possono essere letti per dritto e per traverso, cacciando il naso in tutti i sussulti, i sospiri, i litigi che trasmettono o nascondono. Ma lasciando anche la fantasia libera di immaginarsi cosa sia successo dopo la scritta “The end”. Insomma. Se possono essere letti come un romanzo: “Perché una coppia registri la propria avventura in un fascio di lettere, i due devono tenere in piedi un palleggio, un avanti e indietro continuo; in caso contrario – se cominciano a inframezzare la scrittura con lunghe conversazioni telefoniche – alla corrispondenza sfuggiranno troppi elementi della storia perché una persona esterna alla coppia possa seguirne l’intreccio” spiega. Quindi, analizza gli epistolari di cinque coppie francesi tra fine Settecento e inizio Novecento: Benjamin Constant e madame De Staël, Chateaubriand e madame Récamier, Alfred de Musset e Gorge Sand, Anatole France e madame de Caillavet, Marcel Proust e Jeanne Pouquet (ma, in questo caso, il dubbio è che a Marcel interessasse in realtà il marito di lei, Gaston…). Sono pagine, spesso bellissime, scritte “con l’occhio di un americano degli anni Novanta” e dedicate all’ipocondria sentimentale di Constant; a Juliette Récamier, la bellissima che seduceva la Parigi napoleonica dal suo salotto e “non era un’avventuriera, non era neppure una persona avventurosa. Però, era misteriosa e non accettava che nessuno chiarisse qualcosa che la riguardava” perché, semplicemente, dopo una dozzina d’anni di matrimonio era ancora vergine; alla mole di lettere, “troppe, troppo lunghe, troppo stravaganti” che “con la fede nel potere della corrispondenza tipica del diciannovesimo secolo” si scambiarono l’autore di “Les confessions d’un enfant du siécle” e l’autrice – amazzone di “La mare au diable”. Hofstadter staziona nell’archeologia pre – industriale del messaggio amoroso, fermandosi, appunto, all’epoca in cui – allo scoccare del 1900, ventiquattro anni dopo l’invenzione di Bell – a Parigi erano stati ormai installati trentamila telefoni. “La nostra mano, per le lettere d’amore, è diventata quello che i clinici chiamano un arto fantasma. Una volta, in mancanza di meglio, l’amore si scriveva (a volte era il meglio). Oggi siamo abituati a parlarlo. E a scriverlo saremmo in imbarazzo” scrive appunto un recalcitrante Giuseppe Pontiggia a un’immaginaria fidanzata che lo supplica di sforzarsi a mandarle due righe: è una delle lettere di “Caro amore ti scrivo”, la raccolta di 31, appunto anacronistiche, missive commissionate l’anno scorso ad altrettanti scrittori dal salone dell’editoria del Castello di Belgioioso e ora pubblicate da Mondatori (pagg.186, £.20.000). La commissione, ognuno l’ ha interpretata a modo proprio: Raul Montanari ci ha cucito un brevissimo thriller sentimentale, Alberto Bevilacqua il più trionfalmente macho degli addii a una donna che è stata un’avventura occasionale, Aldo Nove imita la calligrafia di un giovane e tenero coatto che scrive al suo “carro amore”, promettendole cene da Burghy ed una lavatrice “per lavare i vestiti ai nostri figli i quali Gesù Cristo manda”, ma c’è anche chi, è Fulvio Abbate, scrive d’amore ai genitori (ed è la lettera più smagliante della raccolta), Nico Orengo che scrive a un’onda, Margherita D’Amico a una gatta. Nella premessa i curatori, Chicca Gagliardo e Guido Spaini, provano a invogliarci a riprendere la penna in mano, proprio la penna, perché “galateo vuole che una lettera d’amore sia scritta a mano”. E con eleganza, senza indulgere allo sciocchezzaio che poteva travasarsi in un manuale di questo tipo, analizzano le potenzialità insostituibili di questo genere letterario: che può essere accolto, spiegano, “come un reciproco scambio del bene oggi considerato di incalcolabile valore: il tempo”. Consigli utili, nell’epoca in cui ci si ama e ci si lascia con un grugnito: per non rischiare di assomigliare a quell’afasico Daniel Day Lewis che lasciò la pronipote delle Staël e delle Récamier, la bellissima di Francia Isabelle Adjani, incinta di suo figlio, con un fax Los Angeles – Parigi di tre parole.

 

Verlicchi Laura, IL GIORNALE

Un saggio racconta le origini di tanti capolavori letterari

Passione, bugie, gelosia, adulteri. I carteggi d’amore come opera d’arte

 

Una mano di donna che tiene un foglio di carta. Un gesto banale eppure capace di elaborate composizioni pittoriche. Nella vita, del resto, una semplice lettera è spesso lo strumento del destino. Leggera come una foglia e pesante come la memoria, facile da bruciare o strappare come se non fosse mai esistita ma pronta a riemergere dal più dimenticato dei nascondigli per trasformarsi in una prova inoppugnabile. Può sopravvivere al suo autore per secoli e insieme conservare qualcosa della mano che l’ha scritta, in un’inclinazione della grafia o in uno svolazzo sotto la firma. In una lettera d’amore, tutto questo è centuplicato. Noi oggi non possiamo più avvertire quelle sensazioni che toglievano il respiro ai corrispondenti d’antan: la fragranza di un profumo rimasta imprigionata nella carta, la presenza palpabile della busta nella tasca da cui estrarla per rileggerla mille volte e confermarsi nella sicurezza di un possesso o nel dolore di una perdita. Ma ai posteri, meglio che ai contemporanei, appare chiaramente la trama della storia che sottende una corrispondenza, il canto e controcanto delle due voci che s’intrecciano e si rispondono. E quando lui, o lei, o tutt’e due, sono scrittori, il carteggio trasforma la vicenda amorosa in un opera letteraria. La storia d’amore come opera d’arte del saggista americano Dan Hofstadter (Fazi editori) riscopre le educazioni sentimentali, che regalano alla letteratura francese dell’Ottocento romanzi dimenticati come l’Adolphe di Costant e capolavori come la Recherche di Proust. Altre volte è la stessa corrispondenza a cristallizzarsi in letteratura. Anche a costo di sacrificare la verità. D’altronde, più la tenera missiva è sincera, più è probabile che sia monotone per il lettore, a meno che non sia lui stesso – o lei stessa – l’oggetto delle dichiarazioni d’amore. In realtà, la storia appassiona davvero quando i due sono in disaccordo: un bel litigio taglia il sapore troppo zuccheroso di un epistolario amoroso, dandogli mordente e rinnovata vivacità. Di solito, la molla è la gelosia, inevitabile dal momento che questi carteggi celebri nascono contemporaneamente ai grandi romanzi dei secoli passati e germinano dallo stesso insidioso – ma fertile – terreno: l’adulterio. Autunno 1974: sulla strada che costeggia il lago da Ginevra a Losanna, una carrozza viene fermata da un cavaliere solitario. Ne scende la più famosa intellettuale del momento, oltre che una delle donne più ricche d’Europa. Madame de Staël ha ventotto anni, un marito da cui è separata e un buon numero di amanti, anche se non grazie al suo aspetto: il turbante da odalisca non riesce ad addolcire i lineamenti troppo grandi, l’abito scollato svela una figura pesante. Ma quando parla, nessuno può resisterle: per Germane, la conversazione è un’arte della rappresentazione, la voce un’arma di seduzione. L’ultima vittima è proprio Benjamin Constant, il ragazzo dinoccolato, con i capelli color carota, che scende da cavallo e le rovescia addosso un torrente di parole: arriva da casa di lei, dove ha appreso della sua partenza e si è gettato al suo inseguimento. Madame, lusingata e divertita, lo invita a proseguire il viaggio nella sua carrozza e i due iniziano una conversazione che si interromperà solo dopo quindici anni, una figlia dai capelli rossi e alcuni volumi di lettere, diari, saggi e romanzi, più o meno autobiografici, prodotti da entrambe le parti. A volte basta invece un biglietto per raccontare un’intera storia. “Ci incontreremo alle otto… il mio amore, la mia vita, il mio cuore – sono tutti vostri”. Poche righe per cancellare una fama di intangibilità durata una vita. Così Juliette Rècamier, la donna più bella del suo tempo, nel marzo 1819 conosce finalmente le gioie dell’amore tra le braccia del visconte di Chateaubriand, scrittore, polemista ma anche un fameux lapin, un bel tipo in tutti i sensi. Lei è al primo adulterio, lui all’ennesimo. La passione non può che essere tempestosa e di breve durata, sa,vo trasformarsi molti anni dopo in un’affettuosa solidarietà tra due vecchie glorie sopravvissute al loro tempo e ai loro amici. “Come se le cose d’amore potessero mai essere aggiustate, come se le creature umane potessero mai amarsi senza artigli, denti, grida e morsi, senza furia e senza odio. Mia carissima, vi imploro in nome del mio amore di risparmiarmi il vostro tatto che è un insulto che non merito. Mi avete nascosto qualcosa, obbligandomi a sospettare di tutto in modo tale che non esiste momento della vostra vita che io possa considerare in modo pacifico, non un luogo sicuro della vostra anima dove la mia possa trovare pace. E io vi amo. Quindi riposate tranquilla”. Il raffinato Anatole France, lo scrittore preferito di Proust, si rode di gelosia retrospettiva per madame Leontine de Cailavet, l’ultima delle grandi salonniere, come un ragazzino alla prima cotta. Il suo romanzo è la sua vendetta, la più feroce che si possa immaginare. Per pochi franchi, chiunque, può comprarsi una copia del “Giglio rosso” e leggere, quasi tetsuali, le frasi delle loro lettere d’amore, gustarsi i particolari erotici resi più piccanti dal sapere che dietro i nomi fittizi ci sono persone vere. Il successo di vendita è solo la più immediata delle soddisfazioni che questo libro dà al suo autore. Guarito dalla follia amorosa, Franz getta in pasto al pubblico Leontine-Terese: che se la immaginino tra le lenzuola mentre baratta “amore con amore con furia insospettata e osa quello che non avrebbe trovato possibile osare”. Sono ormai gli ultimi fuochi dell’incendio romantico. Il secolo sta finendo e con lui tramonta il gusto per la corrispondenza, ancora di salvezza nelle rotte tortuose e arbitrarie della memoria amorosa. Telefono, fax, messaggi elettronici sono sicuramente più immediati, forse più sinceri, inevitabilmente più effimeri. Eppure anche il ricordo, ci dice Hofstadter, è un modo di amare.

 

Francesco Roat, IL MANIFESTO

Dan Hofstadter

Due cuori e una penna. Frammenti di discorsi amorosi

 

Che il telefono e le sue incarnazioni, fax ed E-mail, abbiano reso arcaiche le lettere scritte a mano e i loro rituali, è evidente. Tranne per una minoranza di irriducibili, quella epistolare rappresenta una modalità comunicativa fuori moda o del tutto eccezionale; come da tempo è tramontata la consuetudine di inviarsi lettere d’amore. Eppure nel passato scrivere lettere non ha costituito solo un interscambio privato; tant’è che tra gli studiosi di storia epistolare c’è chi, come Dan Hofstadter (“La storia d’amore come opera d’arte”, trad. di Chiara Vetteroni), ritiene che l’età romantica sublimò le lettere tra amanti in vere e proprie opere d’arte. L’idea che la scrittura incentrata sulle alterne vicende di un rapporto amoroso possa farsi evento poetico è vecchia quanto Ovidio, ma secondo Hofstadter ciò si realizza compiutamente solo nell’ottocento, il periodo aureo dei carteggi sentimentali. Soprattutto in Francia, dove la relazione erotico-letteraria assume le forme di un genere narrativo autonomo, quando varie corrispondenze uomo-donna finiscono per trasformarsi in prosa allo stato puro, se leggere il testo formato dal giustapporsi di alterne missive è come “ascoltare due persone che creano insieme una storia”. Ma le storie riesumate dalla corrispondenza degli autori francesi che Hofstadter propone sono l’occasione per analizzare con arguzia alcune fra le più celebri relazioni sentimental-letterarie: da quella che annosamente intessero Benjamin Costant e M.me de Staël, alla “liaison” tra l’avventuriero Chateaubriand e la bellissima Juliette Récamier; dalle stravaganti lettere intese a trasformare in leggenda il racconto a due voci che si scambiarono il poeta de Musset e George Sand, sino all’equivoco scambio epistolare tra Proust e Jeanne Pouquet. Hofstadter tuttavia non si limita a mettere in scena frammenti dei discorsi amorosi all’insegna della vita letteraria francese del secolo XIX, in bilico tra urgenza di autenticità e pettegolezzi salottieri. Un preciso intento didascalico pervade il saggio, inteso a evidenziare i messaggi in filigrana colti nei testi citati. C’è il “proclama delfico” di Costant sull’instabilità delle relazioni erotiche e sulle ambivalenti aspettative riguardo alle “chance” che l’oracolo (o l’amore) ha di avverarsi. C’è il tema della “sofferenza demoniaca”, per usare un’espressione enfatica di George Sand, conseguente alla decisione di sperimentare all’estremo le potenzialità dell’eros – progetto che mal si coniuga con il bisogno di tenerezza e stabilità affettiva. C’è infine il problema dell’essere autentici e franchi in un terreno minato, quello sentimentale, dove prima di esplorare l’anima altrui è necessario mettere a nudo la propria. Come fece M.me Récamier quando, alla richiesta “borghese” di matrimonio da parte di Chateaubriand, formulò il suo rifiuto replicando pacata al vecchio amante: “Non cambiamo nulla in questo affetto perfetto”.

La storia d’amore come opera d’arte - RASSEGNA STAMPA

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