John Fante

Lettere

COD: 0777d5c17d40 Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
24
Pagine:
504
Codice ISBN:
9788881121212
Prezzo cartaceo:
€ 18,00
Data pubblicazione:
01-10-1999

Traduzione di Alessandra Osti
A cura di Seamus Cooney

Questa edizione delle lettere di John Fante percorre l’intera esistenza del grande autore italo-americano: dai primissimi anni Trenta, quando Fante, poco più che ventenne, appena arrivato in California con il sogno di diventare scrittore si dibatte giornalmente tra difficoltà economiche e primi tentativi letterari, fino alla stagione di lavoro come sceneggiatore a Hollywood, agli anni più oscuri tra fine Sessanta e Settanta, all’amicizia con Charles Bukowski e all’ultimo periodo di vita, ormai cieco e senza gambe a causa di un diabete mai curato. Attraverso le lettere che Fante scrive ai genitori, agli amici scrittori, alla moglie, ai suoi editori, viene fuori l’affresco della vita di un uomo che ha creduto fermamente nel potere della scrittura, e a questo ha dedicato tutto se stesso; ma leggiamo altresì la storia di un grande romanziere “maledetto”, il cui credito con la fortuna solo in questi ultimi anni sta trovando la giusta soddisfazione. John Fante è stato uno dei pochi veri, grandi scrittori di emozioni di questo secolo: il suo epistolario finalmente ce ne racconta il privato, le amarezze i progetti intrapresi e mai portati a termine, gli affetti familiari, misti di amore e rancore, la passione per tutte le manifestazioni della vita. Arricchita da molte immagini inedite dello scrittore e della sua famiglia, questa raccolta di lettere è non solo un documento letterario e umano intorno all’America del Novecento, ma una lettura straordinariamente piacevole che rende ancora più affezionati ai romanzi e ai luoghi umani e letterari di Fante.

LETTERE – RECENSIONI

 

Cristiana Vivenzio, IDEAZIONE.COM
– 02/10/1999

 

John Fante, l’italoamericano politicamente scorretto

 

“Sono nato nel 1909 in un appartamento nel seminterrato di una fabbrica di maccheroni nella zona nord di Denver” scriveva di sé John Fante. Racchiuse in poche righe, la storia di un uomo: irriverente nei modi, iracondo nello spirito, imprevedibile nei comportamenti. Fante: lo scrittore maledetto italoamericano la cui lettura fece scoprire a Charlie Bukowski la sua vocazione letteraria e il cui esempio di vita e scrittura costituì il precedente per gli autori della beat generation: Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti. Fante: il “dago” – così gli americani chiamavano gli immigrati italoamericani – dalle virtù letterarie rare. Ignorato e ostracizzato in vita, riabilitato appieno dopo la morte. Da qualche anno anche l’Italia sembra aver scoperto le sue doti di scrittore grazie alla casa editrice Marcos y Marcos e all’editore Fazi che ha pubblicato numerose sue opere – da “Un anno terribile” a “Full of life” e ancora “A ovest di Roma” e “Tesoro, qui è tutta una follia”, le lettere che lo scrittore italoamericano scrisse alla moglie dall’Europa tra il 1957 e il ’60. E John Fante da qualche tempo è divenuto un autore cult. Ma le caratteristiche letterarie che hanno reso questo “ruvido” scrittore, abruzzese d’animo, intrigante e popolare, caratteristiche legate soprattutto alla sua volontà di uscire dagli schemi del conformismo, si sposano con un pensiero politico sul quale si continua a stendere un velo censorio. Quasi a volerne mistificare il credo per incardinarlo negli schemi di un universo culturale “politicamente corretto”. Tutt’altro che velate, tuttavia, le sue esternazioni politico-ideologiche. I suoi stessi tratti biografici non sono per nulla convenzionali. Natali americani ma origini abruzzesi: John è figlio di Nick, muratore di Torricella Peligna, padre padrone dal carattere duro e intrattabile e di Maria, donna mite, arrendevole e con un credo ferreo; un’infanzia difficile, fatta di stenti e privazioni nei lunghi inverni del freddo Colorado. Nel 1932, alla ricerca del successo letterario, si trasferisce a Los Angeles. Padre di quattro figli, per uscire dalla precarietà economica, sacrificherà la sua vena letteraria al cinema. Ed è proprio in questo suo vissuto familiare e individuale che si deve rintracciare la ricchezza dei contenuti di questo autore troppo spesso emarginato o ignorato dalla stessa critica statunitense, molto più che da quella europea. Critica che non sembrò apprezzare più di tanto la produzione di questo immigrato di seconda generazione dalle umili origini.  A che cosa si deve tanta irriconoscente freddezza? John Fante non fu certamente uno scrittore dal percorso letterario o dalle idee politiche “canoniche”. Dal suo esordio sulla rivista di destra “The american Mercury” che egli stesso definì “il mio luogo di nascita, la mia casa, la mia scuola, il mio partner, il mio compagno di gioco, la vita stessa” alle esternazioni “politically incorrect” su alcuni temi scottanti come la guerra (“La guerra in Europa, i discorsi di Hitler? Sciocchezze!..”) e soprattutto il comunismo: “Chiunque ami il comunismo dovrebbe vedere Berlino Est. Al diavolo i dogmi marxisti. Quello che vede l’occhio a Berlino Est risponde a tutte le domande”. Per non parlare delle feroci accuse, venate di profondo disprezzo, nei confronti dell’intellighenzia marxista, rese, un esempio per tutti, esplicite in questa lettera alla moglie dall’Italia del 1960: “Ci sono sei milioni di comunisti qui. L’intera industria del cinema, con piccole eccezioni, è dell’intellighenzia rossa del tipo che prevaleva anche a Hollywood. Si possono identificare facilmente perché danno tutti voce a cliché anti-americani. Il lavoro va a loro e mantengono le cose come stanno. L’Italia oggi è una frontiera… I poveri comunque non sono rossi. Gli intellettuali sono come da noi. Ora scherniscono l’America, ma se domani l’America prende posizione con fermezza contro i russi improvvisamente cambiano posizione e si mettono a parlare della loro devozione eterna agli Stati Uniti. Oscillano in avanti e indietro, senza principi, ipocriti, persi. Ovviamente tutti i finocchi sono rossi…”. Insomma: tutto il contrario dell’intellettuale liberal e allineato. Forse vale la pena leggerlo ancora oggi per scoprire, come diceva Bukowski, “l’oro nell’immondezzaio cittadino”. 20 febbraio 2001 [email protected] stampa l’articolo LINK LA COMUNITA’ DI JOHN FANTE www.johnfante.it/ it/index.htm  

 

Miska Ruggeri, IL GIORNALE
– 02/10/1999

 

John Fante

 

Scoperto per caso da Charles Bukowski nella biblioteca pubblica di Los Angeles e da lui rilanciato all’attenzione degli editori americani (“ecco come dovrebbe scrivere un uomo”), John Fante è ormai, specie in Francia e in Italia, uno scrittore di culto. La sua narrativa è stata tutta pubblicata e si moltiplicano gli studi sulla sua lingua scorrevole, lo stile lirico eppure dimesso, la capacità di rendere avvincenti piccole storielle autobiografiche. Resta invece da scoprire l’uomo Fante, il suo carattere, i suoi gusti e disgusti, le amicizie, i tanti progetti mai realizzati, le virtù e le debolezze di una personalità certo non comune. Materiale privilegiato per uno studio del genere sono le oltre duecentoquaranta “Lettere”, curate da Seamus Cooney, appena uscite per la Fazi, che già aveva anticipato le lettere mandate all’amatissima moglie Joyce, e ai figli dall’Europa (1957-1960) con il titolo “Tesoro, qui è tutto una follia”. L’intera vita di John, dai primi tempi in California quando, povero in canna, chiedeva soldi alla madre fino agli ultimi difficili anni che lo vedono malato di diabete, cieco e senza gambe, passare le giornate ad ascoltare la radio, scorre in pagine godibilissime, capaci di fare partecipare il lettore agli sforzi di un grande della letteratura per essere riconosciuto come tale. L’edizione italiana, arricchita rispetto all’originale di un carteggio inedito con William Saroyan, presenta in appendice anche il diario del gennaio 1940, un raccontino parigino (The first time I saw Paris) e un articolo, stroncato da Fante (“idiotissimo pezzo da liceale”), del suo poco stimato amico Ross B. Wills. Fante appare subito consapevole del proprio talento (“il mio futuro sarà grande”), persino vanitoso quando sogna il Nobel, irascibile, bugiardo (mente sull’età, sulle offerte degli editori, sulla frequenza della messa domenicale per compiacere la madre cattolicissima e sempre intenta a pregare), ubriacone e misogino. Il buonismo e il “politically correct” non fanno certo parte delle sue corde. “Non sono mai stato e non sarò mai interessato se non alle donne bellissime, non importa qualsiasi altro fascino abbiano… Sono stato mantenuto da loro, da loro nutrito, soddisfatto, le ho prese in giro, le ho derubate, le ho insultate e frequentemente le ho picchiate… Ho sempre fatto soffrire le donne con cui ho avuto a che fare, eppure tutte mi amano per questo”, scrive alla cugina Jo nel 1933. E tre anni dopo, alla madre Mary Capoluogo: “Immagino che dovrei vergognarmi di permettere che una donna vada a lavorare e mi mantenga, invece non mi vergogno affatto. Anzi, direi che mi piace”. E fino a che punto sta scherzando quando si lascia andare: “Io di bambine non ne voglio proprio. Se mai mi sposerò e avrò una figlia, l’affogherò come fanno i cinesi”? Incapace di risparmiare, ricco un mese e al verde quello dopo anche a causa del poker, chiede prestiti, invoca anticipi e, soprattutto, si prostituisce a Hollywood, ai “fottutissimi attori”, scrivendo mediocri sceneggiature (“Full of life” è l’unica eccezione) per racimolare i soldi necessari a mantenere i quattro figli. Lavorare per il cinema non gli piace, “lo può fare qualunque idiota”, i film “sono molto stupidi e un insulto per un uomo intelligente”, ma bisogna pur mangiare e la Columbia pictures, la Twentieth century fox e la Mgm pagano bene. Le lettere risollevano la questione dell’ideologia politica di Fante, scrittore sicuramente non “militante” (disprezza anzi i libri “impegnati” che fanno una gran baraonda sul proletariato e tuttavia sono piatti), ma uomo di destra, anticomunista, ostile al “dannato partito democratico” e vero patriota. Nel 1940 annota sul suo diario: “Sono andato via perché non mi divertivo alla conferenza per l’azione democratica. Il Fresno hotel rigurgitava di quella gente, questi orrendi politici… tutti lì nel nome di una moribonda democrazia, tutti a fare confusione e a dare voce al frasario di un sistema scomparso e mai troppo valido… Un gruppo di idioti che vanno in giro per il nostro Stato in quel modo rappresenta una situazione molto pericolosa. Ovviamente poi i comunisti erano presenti… Un gruppo di scontenti, cattivi come i democratici; un branco di intellettuali compiaciuti di sé, dal sangue freddo e sediziosi. Come Margaret Kalish, la segretaria di Carey. Quando le ho detto che mi piacevano tante cose italiane perché la mia gente è italiana, ha fatto finta di credere che questa fosse un’affermazione pittoresca e primitiva… L’ho detestata… Poi c’erano gli altri… Un rumoreggiante demagogo… che ha letto un orrendo discorso con strane parole dentro del genere elemosinari, o qualcosa del genere, intendendo dire, immagino, carità. Ha pronunciato quella parola cinque volte in un discorso di venti minuti. Si è veramente infuriato per come vengono trattati i poveri. Tutti i maiali nel trogolo l’hanno applaudito”. Dopo la seconda guerra mondiale Fante, disoccupato nel cinema per anni a causa della sua insensibilità per le battaglie della sinistra, è “pronto a morire per fermare le orde slave” provenienti da Mosca. Durante gli anni del maccartismo i comunisti sotto pressione usano il suo nome per certificare il proprio pentimento. E John, da parte sua, giustifica il clima anticomunista. Nel 1951 scrive a McWilliams: “Non è facile per me dire che il Comitato fosse solo a caccia di streghe, perché credo che l’Investigazione abbia rivelato sul serio la stretta mortale dei comunisti sulla corporazione… Sulla mia vita, non riesco a capire perché abbiano abbracciato il comunismo. Dov’è il fascino di quella filosofia? Dov’è il suo lato umano?… non sono diversi dai nazisti… Ho notato anche che dei 175 nomi circa portati allo scoperto, il 95% erano scrittori che lavoravano… Sarebbe troppo affermare che, a meno che tu non abbia una tessera di partito, non puoi lavorare?”. La stessa situazione il povero John trova in Italia, dove tutti i suoi progetti cinematografici falliscono. “Ci sono – scrive da Roma nel 1960 – sei milioni di comunisti in Italia. L’intera industria del cinema, con piccole eccezioni, è dell’Intellighenzia rossa… Il lavoro va a loro e mantengono le cose come stanno… Ovviamente tutti i finocchi sono rossi”: Nello stesso anno la visita a Berlino est, cupa e povera, lo conferma nelle sue idee: “Chiunque ami il comunismo dovrebbe vedere Berlino est. Al diavolo i dogmi marxisti. Quello che l’occhio vede a Berlino est risponde a tutte le domande. Ti senti molto a disagio a guidare per quelle strade in cui c’è una calma mortale. L’aria è piena di paura, di polizia. La gente cammina piano, senza allegria. In tutto il mondo non esiste una domenica pomeriggio così”.

 

Marisa Poletti Scuratti, IL CITTADINO
– 02/10/1999

 

Best Seller

 

Un libro indicato a che ama i romanzi di John Fante (Aspetta primavera; Bandini; Chiedi alla polvere; Full of life; La confraternita del Chianti…) ma anche a chi è interessato a conoscere la parabola di un’esistenza fuori dal comune, quella di uno dei più grandi scrittori americani del Novecento. Si tratta di lettere che lo scrittore italo-americano indirizzò ai genitori, alla moglie Joyce, agli editori, ad alcuni amici scrittori (William Saroyan, specialmente) in un lungo arco di tempo (1932-1981), dai suoi esordi letterari al successo, come sceneggiatore e scrittore. Sono lettere che – specie quelle indirizzate ai genitori e agli amici più stretti – difficilmente si può pensare che venissero scritte con uno “sguardo” di attenzione per fututri lettori. Eppure non ci si sente dei voyeur, nell’accezione negativa del termine, mentre si leggono le parole indirizzate alla madre tanto amata o agli altri interlocutori. “… mia dolce madre. Spiacentissimo di averti fatto aspettare questa lettera… sono un tipo strano, mamma. sembra che non riesca a cominciare niente… “ Ma poco dopo, rinfrancato, la rassicurava: “le cose cominciano a prendere una piega piuttosto buona… Ho molte cose al fuoco… Dovrei ricevere del denaro. Ora sono al verde”. E quello del denaro sarà un argomento presente in quasi tutte le lettere indirizate ai genitori… “Buffo quello che fanno i soldi. Non ho mai avuto tanti cosiddetti amici in tutta la mia vita!”. Desideroso di conoscere la terra dei suoi avi, quando ne avrà l’opportunità, ne, riceverà un quadro in parte deludente non in sintonia con aspettative forse troppo alte. “… nessuno a Roma si preoccupa di nulla, me ne sono subito accorto… in quelle micidiali piccole Fiat… sembra sia una questione di onore far sì che nessuno ti sorpassi…”. Ma la delusione è di breve duratao, per lo meno, non rinforza i pregiudizi: “Vivendo in America – scrive al figlio – tendiamo a pensare che gli altri posti sono manchevoli in quanto a stile, modernità, e che il nostro modo di vivere sia il migliore al mondo. Non crederci!”. Un libro di piacevolissima lettura e in cui, tra l’altro è possibile – e intrigante al tempo stesso – rintracciare molto del materiale utilizzato e trasformato in arte dallo scrittore. Un esempio per tutti: la quarta gravidanza di Joyce – per la verità inizialmente non bene accattata da Fante – darà vita al bellissimo, poetico “Full of life”.

 

Paolo Di Vincenzo , IL CENTRO
– 02/10/1999

 

La vita di John Fante nelle sue lettere

 

Leggere la corrispondenza di un autore può dare qualche dispiacere ai suoi appassionati lettori, può svelare qualche aspetto poco piacevole dell’uomo, ma è fondamentale per una conoscenza un po’ più approfondita, anche dell’opera. Arrivano in Italia le “Lettere (1932-1981)” di John Fante. Le pubblica Fazi editore e il volume che le raccoglie (502 pagine, 35 mila lire) si apre con una approfondita introduzione di Seamus Cooney, curata anche per l’edizione americana che data 1991. Cooney chiarisce subito che chi conosce l’opera di Fante “dovrebbe leggere direttamente le lettere”, per gli altri si provvede appunto con l’introduzione. Le lettere sono raccolte per anni e riguardano quasi tutta la vita dell’autore italoamericano di origini abruzzesi (e i riferimenti agli Abruzzi o a Torricella Peligna – Torcelli come la chiama lui – da cui proveniva il padre sono frequenti). Si va dal 1932, quando Fante aveva 23 anni, al 1981. Una vita intera (morì nel 1983), essa stessa un romanzo da scrivere. Dalla incrollabile determinazione a diventare scrittore, con caparbietà unica (e qui, forse, emerge tutto il sangue abruzzese), agli ultimi periodi, quando Fante era ormai divenuto cieco e, per il diabete, aveva dovuto subire l’amputazione di entrambe le gambe. Completano il volume alcune appendici: un carteggio con John Saroyan; i diari (in realtà poche pagine relative al gennaio 1940); un breve ritratto relativo alla sua esperienza francese, intolato “La prima volta che ho visto Parigi”; un lungo articolo di Ross Wills sull’autore pubblicato nel 1941; bibliografia (con le edizioni originali e italiane) e filmografia. Un’altra grande ricchezza di questo lilbro sono le fotografie, prese dagli album della famiglia Fante. Dalla foto del padre Nick, che lasciò Torricella Peligna per fare il muratore negli States, dell’amatissima madre, Mary, della moglie Joyce, dei quattro figli, della casa a forma di Y, scenario di “My dog stupid”, dei cani, il terribile pit-bull Rocco; e, naturalmente, tante dell’autore. Fondamentali le chiose di Joyce Fante che a volte servono anche a bilanciare le affermazioni di John. Gli anni difficili. Moltissime le missive indirizzate alla madre, in cui, all’inizio della sua permanenza a Los Angeles (raccontati poi meravigliosamente in “Chiedi alla polvere” o, dopo molti anni e dettando alla moglie perché già cieco, in “Sogni di Bunker Hill”), più che altro chiede soldi, qualche dollaro per tirare avanti, per pagare l’affitto, per mangiare promettendo, invariabilmente, di mandarne appena ne avrà lui. Il rapporto con la madre era decisamente forte, ed è a lei che Fante racconta tutti i particolari dei suoi tentativi di sfondare come scrittore, le speranze per le prime pubblicazioni di suoi racconti sui giornali. Ma anche le sue esperienze, come il bagno di mezzanotte poi riportato in “Chiedi alla polvere”. Molte, già nei primissimi anni a Los Angeles, anche le lettere a Carey McWilliams, un avvocato e scrittore che resterà suo amico fino alla fine. I primi successi. La vita di Fante, almeno fino ai Cinquanta, fu un’alternanza tra successi e sconfitte. I primi legati all’attività di sceneggiatore per Hollywood, i secondi per la vera passione di scrittore. Ecco quindi che nell’agosto 1934 si può permettere di scrivere alla madre “Includo una sorpresina per te sotto forma di cento dollari”. Se si pensa che il rapporto con il costo della vita di oggi è di uno a 15-20, vuol dire quasi quattro milioni di lire. Nel prosieguo della carriera l’odiata attività di sceneggiatore gli permise di vivere bene, con molti soldi in tasca, come ricorda anche la moglie Joyce. Il massimo fu raggiunto proprio con “Full of life” che, trasformato in un film, fece guadagnare a Fante anche la canditatura per un Oscar. Star e vizi. Fante ebbe modo di lavorare con diversi grandi nomi e con tutte le major, dalla Warner alla Mgm. Da Orson Welles, con il quale collaborò per alcune sceneggiature per la casa cinematografica Rko, a, negli ultimi anni di vita, Francis Ford Coppola che – insieme a Bob Towne, altro noto e corteggiatissimo sceneggiatore di Hollywood ancora adesso – avrebbe dovuto fare un film da “The brotherhood of the grape” (in italiano “La confraternita del Chianti”). Ma Fante aveva anche qualche vizio: “il gioco e il golf”, spiega la moglie Joyce, “e gli prendevano talmente tanto tempo e denaro che ci si domanda quali fossero le sue prorità. Passò letteralmente anni della sua vita sui campi da golf e al tavolo da gioco”.

 

LA STAMPA – TUTTOLIBRI
– 02/10/1999

 

La primavera della Fitzgerald , le lettere di John Fante

 

Dopo “Il fiore azzurro” e “La libreria”, il nuovo romanzo di Penelope Fitzgerald, sempre nella traduzione di Masolino D’Amico, “L’inizio della primavera”, storia ambientata a Mosca prima della rivoluzione: un commerciante inglese, immigrato nella capitale russa, viene abbandonato dalla moglie. Da Fazi escono “Le lettere (1932-1981)” dell’italo-americano John Fante (pp. 502, a cura di Seamus Cooney, trad. di Alessandra Osti), con numerose immagini inedite. Di Richard Brautigan, compagno di strada di Kerouac & C., Marcos y Marcos ripropone “Pesca alla trota in America” (pp. 151), un classico (1967) della cultura hippy.

 

IL FOGLIO
– 02/10/1999

 

Lettere (1932-1981)

 

“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia”, proclama Allen Ginsberg pel poema “Howl”, vero manifesto della beat generation. Ma in quegli anni postbellici drooga e povertà, i viaggi psichedelici e la lotta quotidiana per sbarcare il lunario, non sono gli unici ostacoli sulla via della letteratura. Bisogna considerare anche il golf. John Fante (1909-1983), snobbato dal pubblico americano ma autore di culto in Francia e Italia dove è considerato uno dei più grandi scrittori del secolo, per lunghi periodi si è dedicato solo a mazze e palline. raggiunto un minimo di tranquillità economica, usciva di casa al mattino e giocava fino a sera. La macchina da scrivere languiva in un angolo, impolverata. Se buttava giù qualche rigo, era robaccia, roba per il cinema e i “fottutissimi attori”. se non stava sul green, a sottrargli tempo, voglia e denaro era il tavolo verde del poker. “Perdeva sempre”, ricorda la moglie Joyce, poetessa dilettante laureata a Stanford. E “il grande romanzo americano” si allontanava sempre più. Il vecchio Johnny boy non lo scriverà mai. Colpa del golf, forse. Questa immagine di uomo pigro e poco pratico, di talento mal sfruttato, sempre pronto a farsi distrarre dal biliardo, dal flipper o da un buon bicchiere, emerge dalle oltre duecentoquaranta lettere appena pubblicate da Fazi e curate da Seamus Cooney. inviate a familiari, amici, editori e ammiratori, coprono quasi l’intera vita di fante, dalle prime prove letterarie sull’ “American Mercury” di H.L. Mencken agli ultimi tristi anni tormentati dal diabete. fante vi appare multiforme e contraddittorio, con i suoi gusti (le belle ragazze, l’alcol, il baseball) e disgusti (le donne grasse, Hollywood, i baciapile), l’affetto per la madre incolta ma capace di capirne i problemi, anche quelli legati alla carriera di scrittore, l’amore per la moglie intatto pur dopo anni e anni di matrimonio, l’odio per i libri politicamente impegnati. Lo scrittore dimostra di essere molto più italiano di quanto solitamente non si pensi, malgrado il parere del suo amico avvocato Carey McWilliams che lo vorrebbe “americano quanto Huckleberry Finn”. Di quel padre bevitore, attaccabrighe e dongiovanni, muratore emigrato dalla natia Torricella Peligna (in provincia di Chieti), così simile e così diverso da lui, è sempre stato orgoglioso. certo, non ha mai imparato l’italiano e quando prova ad usarne alcune parole incorre in vistosi errori, eppure ama il suo paese d’origine, scrittori inclusi (Giovanni Verga, Gabriele D’Annunzio, Ignazio Silone), si sente parte di quegli abruzzesi che, gli dicono, sono forti e gentili. Da Napoli a Roma scrive a Joyce e ai figli, inondandoli di aneddoti e storielle divertenti. Sorride del traffico folle, degli autisti disposti ad ogni bassezza pur di non subire l’onta di un sorpasso, dei poliziotti che preferiscono comprare le sigarette al mercato nero, di un simpatico tombarolo. L’atmosfera dell’estate romana (siamo nel 1957) lo incanta. Via Veneto è al massimo dello splendore; Parigi, altra tappa del suo tour europeo in cerca di lavoro per il cinema è “la vagina del mondo civilizzato, trasuda sesso, semplicemente”, ma resta sempre er mejo. A Napoli cade nella trappola del colore e dei luoghi comuni, descrivendo le donne come maiali cresciuti a pane e maccheroni, colpito dalla loro grassezza come oggi un qualsiasi turista italiano a spasso per le strade di New York o Los Angeles; le sue osservazioni, comunque, non sono quasi mai banali e aumentano il rammarico per il fallimento dei progetti in collaborazione con il produttore Dino De Laurentis. Ma forse il nostro cinema non si meritava neanche una sceneggiatura di John Fante, grande scrittore fagocitato dall’industria di Hollywood. E dal golf.

 

Francesco Durante, D – LA REPUBBLICA
– 02/10/1999

 

Lettere dal Fante

 

Gli epistolari fanno spesso la gioia degli studiosi e la noia dei lettori. Che vadano bene per entrambi è raro, ma a volte succede. E’ il caso delle “Lettere” di John Fante, tra le quali gli appassionati di questo singolare scrittore americano potranno trovare autentiche perle, che reggono il confronto con le pagine più felici dei racconti e dei romanzi. Curato impeccabilmente da Seamous Cooney, l’epistolario copre il periodo dal 1932 al 1981, cioè tutta la vita creativa di Fante dagli esordi come autore di short stories per la rivista American Mercury di H.L. Mencken alla vigilia della morte; e permette di leggere nel modo più perspicuo la sua evoluzione d’autore, di capirne idiosincrasie e motivazioni, studiarne la complicata storia editoriale e cogliere molti aspetti privati che stanno dietro le opere. Ma è anche possibile una lettura più libera, mirata a individuare i molti e notevoli squarci di puro divertimento che impreziosiscono queste lettere e ne fanno una vera miniera di aneddoti, giudizi, e ritratti informali di personaggi famosi. I letterati innanzitutto, come James T. Farrell (“Nominami un uomo al mondo che abbia letto un romanzo di Farrell dall’inizio alla fine”) e soprattutto il grande amico Willie “the Whirlpool” (il vortice) Saroyan: il libro, importante novità rispetto all’edizione americana, recupera in un’apposita sezione il carteggio Fante-Saroyan. Qui c’è davvero da ridere, perché le lettere sono una pirotecnia di scherzi, battute, maldicenze assortite. Assai divertenti, qui e altrove, i riferimenti a Hollywood, la mecca del cinema da cui Fante a un certo punto fu inghiottito, diventando uno sceneggiatore molto ben pagato e uno scrittore frustrato. Ci sono infine le sue idee politiche: suIl’Italia fascista impegnata nella impresa etiopica, che l’italo-americano Fante segue con viva costernazione, e poi sulla guerra fredda. John Fante si rivela un conservatore individualista, irriducibile tanto alle parole d’ordine dell’engagement di sinistra quanto alle ossessioni patriottiche. Alle une e alle altre preferisce, e di molto, il golf e il poker.

 

Masolino d’Amico, LA STAMPA
– 11/11/1999

 

“Cara zia, sono cieco, mi hanno amputato le gambe ma non mi lamento. Tuo, John Fante“

 

“Cara zia Dorothy… Sono stato molto spiacente di leggere dei tuoi problemi agli occhi, ma voglio subito dirti che anch’io sono cieco ora, dopo i disastri del diabete e il glaucoma. Ho anche perso l’uso delle gambe a seguito di una doppia amputazione, così non posso vedere né camminare e passo tutto il mio tempo sulla sedia a rotelle o a letto. Non che mi lamenti. Al contrario, piagnucolo, sono arrabbiato e umiliato dalla presente condizione in cui vivo, ma ho qualcuna delle consolazioni dei viventi. Ho la mia cara moglie Joyce a cui sto dettando, e i miei quattro figli – mio figlio Nick, 39; Daniel, 37; Victoria, 31; e Jimmy, 30. Ho una quantità di nipoti che mi vengono spesso a trovare… E non posso dimenticare Willy e Ginger, i miei cani. Hanno un sacco di pulci, ma mi venerano. Li accetto, con le pulci e tutto”. E’ l’ultima lettera di John Fante, che si sarebbe spento tre anni dopo, nel 1983: per quanto invalido non aveva perso niente della sua vivacità. A quest’epoca era quasi dimenticato come scrittore, e ovviamente non lavorava più neanche per Hollywood, alla quale doveva peraltro il benessere. Nei lontani Anni Trenta, quando aveva cominciato a cedere al richiamo degli studios, si era spesso,rammaricato del tempo sottratto alla sua vena più autentica: per un aspirante romanziere era di prammatica, allora, atteggiarsi a vittima dei produttori cinici e incomprensivi, e in futuro i critici avrebbero deplorato il talento così sperperato dai vari Faulkner e Scott Fitzgerald. Nella maturità tuttavia John Fante diventò fiero della sua attività di sceneggiatore, culminata in una nomination per l’Oscar (con Full of life ), e guardandosi indietro sfatò qualche leggenda, per esempio sul surricordato Faulkner. Nel ‘43, precisò, il suo stipendio alla Warner era di 450 dollari alla settimana, e quello di Faulkner, solo di 250: e la ragione era che, mentre Fante era un affidabile professionista, Faulkner era sempre ubriaco, i produttori non lo stimavano, e il suo materiale era quasi inutilizzabile, pagine e pagine di prosa nella quale solo l’amico Howard Hawks aveva la pazienza di cercare qualche battuta buona. L’epistolario di John Fante conferma cose che già sapevamo, in primis che l’energico, ottimista figlio di un muratore abruzzese brillava soprattutto nelle descrizioni della sua pittoresca famiglia, vista attraverso un umorismo americano ma temperato da un’affettuosità latina che non ne tace, anzi che ne dilata e rende omerici i lati negativi. Quando cerca altri argomenti, per esempio appassionandosi alle traversie dei filippini in California, Fante gira a vuoto e non riesce a concludere. Dai primi anni di sopravvivono quasi solo lettere alla madre, con resoconti di come il giovane tenta di sbarcare il lunario mentre scrive i suoi racconti e tenta di vederli. Più interessanti gli scambi con l’amico e mentore letterario Care McWilliam, cui vengono esposti i principali progetti. Negli Anni Quaranta Fante si sposa e, usciti i suoi romanzi migliori, ne sfrutta il successo con lucrosi contratti cinematografici; ma si dedica al golf e al poker, con conseguenze quasi rovinose. Il suo entusiasmo gli fa perdonare l’incoscienza, e trova sempre il modo di rimettersi in piedi, di divertirsi e di divertire, come quando racconta ai cari rimasti a casa a Napoli e Roma, dove approda per lavorare a dei film che non si faranno mai.

 

Francesco Erbani, LA REPUBBLICA
– 11/02/1999

 

John Fante

La mia vita divorata dal cinema

Dopo i romanzi arrivano le lettere. E così il piccolo edificio del culto dedicato a John Fante può dirsi quasi completo. Lo scrittore italo-americano ha disseminato se stesso in tutti suoi romanzi, raccontando con il passo di chi narra una rude epopea la storia di una famiglia di immigrati abruzzesi insediatasi fra il Colorado e la California. Ma Arturo Bandini e Nick Molise sono pur sempre personaggi – anche se la loro faccia lievita dalla pagina e, inclinata verso sinistra, sembra quella incassata su un torace da bullo, le mani tozze piantate sui fianchi, che un fotografo immortalò rubando l’anima a John. Mancava la persona. Che invece si espone con la fatica del vivere che sempre gli fece compagnia in un volume in cui vengono raccolte molte sue lettere e che comprende anche quelle scritte durante il viaggio in Italia sul finire degli anni Cinquanta e pubblicate la scorsa primavera (a cura di Seamus Cooney con un’eccellente traduzione di Alessandra Osti). La gran parte delle lettere documenta gli anni fra il 1932 e il 1936, quando Fante si trasferisce a Los Angeles per tentare la carriera di scrittore. Ha ventitré anni. Figlio di Nick, un muratore che affida il senso della vita alla vigoria delle mani, John matura un’altrettanto orgogliosa consapevolezza della forza custodita nella parola scritta. Il padre, che si chiami Henry Molise o Svevo Bandini, è il signore incontrastato dei romanzi. Nelle lettere di questo periodo l’interlocutore di John è invece la madre. Maria Antrilli Fante è una donna provata dalle sofferenze, abbandonata da un marito bestemmiatore e ubriaco. Per lei John nutre una tenera devozione, retorica e familistica: “Non preoccuparti. Tuo figlio sta abbastanza bene e soprattutto è in grado di badare a se stesso. Egli pensa alla sua cara mamma più che mai in un momento come questo. Egli ricorda che l’amico più dolce e più vero che ha al mondo è la donna che gli ha dato la vita”. Le parole di John evocano immagini di matriarcato meridionale. La madre è eletta a confidente. A lei racconta dei suoi amori, compresa l’avventura con una ragazza che si conclude con un bagno nudi nel mare. Le promette di non sposare una donna più vecchia di lui. La tira dentro le sue gag: “Sto talmente bene che sono persino andato in chiesa domenica scorsa (…). In quella chiesa c’era molta pace. La mia mente si è addormentata per un’ora, e chissà? Potrei farmi frate oppure monaca. (Sai per caso il numero di telefono di qualche suora bellissima?)”. La vita che John conduce a Los Angeles è grama. Vive ospite da amici o in camere d’affitto per pochi soldi. I piccoli guadagni che racimola vendendo racconti alla rivista American Mercury non bastano a dargli quella tranquillità che vorrebbe comunicare a sua madre e che, nonostante tutto, sfoggia, tentando di allontanare da lei l’incubo di un figlio fallito. Un editore gli offre cinquanta dollari al mese per scrivere un romanzo. Quasi contemporaneamente John inizia a lavorare per il cinema, pagato molto bene. Potrebbe cambiare la sua vita, ma non si illude. Il cinema gli sfila l’anima di dosso. Maria Antrilli non è una donna colta. Ma John la mette a parte delle differenze fra lo scrivere un romanzo e scrivere per il cinema. E’ quasi patetico: “Quando si scrive un racconto letterario, bisogna pensare ai valori della scrittura; si può essere più sicuri che la storia sia ben fatta, dal momento che lo scrittore vede il suo lavoro sulla pagina davanti a sé. Scrivere sceneggiature è diverso perché devi pensare alla macchina da presa, come se stessi seduto fra il pubblico”. Poco dopo cambia registro e le spiega, con il puntiglio di un contabile in una salumeria, quanto guadagnerà se verrà pubblicato il romanzo che sta scrivendo, ma che non stamperà mai e che tante angosce gli procura. Incasserà mille e cinquecento dollari, le racconta, e otterrà di andare a studiare in Europa per un anno. In Europa? “Farò richiesta per un anno in Italia, di cui sei mesi a Roma e sei mesi a Napoli. O meglio ancora, potrei domandare di passare dodici mesi in Abruzzo”. Il cinema è un’idrovora (“Non mi piacciono i film, non mi sono mai piaciuti e mai mi piaceranno”). Ma alla Mgm o alla Warner i compensi sono alti e non si può essere schizzinosi. John è piccolo di statura, tarchiato. Ma ha il viso luminoso. A Carey McWilliams, suo amico avvocato, impegnato nella difesa dei diritti civili, lascia credere che tutta Los Angeles rimbombi delle sue avventure con Mae West, Dolores Del Rio e Gene Harlow. Ma il fondo delle vanterie è cosparso di un velo misogino e non può che essere Maria Antrilli a raccogliere i suoi sfoghi. “Non esco con le donne”, le scrive, “sono di pochissima compagnia e fino a quando non vedrò qualcuna che per lo meno ti somigli mi tengo a grandissima distanza da loro”. La letteratura resta l’ambizione di questi anni convulsi, durante i quali conosce anche William Saroyan (allo scrittore d’origine armena scrive alcune bellissime lettere, finora inedite, una delle quali in parte riproduciamo in questa pagina). Il primo romanzo, Aspetta primavera, Bandini, viene pubblicato nel 1938, seguito l’anno successivo da Chiedi alla polvere. Entrambi propongono il groviglio della famiglia Fante-Bandini. E non è facile confezionarli. Scrive a Carey: “Un uomo siede in una stanza e scrive un racconto su sua madre (…). E nella camera accanto siede la madre di quel tipo con un rosario nelle mani. E cosa fa se non pregare per il successo di quel racconto. Gesù Cristo! Se solo sapessi che effetto ha su un uomo. Gli fa sentire come se le sue interiora fossero appese all’esterno. Ne ho abbastanza. Torno a Los Angeles”. Il cinema e la letteratura continuano a convivere faticosamente. Il primo schiaccia la seconda almeno fino agli anni Settanta, quando gli incarichi si riducono e poi si esauriscono. Adesso John è molto invecchiato, però riesce a completare Il mio cane Stupido (poi inserito in A ovest di Roma). Nel 1974 lavora a La confraternita del Chianti. Ma il tempo che resta gli sfugge. Nel 1977 i medici che lo tengono in cura per un brutto diabete ordinano di amputargli una gamba. Un anno dopo John perde anche la vista. Vive nel buio in compagnia di una rumorosa memoria. Continua a pensare ai suoi libri, che ora è costretto a dettare alla moglie Joyce (nel 1982 esce I sogni di Bunker Hill), fino a quando, ridotto ad un tronco dopo che anche l’altra gamba gli viene tagliata, non si spegne nel maggio del 1983.

Lettere - RASSEGNA STAMPA

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