Christopher Isherwood

Leoni e ombre

COD: 7ef605fc8dba Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
20
Pagine:
300
Codice ISBN:
9788881120215
Prezzo cartaceo:
€ 14,00
Data pubblicazione:
01-06-1996

A cura di Tommaso Giartosio
Traduzione di Chiara Vatteroni

Leoni e ombre, pubblicato nel 1938, è l’autobiografia romanzata di Isherwood, che Gore Vidal definì il “migliore scrittore in prosa del secolo”. Dell’autobiografia, Leoni e ombre conserva il carattere appassionato di ritratto personale e collettivo: il ritratto di un’intera generazione di artisti, W.H. Auden, Spender, Upward, di fronte alla guerra e al paradosso della modernità. Del romanzo, il libro possiede la genialità, gli scarti improvvisi, la fluidità narrativa: nelle aule di Cambridge o nelle stanze d’affitto della bohème londinese rintracciamo figure di amici e maestri, la loro temerarietà, la loro splendida irrequietezza. Leoni e ombre resta un grande libro sulla giovinezza: il romanzo novecentesco di una “generazione x” ante litteram. “Un  giorno avrei scritto tutti gli altri libri che avevo in progetto. Ma per il momento ero solo un viaggiatore consegnato, anima e corpo, alla volontà del treno diretto verso est; felice solo perché sapevo che era cominciata un’altra tappa del mio viaggio”.

LEONI E OMBRE – RECENSIONI

 

Fulvio Panzeri, LETTURE
– 04/01/1997

 

Scrittore si racconta come in un romanzo

 

Sull’importanza della scrittura autobiografica e su come questa abbia percorso tutta l’opera di Isherwood si legga la postfazione di Tommaso Giartosio, esauriente e documentata, un saggio rivelatore sull’autore di ‘Addio a Berlino’ e ‘Un uomo solo’ che in Italia è conosciuto solo per frammenti. In una lettere del 1954 Isherwood scrive:”Suppongo che la verità sia che sono uno scrittore così essenzialmente autobiografico da essere del tutto incapace di manipolare un io parlante che non è me”. Commenta Giartosio, rivelando interamente l’ottica isherwoodiana: “Mi sembra che parlare della propria vita, per uno scrittore, significhi riconoscere che il proprio teme (il sogno o l’incubo ricorrente) è non lui stesso, non lei stessa, ma lo sguardo dell’essere umano sul proprio mondo, il mondo a cui appartiene e da cui si distacca. Questa soglia”. Del resto ‘Leoni e ombre’, pubblicato nel 1938, è l’autobiografia romanzata di Isherwood, relativa al suo apprendistato letterario e che copre gli anni cruciali che vanno dalla fine del collegio (1920-21) alla partenza per la Germania (1928-29). Quindi un periodo che esclude i due momenti significativi dell’esperienza letteraria dello scrittore. Non c’è ancora la Berlino dal cuore debole e “la vasta America della vita normale”, quella che conoscerà dopo il 1939, quando si trasferisce negli Stati Uniti, insieme a Auden. Sono gli anni della formazione, quelli che qui racconta, importanti, perché intorno a lui emerge un’intera generazione di artisti da Auden a Spender, con le discussioni e le posizioni di fronte alla guerra e al paradosso della modernità. Dalle aule di Cambridge alle stanze d’affitto londinesi lo sguardo di Isherwood indaga, senza retorica, amici e maestri, raccontando i momenti di studio e di goliardia, ma anche le velleità politiche. Ciò che si coglie è soprattutto il gusto dell’autoanalisi ironica. Quella stessa che connota anche l’avvertenza al lettore: “Poiché il libro ha per soggetto i problemi di un futuro scrittore, esso riguarda anche il contegno dell’individuo. Lo stile è l’uomo. E poiché ha per soggetto il contegno, ho dovuto teatralizzarlo, altrimenti non sareste andati oltre la prima pagina. Leggetelo come un romanzo”.

 

Francesco Gnerre, BABILONIA
– 02/01/1997

Christopher Isherwood – Un colloquio con Tommaso Giartosio – autore di un recente saggio sullo scrittore anglo-americano – mette a fuoco non solo le tendenze letterarie di un’epoca, ma l’importanza dell’elaborazione di un’identità

Un uomo solo

 

Christopher Isherwood, “il miglior prosatore in lingua inglese” secondo Gore Vidal, è uno dei maggiori scrittori del Novecento, eppure rimane in Italia un autore poco letto. I suoi libri non hanno mai raggiunto il grande pubblico – nemmeno tra i gay – forse a causa delle sue atmosfere poco “mediterranee”. A caratterizzare la vita e l’opera di Isherwood sono infatti da una parte il cosmopolitismo e dall’altra una forma di autoironia, una capacità tutta anglosassone di non prendersi mai troppo sul serio. A questo va aggiunto che anche la tematica omosessuale, presente in tutta la sua produzione, prima accompagnata da forme di mascheramento e di occultamento, poi sempre più chiara e prepotente, è rappresentata con una forma di consapevolezza e con una dignità lontane dalle esibizioni autoflagellanti o narcisistiche cui siamo forse abituati. Il primo libro di Christopher Isherwood, ‘Tutti i cospiratori’, è del 1928, l’ultimo, pubblicato quando egli era ancora in vita, è ‘Ottobre’ (1980), a cui sono seguite, postume, affascinanti pagine dei suoi diari americani. La sua attività attraversa così tutto il Novecento e colpisce per la straordinaria varietà di esperienze. Esponente di una famiglia della piccola nobiltà di campagna (gli ‘squires’), figlio di un eroe della prima guerra mondiale, Isherwood descrive in un primo momento la sua estraneità alla famiglia e alla sua classe sociale e la fuga verso la libertà con il viaggio in Germania alla fine degli anni Venti. Berlino assumeva le caratteristiche di una città-mito, “incredibilmente immorale e tuttavia fondamentale rispettosa”. “Berlino voleva dire Ragazzi.” Dopo quattro anni in Germania, dove assiste all’ascesa del nazismo e dove raccoglie il materiale che sarà alla base dei grandi romanzi berlinesi (‘Addio a Berlino e Mr. Norris se ne va’), Isherwood lascia l’Europa e va a stabilirsi negli Stati Uniti: una scelta molto difficile, ma chiara, che più tardi egli stesso spiegherà come una presa di coscienza dell’impegno omosessuale. Il nazismo infatti in Europa andava rinchiudendo gli omosessuali nei campi di concentramento, ma anche le democrazie occidentali applicavano leggi omofobe e la Russia staliniana considerava l’omosessualità come una forma di tradimento dello Stato. Questi problemi Isherwood li vive direttamente, percorrendo l’Europa con il suo fidanzato tedesco, finché questi non fu arrestato in Germania nel 1937. In America Isherwood sostiene apertamente il movimento gay e ne diviene uno dei padri spirituali: può parlare di sé e della sua identità senza più bisogno di metafore o maschere; ma rimane nella sua scrittura un senso di estraneità a un mondo che, se prima lo costringeva a mettere maschere e ad occultare se stesso, ora sembra impedirgli proprio di assumere quelle maschere, visto che assumere maschere ed essere altro da sé è alla base della Letteratura. Così le opere americane sono quasi esclusivamente autobiografiche. Soltanto ‘Un uomo solo’ presenta ancora un narratore eroe che ‘non’ è Christopher Isherwood. A un certo punto della narrazione, il protagonista però dice: “Ciò che io so, è quello che io sono! E non posso dirtelo. Devi scoprirlo da te. Sono come un libro che tu devi leggere. Un libro non può leggersi da solo. Non sa nemmeno qual è il suo argomento. Io non so qual è il mio argomento”. Scrive Tommaso Giartosio: “La parabola è completa: l’io non inventa più un libro che agisce, l’io è un libro. E può solo offrirsi da leggere, fornire documenti. Qui è annidato un pericolo spaventoso. L’identità, avviticchiata su se stessa, si risolve in una rinuncia al comunicare. Il razzismo dovrebbe spaventarci ancora di più, ora che sappiamo che l’alienazione genera un senso della propria natura tanto assoluto da confondere il rispetto di sé con il silenzio, da azzittire la facoltà di ‘essere altri'”. Di Isherwood è stato recentemente pubblicato il romanzo giovanile ‘Leoni e ombre’. Si tratta dell’autobiografia romanzata di un decennio, quello degli anni Venti in Inghilterra, che finisce con la partenza dello scrittore per la Germania. Il libro è accompagnato da un illuminante saggio, ‘Real men don’t use metaphors’, che fa da “Postfazione” all’edizione italiana. Ne è autore un giovane studioso, Tommaso Giartosio, che accetta volentieri di discutere con noi. In che misura “Leoni e ombre” aiuta a capire meglio tutto Isherwood? È un testo fondamentale: benché non affronti direttamente il tema dell’omosessualità, ci fa vedere l’artista nel suo “farsi”, il modo in cui arriva a progettare i suoi grandi romanzi. In ‘Leoni e ombre’ lo scrittore racconta l’ideazione, la composizione e la distruzione fisica di libri che compaiono e scompaiono come bollicine: c’è un senso di vitalità, di impegno estremo nel progettare un’opera dopo l’altra, una inappagata ricerca di mondi fantastici ideali… Isherwood è uno scrittore fondamentalmente autobiografico, come molti scrittori omosessuali che sentono evidentemente l’esigenza di parlare di sé per affermare in qualche modo un’identità negata. Non pensi che ci possano essere modi diversi di parlare di sé a seconda della propria cultura e della propria tradizione? Potrebbe essere questo uno dei motivi per cui Isherwood rimane uno scrittore poco letto in Italia? Certamente si. L’omosessualità – come dire – “all’inglese” di cui parlo in questa “Postfazione” a ‘Leoni e ombre’ è basata sulla nette separazione fra i sessi, molto più forte in Inghilterra che in Italia. Lì c’è l’usanza dei club di soli uomini che si ritrovano fra di loro, del “collegio inglese” in cui i ragazzi crescono insieme. L’omosessualità, come dire, all’italiana, rientra nella tradizione di omosessualità mediterranea, basata per lo più sul rapporto adulto-ragazzo, che è diversa dall’omosessualità all’inglese, impastata anche di cultura alta: si pensi al modello del dialogo platonico letto nelle aule di Oxford. È cosa diversa e non facile da inquadrare per noi. Comunque aggiungerei che c’è nella cultura anglo-germanica un’idea degli omosessuali come compagni di strada che si può far risalire forse a un certo tipo di educazione basata anche su forme di associazioni giovanili: non è un caso che le prime organizzazioni di rivendicazioni gay siano state tedesche. In Italia si rimane più legati a una tradizione mediterranea, direi anche araba: un giovane – se vuole – può anche avere rapporti omosessuali, però poi deve entrare nella società seria, sposarsi e avere figli… Come avviene in Forster, spesso gli scrittori omosessuali riescono a trattare di omosessualità adottando strategie di occultamento che sono anche affascinanti strategie narrative. Tu spieghi molto bene la tecnica di Isherwood nei romanzi berlinesi, dove egli si divide tra un io autobiografico “normale” e un protagonista in terza persona su cui va ad addensarsi la diversità. Questo permette al lettore “normale” di identificarsi con il narratore; ma, in realtà, al centro della scena c’è l’eroe “diverso” e, spesso, anche il lettore benpensante viene catturato (“taken in”) nell’universo della diversità. È un discorso delicato: ci sono vere e proprie strategie di occultamento, ma spesso l’intellettuale è abbastanza consapevole del contesto culturale in cui opera da rendersi conto del fatto che scrivere unicamente di omosessualità – oltre ad essere, in alcuni paesi, proibito (stiamo parlando degli anni Venti e Trenta) – attira un numero più limitato di lettori. Non parlare apertamente di omosessualità, oltre che alla volontà di occultare se stessi, risponde anche al bisogno di dimostrare quello che chiamo “il punto di vista del closet”, cioè il punto di vista dell’individuo “diverso”: e questo non va a toccare solo l’omosessualità. Nei romanzi berlinesi, per esempio, si manifesta in una condanna del totalitarismo. E questa è la cosa affascinante non solo della scrittura degli omosessuali, ma anche della scrittura di ogni minoranza: la possibilità do affrontare la condizione umana, guardandola come da dietro una porta socchiusa… È un luogo comune che la grande opera scritta da un omosessuale viene fuori quando lo scrittore opera strategie di occultamento; invece nel momento in cui non c’è più questo bisogno, sembra che si producano opere meno interessanti. Cosa ne pensi? Porrei la questione in altro modo: grandi opere sono state scritte partendo da situazioni e contesti “marginali”. Quando Cervantes scrive ‘Don Chisciotte’ va a prendere un nobile squattrinato maniaco di poemi cavallereschi. Scrive un’opera grandissima partendo da un fenomeno marginale, che però dava la possibilità di usare il tema per connettersi a questioni molto più ampie. Penso che se il romanzo di argomento apertamente gay dei giorni nostri risulta poco interessante è perché gli scrittori non sanno cogliere il modo in cui l’omosessualità si collega a tematiche più ampie. Scrivere di omosessualità non vuol dire scrivere solo per lettori omosessuali. Sto leggendo un libro di Henry James, ‘La Musa tragica’, il cui tema è quello dell’Esteta, cioè di un personaggio non sposato, spesso con inclinazioni omosessuali (ce n’è uno anche in questo romanzo di James) che – cito testualmente James – “non fa, ma è”: cioè che non genera, non produce, a cominciare dalla produzione dei figli. Egli non produce niente, è un’opera d’arte. È un tipo di risposta che possiamo criticare, ma rimane una risposta significativa, perché l’omosessualità vi diventa un tassello di un gioco culturale più ampio. In Isherwood la figura dell’esteta – con l’avvicinarsi della prima guerra mondiale – si trasforma in quella dell’esteta – soldato, che è però portatore di un gesto che si brucia in se stesso, della crisi di una generazione. Non è un caso che nel medesimo periodo e negli stessi ambienti nordeuropei sorgano le prime rivendicazioni dei diritti omosessuali… Il “Tema della prova”, del personaggio che si sente inadeguato di fronte alla realtà, attraversa molta letteratura di quegli anni: penso a “Gli indifferenti” di Moravia – che è del 1929 – ma anche a “L’uomo senza qualità” di Musil… Si, certo, il romanzo di Moravia ha molte analogie con il primo romanzo di Isherwood ‘Tutti i cospiratori’ che è del 1928. Anche qui c’è il personaggio di un figlio, inserito in una famiglia senza padre con una madre dominante, che intravede la possibilità di uscire dall’ambito famigliare, ma è troppo debole e quindi incapace di staccarsene realmente, al punto da compiere gesti da psicopatico. In ‘Leoni e ombre’ Isherwood rappresenta la sensibilità propria di quegli anni: l’idea di un ‘uomo veramente debole’ che deve continuamente ricercare prove per dimostrare di essere uomo, mentre l”uomo veramente forte’ non ha bisogno di farlo…Mi fa pensare anche a Gide. Il periodo tra le due guerra è un’articolazione chiave di quel punto di vista individualistico – ereditato dal primo anteguerra e che si protrarrà per tutti gli anni Venti – in cui l’io deve dimostrare che sa o che non sa compiere certe cose. Poi, con gli anni Trenta, con l’emergere dei totalitarismi, di minacce politiche davanti alle quali bisogna unirsi, una risposta individuale non ha più senso. Ogni intellettuale si rende conto che il vero problema diventa come inserirsi in un fronte e quanto si è disposti a pagare. È il problema di Isherwood, di Orwell… E qui si inserisce per Isherwood la grande svolta dell’espatrio in America con l’assunzione della propria identità gay e con la ricerca di un modo nuovo di fare letteratura e di rappresentare l’omosessualità; è il periodo di “Un uomo solo”, forse il più bello dei suoi romanzi del periodo americano. Sì: ma Isherwood si trasferisce in America nel 1940 e i movimenti di rivendicazione gay nasceranno solo qualche decennio dopo. C’è quindi uno spazio buio che solo recentemente è stato riempito con la pubblicazione in Inghilterra dei diari americani. Io penso che il cambiamento di quegli anni sia stato profondo: un passaggio da un contesto molto rigido, dalla famiglia, dalla sua città (e nel caso di Isherwood da una famiglia ‘upper-class’ molto nota in Inghilterra), alla California, la terra degli espatriati, dove chiunque arriva può cambiarsi nome, può cambiare vita… Ed è molto affascinante, in questa metamorfosi di Isherwood, il senso nuovo dell’alienazione: mentre prima della guerra, nei romanzi berlinesi, l’alienazione era essere altri da sé, essere costretti dall’ipocrisia sociale a portare una maschera, ora, in America, l’alienazione diventa essere se stessi. La società di massa – in cui tutte le esigenze, le costruzioni di identità vengono servite da una grande macchina che permette a tutti di conservare il loro angolino e di essere quello che vogliono; in cui non c’è più un sistema sociale antiquato che ti costringe ad assumere una determinata identità – diventa una nuova trappola: non puoi più sognarti nei panni di un altro, sei ‘costretto’ ad essere sempre te stesso. È un discorso che può suonare strano, ma solo perché in Italia ancora non lo abbiamo messo bene a fuoco. Non ci rendiamo ancora abbastanza conto di quanto possa essere pesante la responsabilità di essere sempre se stessi. Questo è successo a Isherwood: dopo essere stato per tanto tempo costretto a portare maschere, si è sentito come costretto a non portarne più. E invece uno scrittore ha bisogno di maschere. Insomma tu dici che in America è inconcepibile una costruzione narrativa tutta basata sull’ambiguità come quella di “Addio a Berlino”? Si, perché sei inchiodato al te stesso che hai scelto di essere: l’America in questo senso è il trionfo dell’uomo “normale”. Sei normale perché sei d’accordo, puoi essere questa o quella variante, questa o quella identità, però, tutto sommato, sei un certo modello di uomo . si verifica così una sorta di nuovo conformismo. Il conformismo all’antica ti diceva: tu sei un Isherwood della tale famiglia, della tale Contea e non puoi spostarti troppo in alto o troppo in basso rispetto al tuo ruolo sociale. Il nuovo conformismo ti dice che siamo tutti uguali. Quindi puoi essere quello che vuoi. Perché? Perché tanto siamo tutti uguali. Quindi Isherwood combatte contro il vecchio conformismo, ma quando poi vive questo nuovo conformismo lo vive in maniera drammatica: “Un uomo solo” non è un libro allegro, di chi sia felice di aver trovato una sua identità… Infatti: c’è un senso di vanità degli sforzi, perché non c’è una direzione ben chiara verso cui andare. Una volta che hai rivendicato la libertà che ti mancava, ti rendi conto che anche quella libertà può essere una sorta di prigione. Un altro aspetto di Isherwood è l’interesse per l’India e per il vedanta. Me ne parli? Isherwood si avvicina all’India, e al suo sistema filosofico del vedanta, poco poco l’arrivo in America: questo va visto come reazione a una sorta di svuotamento che caratterizza quegli anni. Nel momento in cui ha rifiutato di prendere parte al secondo conflitto mondiale e si è chiamato fuori dagli schieramenti in gioco, una persona con la serietà intellettuale di Isherwood sente il bisogno di trovare risposte morali a tale scelta. I libri di Isherwood sono “datati” nel senso che dici nella “postfazione”:classici non nel senso che non invecchiano, ma perché invecchiamo bene… Quale posto occupano fra i modelli degli scrittori gay di oggi, che rappresentano l’omosessualità in modo più spregiudicato e forse anche più sereno? Non so darti testimonianze precise, però posso dire che Isherwood è stato ed è considerato uno dei principali scrittori inglesi del Novecento. Egli rappresenta anche un po’ il mito delle speranze tradite. Ricordo la battuta di Somerset Maugham che confida a Virginia Woolf a proposito di Isherwood: “Quel giovanotto stringe in pugno il futuro del romanzo inglese”. Egli era allora una grande promessa, e gli scritti del suo primo periodo sono tra i più importanti. Isherwood rappresenta una coscienza del secolo; è un autore che – con Auden – ha scritto opere che sono nodali nel teatro del Novecento. In ‘Cristopher e il suo mondo’ senti che sei nel cuore pulsante di un’epoca. Forse possiamo dire che oggi è un po’ sottovalutato… Quali sono i motivi di questa sottovalutazione, anche da parte degli studiosi? Auden e continua a pubblicare i suoi libri; però viaggia per l’Europa con il suo fidanzato tedesco e vive in una sorta di clandestinità. Isherwood mi ricorda Chatwin: è un omosessuale che per quanto si trovi nei punti cruciali della cultura dell’epoca, orbita ellitticamente, e a un certo punto si slega da tutto e se ne va a fare un percorso suo: così egli ha fatto andando in America. La sua è stata un’orbita talmente ellittica che lo ha allontanato definitamene dal rapporto con la cultura più vitale del secondo dopoguerra in Europa. Isherwood ha vissuto in America anche gli anni bui del maccartismo. C’è in lui il paradosso di una persona piena di amici, piena di contatti, piena di curiosità intellettuali, ma che al tempo stesso sente di essere diverso, indipendente, e solo. A proposito dei comunisti un personaggio di ‘Mr Norris’ dice una frase che è ascrivibile allo stesso Isherwood: “Un giorno forse sarò con loro, ma mai dei loro”. È il motivo per cui Stephen Spender accusava Isherwood di essersi allontanato dal “caldo fiume della vita normale”. Nonostante l’ingiustizia di un’accusa del genere, c’è una verità in essa: il fatto che una persona che viene emarginata anche dai circoli più illuminati della sua epoca ha difficoltà a farne veramente parte. E quando aderisce a una ideologia, ad un gruppo, lo fa in maniera limitata, sente sempre che nessuno rispetta veramente la sua omosessualità. Alle accuse dell’amico Spender Isherwood risponde: “Sono parole di saggezza. Ma coloro che hanno il “grave svantaggio” di ritrovarsi in carcere per delitti contro la morale potrebbero ben ribattere che non sono stati loro a scegliersi l’etichetta, ma i nostri legislatori e la nostra polizia”.

 

IL FOGLIO
– 08/06/1996

Christopher Isherwood

Leoni e ombre

 

Magari il nome di Christopher Isherwood non l’abbiamo mai sentito. Magari non abbiamo letto nessuno dei suoi romanzi. Ma lui è riuscito lo stesso a conquistarci. Ricordate Sally Bowles, la cantante un po’ svitata del film “Cabaret”? Sally nasce nelle pagine di “Addio a Berlino”, in cui Isherwood, scrittore girovago come lo sono stati molti inglesi , rievoca il suo soggiorno nella Germania negli anni ’30. A Berlino, c’era andato per raggiungere l’amico poeta Wystan Hugh Auden. Ma anche per un motivo che nell’Inghilterra degli anni ’20 non si poteva confessare pubblicamente: “Berlino, voleva dire ragazzi”, dichiarerà tempo dopo. ”Leoni e ombre” è un libro autobiografico, in cui Isherwood racconta il suo apprendistato di scrittore. Il genere è di quelli fatti apposta per stuzzicare la curiosità di chi legge: pochi di noi sanno resistere alla tentazione di ficcare il naso nelle vite private delle celebrità. Sapere che anche i ricchi piangono, o che i grandi non sono esenti da piccinerie, è una dolce consolazione. Così Isherwood mette subito le mani avanti, avvertendo che i nomi sono stati cambiati, che non farà pettegolezzi, e che il libro va letto come un romanzo. Nessuno gli credette già nel 1983, quando il libro fu pubblicato da Virginia e Leonard Woolf. Credergli oggi, quando sappiamo che anche Sally Bowles non fu il frutto soltanto della sua fantasia – nella vita, si chiamava Jean Ross, e dopo gli anni berlinesi andò a combattere in Spagna – è ancora più difficile. Confessate le debolezze del lettore, piacerebbe trovarne qualcuna a carico dello scrittore. Ma anche se Christopher Isherwood mette mano a “Leoni e ombre” quando ha appena 20 anni, riesce a evitare l’autocompiacimento, e la tentazione di allineare tutto in maniera troppo ordinata, come se ogni minimo passo dello scrittore da cucciolo portasse diritto all’opera prima. Come si forma un romanziere? Per tentativi ed errori, è la risposta di Isherwood. A Cambridge, prima di farsi espellere , il giovane, il giovane Christopher progetta un romanzo dopo l’altro. Insieme a uno studente, anche lui annoiato dall’ambiente accademico, immagina una città segreta, da cui si accede attraverso una porticina. Poi questa realtà parallela viene trasportata in villaggio, battezzato Mortmere: ogni sera i due inventano personaggi e situazioni di un ciclo che non verrà mai scritto, alternando le atmosfere del racconto gotico a colpi di scena degni dei racconti di spie. (Anche le tre sorelle Brönte, con il fratello Branwell, passavano così i loro pomeriggi). Con cura maniacale, Isherwood e il suo socio progettano i dettagli: l’edizione di lusso del volumetto avrebbe dovuto includere un minuscolo grammofono, per accompagnare le descrizioni con arie commoventi, e le pagine avrebbero dovuto avere un odore appropriato all’argomento: sudari, cloroformio o cibi appetitosi. Ogni libro letto, ogni nuovo autore scoperto era l’occasione per aggiustare il tiro. Dopo aver vivacchiato per un po’ lavorando come segretario, Isherwood si innamora di Anton Cechov, e decide che come lui farà il medico: quale modo migliore per curiosare nella vita della gente e ricavarne materiale da romanzo? Il laboratorio prevede sedute di scrittura automatica e mette anche in cantiere un romano con un eroe piuttosto singolare: l’Uomo Veramente Debole, che sembra un parente dell'”Uomo senza qualità” di Robert Musil. Provando e riprovando, alla fine Isherwood un romanzo riesce a scriverlo davvero, e lo intitola, da un verso di Shakespeare, “Tutti i cospiratori”. Esce nel 1928, dando il via alla carriera di uno scrittore che – unica dichiarazione poetica – si paragonerà più tardi a una macchina fotografica. Nelle sue foto ricordo, ci sono Wystan Hugh Auden e Stephen Spender, la vita di bohème inglese, la stagione dei cabaret berlinesi e infine l’America e le filosofie orientali, la sua ultima passione.

 

Fulvio Panzeri, LETTURE
– 04/01/1997

 

Scrittore si racconta come in un romanzo

 

Sull’importanza della scrittura autobiografica e su come questa abbia percorso tutta l’opera di Isherwood si legga la postfazione di Tommaso Giartosio, esauriente e documentata, un saggio rivelatore sull’autore di ‘Addio a Berlino e Un uomo solo’ che in Italia è conosciuto solo per frammenti. In una lettera del 1954 Isherwood scrive:”Suppongo che la verità sia che sono uno scrittore così essenzialmente autobiografico da essere del tutto incapace di manipolare un io parlante che non è me”. Commenta Giartosio, rivelando interamente l’ottica isherwoodiana: “Mi sembra che parlare della propria vita, per uno scrittore, significhi riconoscere che il proprio tema (il sogno o l’incubo ricorrente) è non lui stesso, non lei stessa, ma lo sguardo dell’essere umano sul proprio mondo, il mondo a cui appartiene e da cui si distacca. Questa soglia”. Del resto ‘Leoni e ombre’, pubblicato nel 1938, è l’autobiografia romanzata di Isherwood, relativa al suo apprendistato letterario e che copre gli anni cruciali che vanno dalla fine del collegio (1920-29). Quindi un periodo che esclude i due momenti significativi dell’esperienza letteraria dello scrittore. Non c’era ancora la Berlino dal cuore debole e “la vasta America della vita normale”, quella che conoscerà dopo il 1939, quando si trasferisce negli Stati Uniti, insieme a Auden. Sono gli anni della formazione, quelli che qui racconta, importanti, perché intorno a lui emerge un’intera generazione di artisti da Auden a Spender, con le discussioni e le posizioni di fronte alla guerra e al paradosso della modernità. Dalle aule di Cambridge alle stanze d’affitto londinesi lo sguardo di Isherwood indaga, senza retorica, amici e maestri, raccontando i momenti di studio e di goliardia, ma anche le velleità politiche. Ciò che si coglie è soprattutto il gusto dell’autoanalisi ironica. Quella stessa che connota anche l’avvertenza al lettore: “Poiché il libro ha per soggetto i problemi di un futuro scrittore, esso riguarda anche il contegno dell’individuo. Lo stile è l’uomo. E poiché ha per soggetto il contegno, ho dovuto teatralizzarlo, altrimenti non sareste andati oltre la pagina. Leggetevelo come un romanzo”.

 

Italo Vanni, IL RESTO DEL CARLINO
– 10/12/1996

Il polemista

Isherwood. Il dono di raccontare.

“Leoni e ombre” la storia di una giovinezza nei college inglesi.

Uno dei pochi scrittori contemporanei dei cui libri ci sorprendiamo a segnare con particolare slancio intere pagine a mo’ di entusiastica approvazione l’inglese Christopher Isherwood (1904-1986). Che cosa ci persuade così vivamente in questo scrittore? Il dono. È un’attribuzione molto semplice che fa capo al piacere di scrivere e a quello di essere letto ma molto rara in letteratura ( specie in quella così alta ) . Isherwood ha naturalezza, grazia festosità: come se mettere mano alla penna fosse per lui un atto della vita un gesto congeniale un’attitudine liberatoria; insomma, il respiro stesso del soggetto vivente e scrivente. Il “dono” in questa forma è un’eccezione meravigliosa. Chi lo possiede può concedersi la libertà – sempre relativa s’intende e sorvegliata – di scrivere ciò che si vuole, cioè di scrivere se stesso. Non a caso infatti, Ishewood è in ogni suo libro e in varia misura, scrittore autobiografico. Ma col gusto e l’istinto del racconto così che parlando di sé ci mostra al tempo stesso la vita e il mondo. Il mondo berlinese degli anni trenta (‘Il signor Norris se ne va, 1935, Addio a Berlino, 1939, da cui fu tratto il film “Cabaret”, che non piacque allo scrittore); l’America dove trascorse la seconda metà della sua vita assumendone la nazionalità (un uomo solo, 1964); l’universo delle filosofie orientali (‘Il mio guru, 1980); e infine e soprattutto il suo proprio mondo nei libri di autobiografia diretta (Christopher e il suo mondo, 1977). Tra questi ultimi si colloca ‘Leoni e ombre’, 1938, di cui l’editore Fazi ha fornito un’accurata versione. Ishewood vi parla di se in forma romanzata della sua prima giovinezza tra il ’20 e il ’28. l’anno dopo si trasferirà a Berlino per restarvi quattro anni, tra i piaceri del sesso liberato (l’omosessualità), la variegata umanità degli eccentrici e i dispiaceri procurati dal nascente e già trionfante nazismo. Per ora al non ancora ventenne Christopher (nato in una famiglia provinciale quasi aristocratica, da un padre che morirà in guerra e da una madre opprimente), la vita si presenta come un territorio inesplorato pieno di promesse e di insidie. Egli è pauroso e curioso debole e confusamente deciso a farsi forte. La debolezza gli viene dalla natura non ancora sperimentata delle sue inclinazioni segrete che già lo escludono dal mondo o lo contrappongono ad esso; la sua forza; o meglio il suo trepidante coraggio risiede nella volontà di vivere audacemente, di vita si presenta come un territorio inesplorato pieno di promesse e di insidie. Egli è pauroso e curioso, debole e confusamente deciso a farsi forte. La debolezza gli viene dalla natura non ancora sperimentata delle sue inclinazioni segrete che già lo escludono dal mondo o lo contrappongono ad esso; la sua forza; o ,egli il suo trepidamente coraggio risiede nella volontà di vivere audacemente, di affrontare la prova (Test), elevando per gradi tra sé e gli altri lo schermo che è anche un tramite della Letteratura. In tutto ciò entrano gli inestimabili sussidi dell’intelligenza e della vocazione artistica con l’ironia squisitamente anglosassone (quella stessa di cui si colgono gli echi in Arbasino)e il tenero impulso ad amare : il “dono” insomma; già pronto a trasfondersi nella scrittura. Fragile e armato di tutto punto ignaro e intimamente consapevole interrogativo e colmo di risposte, il giovane Christopher affronta la realtà. Sarà quella delle scuole e poi dei nobili college inglesi (Cambridge) dove i sodalizi maschili si tingono di ambigue suggestioni e di ardenti esclusivismi. Compaiono in ‘Leoni e ombre’ è in atto. La letteratura occupa il primo posto; poi lo spirito dissacratorio e funambolico; il rifiuto della società regolarizzata l’approssimazione ideologica l’ignoranza asessuale il godimento un poco furtivo dei residui privilegi di classe… Christopher uscirà clamorosamente da Cambridge stanco di scolarità e tenterà alcune forme di vita indipendente come segretario e istitutore; abbozzerà due tre romanzi dei quali solo uno, ‘All the conspirators’ uscirà nel 1928 . Tra sensi di colpa, euforici presentimenti e falliti tentativi di riorganizzazione (lo studio della medicina) si avvierà a essere se stesso: colui, cioè che di lì a poco troverà a Berlino la sua arte felice e l’impudente felicità dei suoi istinti. ‘Leoni e ombre’ è solo in parte un romanzo di formazione e un documento d’epoca. È un bellissimo saggio di scrittura biografica libera fino alle soglie del romanzo; è una finzione veritiera una reminiscenza innamorata una reticenza molto confidenziale. Un libro insomma fluido e apparentemente casuale come lo scorrere dei giorni cangiante e labile presente e inafferrabile come l’aria. Il personaggio che si chiama Christopher si dichiara in più di un passo “felice”. Questo stato passeggero prende forma e consistenza nelle pagine sorgive di Ishewood. È la felicità di prima de diluvio nell’intervallo storico tra due immagini sciagure. Di questa euforia leggera sospesa su un abisso è pervaso ‘Addio a Berlino’. Il “Dono ” di Ishewood è di preannunziarne lo spirito in queste sue pagine autobiografiche senza l’aggravamento della teoria delle prese di posizione, dell’ufficialità , insomma, che marcheranno il periodo americano. Christopher Ishewood appartiene a quell’esigue famiglia di scrittori che provengono dall’innocenza come da un Eden perduto di cui riflettono durevolmente la luce. Il suo stile mira alla ricomposizione di quel mondo originario, tra mille insidie e le fascinazioni dell’esperienza. L’incisiva levità della sua parola porta con sé il peso e insieme la levitazione poetica del vissuto, il segno dell’angelo decaduto che inalbera il vessillo della sua purezza.

 

David Bianco, IL MANIFESTO

 

Ritratto dell’ intellettuale giovane

 

Ricordiamo lo scrittore Christopher Isherwood in un luminoso ritratto californiano di David Hockney, sprofondato in poltrona mentre sorveglia il compagno Don Bachardy. Di profilo, con la bella testa che serba ancora una memoria dell’antica fierezza, e i sopracciglioni folti e imbiancati ad indurire un poco l’espressione del volto. Uno sguardo fermo che si tradisce però nello strano riflesso che pare offuscarlo, un’ombra scivolata via da un’interiorità che si avverte essere stata un tempo combattuta e complessa: la stessa che ripercorsa a ritroso torna in tanti dei suoi libri, così densamente anagrafici da essere persino liquidati come un freddo pasto di cronachistica personale da parte dei suoi non pochi e spietati detrattori. All’epoca di quel ritratto, sul finire degli anni Sessanta, Isherwood era ormai un maturo signore. Lasciate alle spalle le nostalgie della vecchia Europa, le prevaricazioni e le sofferenze per la propria condizione borghese e inglese di omosessuale, si era completamente pacificato con se stesso, giungendo addirittura a scrutinare con stoica serenità le ultime carte della vita nel suo libro più intenso, probabilmente uno dei più lucidi romanzi mai scritti sulla vecchiaia: “Un uomo solo”. Ma nell’Isherwood americano riaffiora a poco a poco anche la polpa genuina degli avvenimenti che avevano ispirato, trasfigurandole, le trame “vere” dei più celebri “Addio a Berlino” e “Mr. Norris cambia treno”. Nella tarda autobiografia “Christopher e il suo mondo” (1929- 1939) (ma é del ‘76) l’autore svelerà infatti il condensato mirabile e terribile del suo percorso esistenziale, che é poi quello di un’intera generazione segnata dalla mano del destino e dal fatale approssimarsi dello spettro della guerra. il volume si chiudeva con la fuga verso la vita: nel 1939, Isherwood si trasferì negli Stati Uniti assieme all’amico Auden. Ma già un anno prima lo scrittore aveva dato alle stampe una singolare dissimulazione del suo passato in “Lions and Shadows”, “che descrive la vita di C.I. fra i diciassette e i ventiquattro anni, dove l’autore mantiene segreti alcuni fatti importanti che lo riguardano e che suggerisce di leggere come fosse un romanzo”. Curioso e anomalo, dunque, questo “Leoni e ombre”, appena uscito per l’editore Fazi (a cura di Tommaso Giartosio, traduzione di Chiara Vatteroni, pp.328, £ 28,000): anche se mascherate attraverso la finzione narrativa e i tanti nom de plume, vengono qui restituite al lettore le preziose tessere del suo composito apprendistato umano ed intellettuale, assieme alla storia, ai sapori, alle atmosfere di una rapsodica “educazione degli anni venti”. Se nel panorama di questo secolo il Grande Inglese della letteratura, A. Huxley, aveva potuto ben definirsi “un saggista che ha espresso le proprie idee nei romanzi”, con “Leoni e ombre” Isherwood si conferma l’ideale rovescio narrativo dell’autore di “Giallo cromo”: lui del resto aveva sempre confessato che per uno scrittore parlare della propria vita significa riconoscere che il proprio tema é non lui stesso, non lei stessa, ma “lo sguardo dell’essere umano sul proprio mondo, il mondo a cui appartiene e da cui si distacca. Questa soglia”. Uno sguardo che l’autore fa appena in tempo a gettare su quella soglia prima di distaccarsene, di spiccare il volo oltre il tremendo baratro europeo degli anni trenta. quasi a volere spezzare le catene di un incanto – quello della propria memoria racchiusa nell’invenzione letteraria dei romanzi berlinesi così dolorosamente preveggenti circa le atrocità e le sofferenze che si sarebero abbattute da lì a poco – per liberarsi, e liberare la scrittura dal demone della realtà che altrimenti si sarebbe rivelata durante il resto della vita un peso insostenibile per chi aveva deciso di starsene dentro l’esistenza come “una macchina fotografica con l’obiettivo aperto” che non pensa ma accumula “passivamente impressioni”. In queste pagine, “la vasta America della vita normale” ha ancora da essere scoperta e con essa la Berlino dal cuore tenero e corruscato del Tiergarten. Il mondo é piuttosto l’angusto spazio dei collegi e delle università inglesi entro cui il giovane Chris prende coscienza di un indocile se stesso. Mentre, a partire dal titolo, allusivo del testo quanto basta per disorientarsi come in una stanza foderata di specchi, si evidenziano i propositi letterari in seguito abbandonati o usati alla stregua di una lepre narrativa, come nel caso di due titoli fittizi poi confluiti in “All the Cospirators” e in “The Memorial”. Sono tanti rivoli che si dipartono dal medesimo corso d’acqua e che talvolta si incrociano per poi smarrirsi o trasmutarsi: un gioco di rifrazioni continuo che svela l’anima segreta di questo libro. L’indicibile farsi della letteratura, l’esperienza viva e sotterranea che si consuma dentro ogni scrittore.

 

Valentina Fortichiari, L’UNITÀ
– 09/09/1996

Christopher Isherwood, “Leoni e ombre”, confessione giovanile di uno scrittore poco apprezzato in Italia tra i più importanti del secolo

Ricordi del giovane leone

Autoritratto negli anni Venti tra le lezioni universitarie a Cambridge e librerie, antiquari, cinema, squash, corse notturne in auto e gite a Londra. E un amore smodato per la scrittura.

In materia di scrittura narrativa nessuna norma può stabilire a priori se sia più appropriato l’uso della prima o della terza persona. Uscire dal proprio io, scegliere una prospettiva impersonale oppure affondare in se stessi per portare alla superficie un senitre in presa diretta: tutto dipende dallo scrittore, da un solo, individuale e inconfondibile punto di vista. Christopher Isherwood (1904 – 1986), scrittore inglese tra i più importanti del Novecento (“il miglior prosatore in lingua inglese”, secondo l’amico Gore Vidal), ha trasferito in forma di scrittura il romanzo della propria esistenza. “Sono uno scrittore così essenzialmeznte autobiografico da essere del tutto incapace di manipolare un io parlante che non é per me”, ebbe a dichiarare in una lettera a John Lehmann, intorno al 1954. Se in alcuni romanzi arriva ad utilizzare persino brani di lettere e appunti di quaderni privati, per oltre mezzo secolo Isherwood ha attinto al materiale accumulato in memorie, epistolari, diari, elaborando un autoritratto coerente con le sue scelte, già nitide a partire dagli anni giovanili: scrittura e omosessualità, un binomio pubblico – privato mai completamente separato, direi quasi vincolante. quale gioia più grande a vent’anni che mettersi a scribacchiare un romanzo, sia pure per caso e saltuariamente, ma con la certezza nell’anima di volere e potere con tutte le forze diventare uno scrittore vero e la percezione a pieni sensi che in quel momento si sta giocando il proprio destino? Isherwood seguì molto presto e quasi istintivamente la volontà di vivere secondo la propria indole a la volontà di scrivere secondo una diversità che era sguardo sul mondo, intreccio di curiosità e di vergogna, conflitto interiore e sensibilità acuita dal senso di estraneità. Consapevole che ogni scrittore ha alcuni temi sui quali scrive e riscrive, fedele alla massima “lo stile é l’uomo”, si sentì in dovere di spiegare “Al lettore” del suo libro “Leoni e ombre” (pubblicato nel 1938, ma annotato a partire dal ‘23) che si trattava di una autobiografia romanzata la quale “ha per soggetto i problemi di un futuro scrittore” e dunque “riguarda anche il contegno dell’individuo”. L’io diventa qui un libro dove i personaggi reali di contorno assumono degli pseudonimi: tutto é possibile, tutto deve ancora accadere. Si vive trasognati e stupiti di ogni piccolo accadimento, proiettati in avanti senza limiti né confini, in permanente accelerazione. Soltanto dopo molti anni, indurito da una vecchiaia tuttavia vigile e mai priva di ironia, nell’ultima autobiografia, che di questa é continuazione ideale. “Christopher e il suo mondo” (uscita postuma nel 1989, ma scritta nel ‘76), l’auotre si servì della terza persona, usando il proprio nome quasi potesse staccarsi da sé e guardarsi, analizzarsi come soggetto/oggetto narrante, fingendosi paradossalmente “una persona dalla mente confusa”. In fondo anche la sua educazione negli anni Venti (come recita il sottotitolo di “Leoni e ombre”’ nell’edizione italiana a cura di Tommaso Giartosio) é un confuso oscillare tra lezioni universitarie a Cambridge a librerie, antiquari, cinema, sale da té, squash, corse notturne in auto, gite a Londra, con l’orgoglio di chi si sente molto radicale, molto giovane, molto inglese, con una fede ferrea nell’invulnerabilità della propria generazione e in uno stato di perenne esaltazione mentale. Lontano a sufficienza dalla Grande guerra ma in attesa di una Prova imminente, protetto da una stanza tutta per sé con pochi libri essenziali (Baudelaire,comprato e divorato a Parigi in una notte, Gide che, scoperto attraverso Forster, fa l’effetto di una doccia fredda, Emily Bronte e la prediletta Katerine Mansfield), un caminetto a la possibilità di evadere su una motocicletta da lanciare in corsa folle, gridando e cantando, Isherwood trova subito amici consanguinei, per i quali nutre realzioni semitelepatiche, discute di teoria del romanzo, tenta esperimenti di scrittura automatica: dapprima Edward Upward (Chalmers nel libro), poi il poeta Wystan Hugh Auden (Hugh Weston), infine Stephen Spender ( Stephen Savage). Con grazia e un certo umorismo, Isherwood si dilunga su alcuni episodi piuttosto divertenti nei quali non risparmia l’immagine di un io più che mai insicuro, inosddisfatto, disorentato, in attesa di un mondo pronto ad esplodere come una bolla di sapone. Nel 1928 l’editore Jonathan Cape accetta di pubblicare il suo libro “All the Conspirators”: l’episodio chiude una prima fase di ricerca di identità e insieme la sua autobiografia. “Leoni e ombre” (titolo tratto da un brano di Montague) é in questo senso non soltanto un libro interessante e gradevolissimo, ma anche la migliore introduzione all’intera opera di Isherwood. Da qui prenderà le mosse, come si é detto, il libro estremo “Christopher e il suo mondo”, che abbraccerà gli anni 1929 -39, la fuga a Berlino, le vicissitudini dolorose dell’amico e compagno Heinz, i viaggi con Auden, le pagine emozionanti dell’incontro con Virginia Woolf, sino alla decisione di trasferirsi negli Stati Uniti. Prprio a Virginia Woolf, sulla sorte di Isherwood, Maugham ebbe a profetizzare: “Quel giovanotto stringe in pugno il futuro del romanzo inglese”. E forse con al stessa Woolf, suo secondo editore (Hogarth Press), Isherwood divideva la cura maniacale della parola, la riscrittura tenace e inesausta, le molteplici stesure. Scrittore in Italia non abbastanza amato, ha lasciato nelle annotazioni del bellissimo diario “Ottobre” (1980; traduzione M.P. Tosti Croce, SE, 1987) una delle sue pagine più significative, insieme manifesto di poetica e testamento di consigli letterari che molti dei nostri giovani dovrebbero andarsi a leggere: “22 ottobre. Ci risiamo, sto leggendo il manoscritto di un romanzo. So già che non mi piacerà. Un’occhiata a tre quattro pagine – la prima, l’ultima e un paio di mezzo – é sufficiente a farmi capire se mi piace o no il tono in cui é raccontata la storia. Il tono narrativo per me é più importante della struttura della narrazione. (…) Credo che la grande maggioranza degli aborti e delle mostruosità letterarie siano il risultato di un fallimento pre-creativo. L’autore ha dimenticato di porre a se stesso – o a se stessa – la domanda che bisogna porsi e a cui bisogna rispondere indagando dentro di sé fino in fondo prima di scrivere “capitolo uno” in cima alla pagina iniziale: “Perché scrivo questo libro? Quale ragione mi spinge a metterlo al mondo?” Ahimé, troppo spesso la vera risposta é: “Scrivo questo libro perché voglio scrivere un libro. Qualunque libro. Punto”.

 

Giuseppe Cassieri, LA STAMPA
– 09/03/1996

 

Come diventare un vero uomo

Isherwood si confessa

Suppongo che vecchi e nuovi lettori di Isherwood non avranno difficoltà a rinverdire il giudizio espresso da Alan Wilde un quarto di secolo addietro su “Leoni e Ombre”: opera chiave di un itinerario personalissimo e insieme generazionale nella letteratura inglese tra le due guerre. Specie se si tiene d’occhio l’appassionato saggio di Tommaso Giartosio che quel ruolo eccentrico approfondisce. Si tratta di un’autobiografia dichiarata, anzi proclamata, col valore aggiunto della voce “romanzo”. Nell’intento dell’autore dovrebbe ingolosire il destinatario e preservare dal pettegolezzo poeti e narratori quali Edward Upward, Hector Wintle, Wilfred Owen, e in particolare Wysatan Hugh Auden e Stephen Spender che diventano Chalmers, Linsley, Wilfred, Hugh Weston, Stephen Savage…Espediente mimetico cjhe magari si disvela quanto più vorrebbe occultare, e comunque non altera il dato costitutivo dello scrittore: navigare a vista, muoversi a suo agio nel rappresentare l’esperienza vissuta, utilizzare la fantasia come cognizione estrema e non come trasposizione del mondo reale. Qualsivoglia tentativo di corteggiare il “romanzesco” produce suoni falsi, e lui ne é consapevole. Dopo l’insuccesso di “The World in the Evening” del 1954 si manifesta a John Lehmann per quel che é: “Così essenzialmente autobiografico da essere del tutto incapace di manipolare un io parlante che non é me”. “Leoni e Ombre” appare nel ‘38 e ripercorre il decennio 1920-’29, vale a dire l’adolescenza e la giovinezza di Christopher a Repton, a Cambridge, con le figure caricaturali degli insegnanti, le prevedibili complicità goliardiche, le velleità politiche antisistema, le velleità letterarie (manoscritti, concertati, semilavorati, bocciati: di essi un “Lions and Shadows” – “Leoni e Ombre” – che per vie sotterranee conduce al testo di cui disponiamo, nella fresca traduzione di Chiara Vetteroni) e “romanticherie omosessuali” perifrasi del tabù che angoscia Christopher: la sua “diversità”. Una successione di eventi in apparenza ordinari, governati dall’anticlimax, eppure intrisi di un oscuro malessere: la Russia di Stalin, Hitler già in pista, Mussolini che gode di una sospetta popolarità presso i ragazzi che giocano a rugby e chiamano i loro cani terrier: “Musso”. Nella trepida coscienza di Christopher pesa qualcos’altrro. Figlio di un irreprensibile ufficiale disperso nel ‘15 e di una gentildonna di saldi principi vittoriani, cresciuto in una famiglia della piccola nobiltà di campagna, si scopre, oltre che omosessuale, nemico assoluto di ideali eroici e denigratore di glorie patrie. Vergogne su vergogne che esploderanno iconoclasticamente nel periodo “berlinese” e propizieranno lo sbocco mistico-speculativo nel periodo “californiano” (conversione alla dottrina del Vedanta, militanza pacifista, leadership nel movimento gay). Ma con l’America, a suo modo redentrice, siamo al capo opposto di “Leoni e Ombre”. Che viceversa ci attrae proprio per le sue implosioni psicosessuali e ideologiche, per quell’universo claustrofobico sul punto di saltare in aria. Christopher studente modello (almeno fino a quando non irride apertamente le istituzioni e non viene allontanato dall’università), poi segretario del concertista André Mangeot, poi iscritto alla facoltà di medicina e costretto a impartire lezioni private, si arrangia come può per conciliare libertinaggio intellettuale e amori extra moenia. Fortuna che provvede lo zio Henry, anch’egli omosessuale, a fargli pervenire un regolare contributo economico; e non per nulla Henry lascerà erede della sontuosa dimora di Marple Hall proprio l’erratico parente. Troppo tardi però. Nel luglio del ‘40, allorché apprende della scomparsa del benefattore, Isherwood ha raggiunto l’America, ha voltato le spalle all’infantile sogno di ricchezza. Scrive nel diario: “Troppo tardi per invitare i miei amici a banchetto, bruciare gli arazzi fiamminghi, i letti elisabettiani e trasformare la casa in un bordello”. una rinunzia che il curatore Giartosio avverte come una perdita, immaginando quel che sarebbe venuto fuori dal cilindro dello scrittore se questi avesse osato rivarcare l’oceano. Nel saggio di Giartosio, il cui titolo é mutuato da un fumetto: “Real men don’t use metaphors” – “un vero uomo non usa metafore” – le indicazioni per scendere nei fondali di Isherwood e districarsi nelle sue infiorescenze (“colonialismo erotico, snobismo sofferto, dandismo, punta di misoginia feroce”) ci sono tutte. Ma una é imprescindibile e rimanda alle pagine di “Leoni e Ombre” là dove Christopher freme sottopelle, si torce nei suoi complessi che ruotano senza requie intorno all’omosessualità. E si chiede: riuscirò mai ad essere un vero uomo, vero e dunque forte e come tale non condannato al perpetuo depistaggio metaforico? E potrà mai un vero uomo sottrarsi a un adeguato tasso di potenza, alla durezza fisica, allo scontro diretto, e insomma alla guerra? E poiché la guerra, nel suo significato nevrotico, é sinonimo di “prova” – la prova del coraggio, della maturità, della virilità – non dovrà forse compiere una scelta radicale dentro di sé? Da qui discendono le toccanti strategie di Christopher per identificarsi nei simboli emergenti della società di massa: l’auto, la moto, il culturismo. E basta una stralcio di confessione a documentare la natura del travaglio: “Dietro la porta chiusa a chiave mi esercitavo con un estensore per i pettorali comprato dopo il calar del sole con le medesime precauzioni che avrebbe usato un assassino nell’acquistare la sua arma…”. Sarà certo una vittoria uscire dal tunnel e assumere i caratteri del “real men” e non perché sia intervenuto qualche demone misericordioso a modificare lo stato originario, ma perché Christopher lo ha finalmente riconosciuto e accettato nella sua interezza. La prova – “The test” – d’ora in avanti sarà l’ex emarginato a pretenderla, a imporla su larga scala: individui, governi, civiltà. Sono gli altri che dovranno rispondere ed eventualmente vergognarsi di mettere in competizione, nella stessa vetrina, vittima e persecutori, morale e pettorali.

 

Enzo Siciliano, L’ESPRESSO

 

A Cambridge, fra eros e arte

 

Pubblicato nel 1938, “Leoni e ombre” di Christopher Isherwood venne tradotto in italiano per la Medusa di Mondadori. Oggi ne leggiamo una nuova, ottima versione, firmata da Chiara Vatteroni e curata, annotata e commentata in modo partecipe, intelligente, da Tommaso Giartosio. Romanzo immaginoso e autobiografico, come d’altra parte ogni romanzo di questo autore, “Leoni e ombre” ha per sfondo l’università di Cambridge negli anni Venti. Isherwood, “il migliore prosatore in lingua inglese del secolo”, afferma Gore Vidal, é stato la grande promessa del romanzo anglosassone dopo E.M.Forster. Affascinantissimi i suoi romanzi “berlinesi”, e tutta la sua produzione anteguerra; discussi i libri pubblicati poi negli Stati Uniti, giudicati freddi, perché non giocati sul filo del trucco e dello svelamento, musica e materia profonda dell’Isherwood più incisivo. “Leoni e ombre” possiede ancora intatti la freschezza e l’estro di un romanzo dove la giovinezza d’artista é narrata come un’avventura in cui lo strappo d’ogni regola e il successivo, metaforico ripristino hanno valore di simbolo per un’intera generazione. Auden, Spender, Day Lewis, Upward e lo stesso Isherwood, le ritualità dei corsi universitari, il fascino del marxismo, la necessità di affermare la propria identità erotica e omosessuale contro l’educazione borghese; insomma, un bisogno sfrenato di libertà, ma anche la scoperta di una fragilità, di una debolezza d’essere da tramutare in forza interiore: questi i problemi di chi visse in Inghilterra la crisi morale che investì l’Europa fra le deu guerre. “Leoni e ombre” di tutto ciò é l’autentica, persuasiva testimonianza. Dunque, il racconto fa centro su un apprendista letterato e su un suo amico che vanno discutendo fra Londra e Cambridge un romanzo da scrivere. E’ il romanzo di una piccola città i cui abitanti capovolgono i segni dei valori consolidati e vivono per esperimento ogni tipo di infrazione alle norme, sobillati da un giovanissimo scrittore il quale ha stanato dal loro animo tutta l’aggressività possibile e lo scempio di ogni pudore. “Leoni e ombre”, romanzo di un collasso da esaurimento nervoso e collettivo, é insieme, miracolosamente, un romanzo di educazione e di scoperta di vita.

Leoni e ombre - RASSEGNA STAMPA

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