Franco Ferrucci

Il teatro della fortuna

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Potere e destino in Machiavelli e Shakespeare

Collana:
Numero collana:
77
Pagine:
200
Codice ISBN:
9788881124978
Prezzo cartaceo:
€ 18,00
Data pubblicazione:
30-04-2004

Una riflessione sull’emergere in Machiavelli del tema della Fortuna come padrona delle sorti umane e sulla teatralizzazione di questa visione del mondo nei drammi di Shakespeare diviene in questo libro di Franco Ferrucci un’affascinante, vertiginosa esplorazione di un’epoca di disordine e incertezze: il tardo Rinascimento europeo. Il libro si apre con un capitolo (“I Megalandri”) dedicato alla parabola dell’idea di superuomo nella cultura umanistica e poi rinascimentale, per giungere fino al teatro elisabettiano; ed è un prologo indispensabile per afferrare la complessità dei problemi filosofici umani e politici che assediano quel momento storico e creativo. Il secondo capitolo (“Il bersaglio e l’arciere”) è interamente dedicato a Machiavelli, diviso fra l’alto ideale umanistico e la concretezza “realpolitica” necessaria in un’Italia senza guida e divisa dalle guerre. Il quarto e ultimo (“La recita del male”) è dedicato a Shakespeare, alcune delle cui opere – in particolare il Macbeth – ricevono un’interpretazione totalmente innovativa, che ribalta i punti di riferimento tradizionali della “shakespearistica”. Nel mezzo, il terzo capitolo (“Teatro, potere, destino”) segue il tragitto che porta da Machiavelli al tardo Cinquecento inglese: un cammino intersecato di azione drammatica e di interrogazione sull’essenza della politica, la quale trova il suo terreno naturale sul palcoscenico oltre che nelle corti e sui campi di battaglia. L’evoluzione del machiavellismo nell’opera teatrale di Shakespeare è la risposta finale delle domande di tutto un secolo, le quali trovano nel bardo inglese il suo più profondo indagatore. Una risposta intrisa di pessimismo politico e cosmologico, che coinvolge questioni della più bruciante attualità sul significato del potere.

IL TEATRO DELLA FORTUNA – RECENSIONI

 

Piero Boitani, IL SOLE 24 ORE
– 25/04/2004

 

E Shakespeare si lesse “Il Principe”

 

C’è sempre molto da imparare da quello che scrive Franco Ferrucci. Che si tratti dell’autobiografia di Dio nel Mondo creato oppure di una lettura di Leopardi come Il formidabile deserto, o ancora dei suoi interventi danteschi, Il poema del desiderio e, più recentemente, Le due mani di Dio, questo scrittore che nel parlare dei nostri classici maggiori spesso sfida le convenzioni dell’ortodossia critica, offre sempre contributi che provocano ripensamenti e aggiustamenti. In questo libro, ad esempio, Ferrucci si dedica al rapporto fra il pensiero di Machiavelli e il grande teatro elisabettiano: argomento non certo inesplorato, se si pensa al lavoro di un Mario Praz. Eppure l’autore del Teatro della Fortuna riesce ugualmente a dirci qualcosa di importante, a ricostruire le fila di quel rapporto in visione organica.
Non è neutro, Ferrucci: studiare Machiavelli e Shakespeare significa per lui “tornare alle fonti del malessere e dell’orgoglio della visione del mondo che ci ha resi adulti oltre la speranza”. E affronta il suo tema con la scrittura forte e precisa che gli conosciamo: quando parla di Macbeth come di un “leone incapace di tramutarsi in volpe” o delle “maledizioni dalla montagna” di Timone d’Atene, l’incisività rende memorabile il suo ragionamento. Il libro, però, è anche serratamente argomentato in quattro capitoli di agile lettura. Ecco, nel primo, i “megalandri”, i grandi uomini esaltati dall’inglese Gabriel Harvey sulla scia del primo Rinascimento italiano. Il quale consacra, nel Quattrocento, un ideale che è già quello del superuomo. Machiavelli non ha partecipato alla creazione di questo mito, ma ha invece “sostituito all’immagine positiva dell’umanesimo italiano un’osservazione delle cose e degli uomini assai più limitativa”: è invece la vulgata antimachiavellica che dà luogo, nel Cinquecento, al “superomismo politico”. Marlowe mette in scena Tamerlano, Faust e L’Ebreo di Malta: “megalandri”, appunto, che aspirano tutti al “più oltra”, e il cui avversario non è Dio, il Fato o la Provvidenza, ma proprio la Fortuna.

La lettura di Machiavelli occupa il secondo capitolo: è acuminata come l’anatomia politico-filosofica del segretario fiorentino. Tutti noi, ad esempio, ricordiamo le immagini della “volpe” e del “leone” che dominano Il Principe: ma in pochi abbiamo prestato attenzioone al fatto che poco prima Machiavelli ci ha detto come il politico accorto debba usare sia la natura umana (le “leggi”), sia quella bestiale (le “forze”). Ebbene, Machiavelli dimentica la prima per concentrarsi soltanto sulla seconda, sulla bestia, la volpe appunto e il leone. E questo non è che un esempio della sua “logica asimmetrica”, che squassa il pensiero tradizionale, che anticipa il decadentismo moderno. Machiavelli, che coglie tutti i sintomi del morbo, del “ruinare” e dello “scendere”, aspira al modello inattingibile, al Mosé che è fondatore di stato e di religione a un tempo: eppure riconosce nella realtà un solo agente di fondo, la Fortuna, e dunque un solo modo di agire, quello del giocatore: “i dadi gettati prima che la folgore esploda”.
Il “player” è, in inglese, il giocatore e l’attore. Shakespeare li mette in scena ambedue, e la recita del regnante occupa il terzo capitolo del libro. L’immagine del “gran teatro del mondo” è comune nel tardo Rinascimento. Cosa vuol dire però, Lady Macbeth quando raccomanda al marito di somigliare al fiore innocente ma di esser il serpente che vi sta sotto? La frase sembra riecheggiare Bacone proprio in un punto nel quale egli loda Machiavelli. Il primo Shakespeare, sostiene Ferrucci, si riallaccia “alla tradizione antimachiavellica più comune”: nei drammi storici, i suoi re s’interrogano continuamente divenendo attori di se stessi. Ma quando giunge al Troilo e Cressida, Shakespeare comincia a incuneare qualcosa di più dirompente in tale “gioco”: Ulisse loderà l’ordine, lì, ma Tersite lo definirà un “volpone” che non vale nulla. È un punto di svolta. Con i Macbeth, cui è dedicato l’ultimo capitolo, la “recita” si fa assoluta. Raccomando a tutti la lettura di queste pagine: compatte e laceranti. Esse comprendono una sconvolgente rilettura del dialogo, generalmente ignorato, fra Malcolm e Macduff, dalla quale risulta come il primo non stia cercando di sondare le modalità del secondo, sebbene “di constatare fino a che punto l’altro sia capace di simulare una santa indignazione”. Lo “sta mettendo alla prova come attore”: insomma come Principe. Non è più, Macbeth, il luogo dello scontro tra il Male e il Bene: è invece, la “recita del male”, il prologo al nichilismo.

Il teatro della fortuna - RASSEGNA STAMPA

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