Thomas Wolfe

Storia di un romanzo

COD: a5e00132373a Categorie: , , Tag:

Collana:
Numero collana:
34
Pagine:
94
Codice ISBN:
9788881120550
Prezzo cartaceo:
€ 10,00
Codice ISBN ePub:
9788876253553
Prezzo eBook:
€ 4.99
Data pubblicazione:
01-09-1997

A cura di Igina Tattoni

Parigi, anni Trenta: un giovane scrittore americano vive un personalissimo esilio volontario per ritrovare se stesso e scrivere il suo secondo romanzo. Questo l’antefatto narrativo di Storia di un romanzo, racconto straordinario di come nasca un’opera letteraria. Thomas Wolfe dà consigli, suggerimenti, informazioni su come fare buona letteratura, portandoci all’interno del suo laboratorio di scrittura: l’ossessione che si nasconde dietro ogni pagina è insieme la paura di non farcela ma anche l’entusiasmo travolgente per una creatività che giorno dopo giorno riaffiora, nonostante il caos del mondo. Storia di un romanzo è la testimonianza memorabile di un’esperienza totale come nella migliore tradizione del Novecento, dove la letteratura torna ad essere una scommessa di passione, il più alto azzardo possibile.

«Non so ancora come scrivere un racconto e non so ancora come scrivere un romanzo. Ma ho imparato qualcosa di me stesso e del mestiere di scrivere e cercherò di dirvi cos’è».

«Ed è meglio che andare a scuola di scrittura: si entra nella mente e nel laboratorio di uno scrittore scanzonato e impulsivo».
Ermanno Krumm, «Il Corriere della Sera»

«Di sorprendente attualità, accanto ai tanti, troppi libri e manuali sulla scrittura che da qualche tempo hanno saturato il mercato».
Valentina Fortichiari, «l’Unità»

STORIA DI UN ROMANZO – RECENSIONI

 

 

Primo capitolo Storia di un romanzo

 

 

 

 

Tradurre Wolfe

 

 

 

Paolo Grieco, LA PROVINCIA
– 02/03/1999

Autobiografie. Fazi pubblica il suo “Storia di un romanzo”, racconto ambientato negli anni Trenta durante la Depressione

Thomas Wolfe le anime in crisi

 

“Di giorno scrivevo per ore sui grandi registri che avevo comprato a quello scopo; e di notte, mentre cercavo di dormire, rimanevo disteso sul letto con le mani incrociate dietro la testa a pensare a ciò che avevo fatto quel giorno: sentivo il passo fermo, foderato di cuoio, del poliziotto londinese che si avvicinava alla mia finestra e l’atmosfera tranquilla di quella di Londra. Aspettavo che se ne fosse andato e mi tornava in mente che ero nato nella Carolina del Nord e mi chiedevo cosa diavolo stessi facendo a Londra, steso su quel letto, al buio, con le mani incrociate dietro la testa, a pensare alle parole che quel giorno avevo messo sulla carta (…)”. UN INIZIO DIFFICILE CERCANDO IL NUOVO Siamo alla fine degli anni Venti. Fin dal periodo degli studi a Harvard, Thomas Wolfe coltiva il sogno di divenire uno scrittore. Così, senza un preciso motivo, va a Londra, affitta un appartamento di due stanze e si dedica accanitamente alla sua passione. Nella capitale inglese, “fumosa come una ragnatela, brulicante e calpestata da milioni di persone”, porta a termine un libro, “Look home, Angel” (Angelo, guarda il passato), accolto favorevolmente dal pubblico. La critica, però, è più prudente: indica, sì, Wolfe come una delle giovani promesse della letteratura americana, ma aspetta una seconda prova per emettere il giudizio definitivo. Lo scrittore, che intanto ha riattraversato l’oceano, è assalito allora da pensieri confusi, contraddittori. Cosa scrivere ancora? La sua prima opera gli appare “lontana ed evanescente”. Ha l’impressione di aver ingannato i lettori, si sente incerto e non riesce a catturare di nuovo nella mente, a rivivere quello che ha scritto. Ma l’artista non deve fermarsi, deve impegnarsi ancora più degli altri, non consumarsi nella rabbia, nella tensione. Così Wolfe ritorna in Europa, a Parigi, dove “persino l’aria era impregnata dell’energia dell’arte, e l’artista avrebbe potuto inventarsi una vita più fortunata e felice”, convinto che qui avrebbe potuto scrivere meglio che in qualsiasi altro luogo della terra. Non è così. In Francia avverte invece un senso di delusione. Ricorda i versi di Orazio: “Capii all’improvviso che ciò che molti di noi avevano fatto era stato di cambiare continuamente cieli nella speranza che questo mutamento avrebbe prodotto qualche magica trasformazione dello spirito, ma quello che in realtà avevano fatto per tutto il tempo in cui erano andati a Parigi o in Spagna o in Italia per lavorare, era in realtà la ricerca di un’evasione, un fuggire dal conflitto del difficile compito di scrivere, un allontanarci in qualche modo dalla povertà dei nostri spiriti, privi di forza, di coraggio e persino di consistenza”. Wolfe prova una nostalgia dolorosa, struggente per l’America. Seduto in un caffè presso l’Opera, rivede i luoghi e “sente” i sapori di casa: la ringhiera di ferro sul lungomare di Atlantic City, uno di quei vecchi ponti di ferro che scavalcano i fiumi americani, la tettoia di legno poco distante dalla sua città natale dove la gente aspetta l’autobus seduta sulle panchine, l’odore di resina, una fila di vagoni merci fermi su un binario la cui vista procura una sensazione strana ed esilarante, “simile in qualche modo a un istante di gioia, dolore e solitudine”, nel momento in cui il treno “si allontana oltre la curva in qualche arido paesaggio americano, lungo un tratto di rotaie arrugginite”. Sono immagini e sensazioni d’inestimabile valore perché “sono l’aria, la sostanza, il sangue della nostra vita”. Allora, travolto dal torrenziale flusso dei ricordi Wolfe si convince di non avere le parole adatte per dar loro una voce. Ma il libro viene terminato nel 1935. S’intitola “Of time and the river” ed è un altro successo. AUTOBIOGRAFIA NON SEMPRE CAPITA Pubblicato da Fazi (con una pregevole traduzione di Igina Tattoni, che ha curato anche l’introduzione), “Storia di un romanzo” di Thomas Wolfe è un superbo racconto autobiografico che si legge di getto, con raro piacere, e in cui il lettore è coinvolto emotivamente in ogni pagina. Lo scritto nacque dal desiderio di Wolfe di raccontare agli studenti del Boulder College come era diventato scrittore. Pubblicato in stesura ridotta (originariamente era composto di 74 pagine) dalla “Saturday Review”, uscì come libro negli Stati Uniti nel 1936 presso l’editore Scribner’s (l’edizione presentata da Fazi si fonda invece su una versione pubblicata per la prima volta in America nel 1983). Scrittore tra i più significativi della letteratura americana, anche se finora poco conosciuto in Italia, Wolfe – nato nel 1900 ad Ashville e prematuramente scomparso nel 1938 a Baltimora – ha tuttavia ricevuto alcune riserve della critica. L’accusa riguardava essenzialmente il carattere autobiografico delle sue opere, il fatto che egli non abbia scritto veri e propri romanzi, non abbia trasfigurato le proprie esperienze di vita in una genere letterario poco preciso. Per la verità – e lo sottolinea molto bene la Tattoni – Wolfe considerava la scrittura come parte della sua stessa vita, nel senso che le emozioni, le sensazioni, divenivano per lui letteratura attraverso l’uso di registri linguistici dalle varie sfumature. Wolfe ha fatto della forza della sua prosa un cavallo di battaglia e il risultato è veramente affascinante. LA DEPRESSIONE CHE UCCISE LA DIGNITA’ Basta prendere in considerazione, per rendersene conto, la descrizione che nella “Storia di un romanzo” fa della Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti: “Vidi uomini la cui vita era ridotta a un ammasso di stracci lucidi e informi, divorati dai vermi; miserabili individui che si stringevano l’un l’altro in cerca di un po’ di calore in un freddo gelido dentro stanzini senza porte, acquattati abusivamente sui sedili sudici di una pubblica latrina proprio all’ombra, al freddo riparo, di sontuosi, stupendi monumenti di ricchezza. L’impatto incredibile che il sommarsi di tutte queste immagini buie di comportamento disumano dell’uomo nei confronti del suo simile ebbe su di me, l’orrendo propagarsi senza fine di queste scene di sofferenza, la violenza, l’oppressione, la fame, il freddo, la sporcizia e la povertà rimaste inosservate, ignorate dall’indifferenza trascurata e crudele di un mondo dove i ricchi e i privilegiati continuavano a marcire nella loro ricchezza, lasciarono una cicatrice nella mia vita, un giudizio nel mio cuore che non mi abbandonerà mai più”. Una pagina molto bella, umana e commovente.

 

Claudio Galuzzi, PULP
– 10/01/1997

 

Thomas Wlfe

Storia di un romanzo

‘Storia di un romanzo’ è così affascinante ed attuale che ci si dimentica che è stato scritto negli anni trenta (1936), ad appena due anni dalla morte di questo straordinario scrittore “viscerale”. Wolfe ebbe una parabola fulminante, trentotto anni di vita che lo consacrarono uno dei migliori in tutti i sensi: sperimentatore e allo stesso tempo lavoratore instancabile su quella scrittura che non solo diventerà la sua ragione di vita, ma, in questo caso si può dire sicuramente, ‘esperienza totale’ senza la quale è inutile respirare. Sembrerebbe una visione radicale di non ritorno, un punto dalla quale è impossibile arretrare una volta imboccata la strada, e in un certo senso lo è. Wolfe soffrirà in modo tremendo di questa eccessiva comunione tra arte e vita, tanto da arrivare in alcuni momenti ad un passo dall’autodistruzione; ma sarà anche consapevole che per lui è l’unica strada possibile, l’unico modo che conosce e sa (che gli interessa!) per stare dentro la scrittura, anzi per DIVENTARE scrittura fino in fondo. E riuscirà a scrivere pagine memorabili e stupende, di una liricità fantasiosa e di una passionalità incredibili; riuscirà a fissare sulla pagina una forza linguistica che nei momenti migliori raggiunge livelli veramente altissimi. C’è un momento in cui tutto questo ha inizio. È una folgorazione che investe i sensi, l’intelligenza e il corpo nella sua totalità. “…… Queste e milioni di altre cose che tutti noi abbiamo conosciuto, che noi tutti ricordiamo, che sono l’aria, la sostanza, il sangue della nostra vita, in quel momento rinvennero nella mia mente con immagini sfolgoranti, il flusso torrenziale di un doloroso intollerabile ricordo; e improvvisamente capii con chiarezza, per la prima volta nella mia vita, che non avevo un linguaggio, non avevo parole per dar loro voce, né una lingua per raccontare la forma, la dimensione, il tono, le caratteristiche, il significato e l’emozione che quelle immagini continuano a conservarci, e quando vidi capii questo, mi resi conto che dovevo trovare un linguaggio per me, una lingua per esprimere quello che sapevo ma non potevo dire. E dal giorno e dal momento di quella scoperta si delineò chiaramente lo scopo della mia esistenza, si definì il senso vero cui avrei diretto ogni energia e talento della mia vita”. ‘Storia di un romanzo’, nato come lezione sulla scrittura, su “come nasce un libro”, può essere letto quindi come un romanzo vero e proprio. Un romanzo consapevole e filosofico che racconta la storia di un uomo e del suo rapporto con il mondo della scrittura, ma anche con il mondo nella sua totalità. E bene fa Igina Tattoni, curatrice/traduttrice del libro e studiosa profonda di Wolfe, a rimarcare nell’introduzione gli aspetti coinvolgenti ma anche non facili della scrittura wolfiana, che richiede pazienza e anche fatica, alla fine ripagate però da un enorme piacere che ci porta “a respirare un’aria diversa e a guardare il mondo con occhi più arditi”. Se molti scrittori contemporanei si ponessero anche solo la centesima parte delle questioni che hanno arrovellato Thomas Wolfe, forse avremmo opere meno mediocri, viene da pensare a lettura ultimata di questo libretto che in così poche pagine scaglia in aria questioni grosse come montagne. C’è da augurarsi che alcuni di loro trovino il tempo di leggere questa ‘lezione’ (e non parlo solo degli esordienti!): non si finisce mai di imparare, volendo.

 

Paolo Grieco, LIBERTÀ DEL LUNEDÌ

 

“Vidi uomini ridotti ad una ammasso di stracci”

La Depressione raccontata da Thomas Wolfe nella sua “Storia di un romanzo”

Di giorno scrivevo per ore sui grandi registri che avevo comprato a quello scopo; e di notte, mentre cercavo di dormire, rimanevo disteso sul letto con le mani incrociate dietro la testa a pensare a ciò che avevo fatto quel giorno: sentivo il passo fermo, foderato di cuoio, del poliziotto londinese che si avvicinava alla mia finestra e l’atmosfera tranquilla di quella piazza di Londra. Aspettavo che se ne fosse andato e mi tornava in mente che ero nato nella Carolina del Nord e mi chiedevo cosa diavolo stessi facendo a Londra, steso su quel letto, al buio, con le mani incrociate dietro la testa, a pensare alle parole che quel giorno avevo messo sulla carta…”. Siamo alla fine degli anni venti. Fin dal periodo degli studi a Harvard, Thomas Wolfe coltiva il sogno di divenire uno scrittore. Così, senza un preciso motivo, va a Londra, affitta un appartamento di due stanze e si dedica accanitamente alla sua passione. Nella capitale inglese, “fumosa come una ragnatela, brulicante e calpestata da milioni di persone”, porta a termine un libro, “Look home, Angel” (Angelo, guarda il passato), accolto favorevolmente dal pubblico. La critica, però, è più prudente: indica, sì, Wolfe come una delle giovani promesse della letteratura americana, ma aspetta una seconda prova per emettere il giudizio definitivo. Lo scrittore, che intanto ha riattraversato l’oceano, è assalito allora da pensieri confusi, contraddittori. Che cosa scrivere ancora? La sua prima opera gli appare “lontana ed evanescente”. Ha l’impressione di aver ingannato i lettori, si sente incerto e non riesce a catturare di nuovo nella mente, a rivivere, quello che ha scritto. Ma l’artista non deve fermarsi, deve impegnarsi ancora più degli altri, non consumarsi nella rabbia, nella tensione. Così Wolfe ritorna in Europa, a Parigi, dove “persino l’aria era impregnata dell’energia dell’arte, e l’artista avrebbe potuto inventarsi una vita più fortunata e felice”, convinto che qui avrebbe potuto scrivere meglio che in qualsiasi altro luogo della terra. Non è così. In Francia avverte invece un senso di delusione. Ricorda i versi di Orazio: “Capii all’improvviso che ciò che molti di noi avevano fatto era stato di cambiare continuamente cieli nella speranza che questo mutamento avrebbe prodotto qualche magica trasformazione dello spirito, ma quello che in realtà avevano fatto per tutto il tempo in cui erano andati a Parigi o in Spagna o in Italia per lavorare, era in realtà la ricerca di un’evasione, un fuggire dal conflitto del difficile compito di scrivere, un allontanarci in qualche modo dalla povertà dei nostri spiriti, privi di forza, di coraggio e persino di consistenza”. Wolfe prova una nostalgia dolorosa, struggente per l’America. Seduto in un caffè presso l’Opera, rivede i luoghi e “sente” i sapori di casa: la ringhiera di ferro sul lungomare di Atlantic City, uno di quei vecchi ponti di ferro che scavalcano i fiumi americani, la tettoia di legno poco distante dalla sua città natale dove la gente aspetta l’autobus seduta sulle panchine, l’odore di resina, una fila di vagoni merci fermi su un binario la cui vista procura una sensazione strana ed esilarante, “simile in qualche modo a un istante di gioia, dolore e solitudine”, nel momento in cui il treno “si allontana oltre la curva in qualche arido paesaggio americano, lungo un tratto di rotaie arrugginite”. Sono immagini e sensazioni d’inestimabile valore perché “sono l’aria, la sostanza, il sangue della nostra vita”. Allora, travolto dal torrenziale flusso dei ricordi, Wolfe si convince di non avere le parole adatte per dar loro una voce. Ma il libro viene terminato nel 1935. S’intitola “Of time and the river” ed è un altro successo. Pubblicato da Fazi (con una pregevole traduzione di Igina Tattoni, che ha curato anche l’introduzione), “Storia di un romanzo” di Thomas Wolfe è un superbo racconto autobiografico che si legge di getto, con raro piacere, e in cui il lettore è coinvolto emotivamente in ogni pagina. Lo scritto nacque dal desiderio di Wolfe di raccontare agli studenti del Boulder College come era diventato scrittore. Pubblicato in stesura ridotta (originariamente era composto da 74 pagine) dalla Satura Review, uscì come libro negli Stati Uniti nel 1936 presso l’editore Scribner’s (l’edizione presentata da Fazi si fonda invece su una versione pubblicata per la prima volta in america nel 1983). Scrittore tra i più significativi della letteratura americana, anche se finora poco conosciuto in Italia, Wolfe – nato nel 1900 ad Ashville e prematuramente scomparso nel 1938 a Baltimora – ha tuttavia ricevuto alcune riserve dalla critica. L’accusa riguardava essenzialmente il carattere autobiografico delle sue opere, il fatto che egli non abbia scritto veri e propri romanzi, non abbia trasfigurato le proprie esperienze di vita in un genere letterario preciso. Per la verità – e lo sottolinea molto bene la Tattoni – Wolfe considerava la scrittura come parte della sua stessa vita, nel senso che le emozioni, le sensazioni, divenivano per lui letteratura attraverso l’uso di registri linguistici dalle varie sfumature. Wolfe ha fatto della forza della sua prosa un cavallo di battaglia, ha puntato sul valore delle parole e il risultato è veramente affascinante. Basta prendere in considerazione, per rendersene conto, la descrizione che nella “Storia di un romanzo” fa della Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti: “Vidi uomini la cui vita era ridotta a un ammasso di stracci lucidi e informi, divorati dai vermi; miserabili individui che si stringevano l’un l’altro in cerca di un po’ di calore in un freddo gelido dentro stanzini senza porte, acquattati abusivamente sui sedili sudici di una pubblica latrina proprio all’ombra, al freddo riparo, di sontuosi, stupendi monumenti di ricchezza… L’impatto incredibile che il sommarsi di tutte queste immagini buie di comportamento disumano dell’uomo nei confronti del suo simile ebbe su di me, l’orrendo propagarsi senza fine di queste scene di sofferenza, la violenza, l’oppressione, la fame, il freddo, la sporcizia e la povertà rimaste inosservate, ignorate dall’indifferenza trascurata e crudele di un mondo dove i ricchi e i privilegiati continuavano a marcire nella loro ricchezza, lasciarono una cicatrice nella mia vita, un giudizio nel mio cuore che non mi abbandonerà mai più”. Una pagina molto bella, umana e commovente, che illumina l’idea che Wolfe aveva elaborato della vita che diviene letteratura. La forza espressiva, il messaggio di “Storia di un romanzo” sta proprio nel parallelo tra la fatica, la paura, i timori, le piccole gioie dello scrittore e i dolori, le illusioni, il disincanto della nostra stessa esistenza.

 

Giancarlo Baroni, GAZZETTA DI PARMA

In “Storia di un romanzo” Thomas Wolfe (1900-1938) racconta il proprio lavoro di narratore

Scrivere? Sudore e sacrificio

 

Thomas Wolfe, morto a soli trentotto anni nel 1938, che pubblicò in vita due imponenti romanzi sui quali la critica statunitense si interroga e si divide, ma da noi ancora poco conosciuti, con “The story of a novel” (“Storia di un romanzo”, a cura di Igina Tattoni, Fazi editore) apre a noi curiosi lettori il proprio laboratorio di scrittore e la propria esistenza personale, esistenza in cui lo scrivere e il creare occupano comunque una posizione centrale se non esclusiva. In “Storia di un romanzo”, Wolfe parla della tormentata, travagliata stesura del suo secondo libro, “Il fiume del tempo”, che lo tenne completamente impegnato per cinque, interminabili anni e che venne finalmente stampato nel 1935. “Vi racconterò-dice-…il modo in cui ho scritto il libro. Sarà una storia intensa e personale perché è scaturita dalla sostanza stessa della mia vita. Scrivere è stato per diversi anni l’aspetto essenziale, il più coinvolgente della mia vita e mi è costato lo sforzo, la fatica, l’incertezza e la sofferenza più forte che io abbia mai conosciuto. Non c’è niente di letterario nel mio racconto. E’ una storia di sudore, di tormento, di disperazione, con un risultato solo parziale”. Nonostante queste premesse infuocate, e nonostante uno stile tendenzialmente esuberante, torrenziale, disordinato e ridondante, “Storia di un romanzo” conserva però un tono garbato, discreto, colloquiale e discorsivo che ci fa apprezzare e gustare maggiormente la passione, la tensione e la sincerità che lo pervadono. Colloquialità determinata sia dal fatto che il libro nasce come conversazione con un gruppo di studenti di un college sia dalla modestia e dall’umiltà dell’autore, che non vuole affatto esporre delle verità valide per tutti, bensì testimoniare la propria esperienza sperando possa servire a qualcuno. Dentro a questo libretto di appena novanta pagine, dalla forma narrativa anziché saggistica, principalmente racconto ma inevitabilmente un po’ diario, autobiografia e quaderno di appunti, troviamo una moltitudine di informazioni riguardanti la letteratura e l’arte di scrivere. “Storia di un romanzo” contiene ed esprime però soprattutto la convinzione che scrivere sia un’attività particolarmente seria, la quale richiede dedizione, sforzo, coinvolgimento e tensione emotiva e intellettuale a volte insopportabili. L’autore paragona di frequente la scrittura a un fuoco, a un vulcano e a una scultura, similitudini poco originali però capaci di raffigurare l’ansia e la fatica provate da ogni artista mentre crea e compone: “Lavoravo con foga per giorni e settimane fino a rimanere paralizzato dalla stanchezza e a esaurire tutta la mia energia creativa”. In “Una cronaca personale”, l’ex marinaio Joseph Conrad giurava d’altronde che scrivere è “una fatica fisica quale nessuna quantità ordinaria di fatica fisica assai pesante potrebbe spiegare. Piegato quasi in due sotto i bagli di ponte di una nave, ho portato sulla schiena sacchi di grano, dalle sette del mattino fino alle sei di sera… dunque dovrei ben saperlo”. Il parere che il lavoro artistico sia un impegno talmente serio e gravoso da poter diventare una specie di ossessione e di malattia, nasce inoltre in Wolfe dalla considerazione alta ma assolutamente non elitaria della letteratura, vista come un’indagine ed un’esplorazione dentro sé e nel mondo e come un’impresa difficile e complessa.

 

Michele de Mieri, TUTTOLIBRI
– 01/08/1998

 

Il Consiglio

 

“Storia di un romanzo” (Fazi, pp. 91, L. 20.000) è un testo che restituisce appieno pregi e difetti di quel talento della letteratura americana che fu, a cavallo tra gli Anni Venti e Trenta, Thomas Wolfe. “L’autore di Angelo, guarda il passato” – il suo folgorante esordio – è qui alle prese con un’operazione tipicamente americana, soprattutto per allora; infatti “Storia di un romanzo” è la trascrizione fedele di una conferenza tenuta da Wolfe agli studenti del Boulder College nel 1935 sul tema “Stesura di un libro”. Ma anche se non mancano le indicazioni, i suggerimenti per un primo embrione di quella che sarà poi la scrittura creativa di tanti corsi universitari americani, il testo ha lontano dai discorsi di metodo i suoi motivi di interesse più rilevanti. “Storia di un romanzo” è innanzi tutto la storia del farsi di un romanzo americano. Convinto assertore dell’identità tra letteratura e vita, Thomas Wolfe vuole rappresentare l’America dell’uomo medio, di quel lavoratore – che non si rifugia, come gli eroi d Hemingway e di Fitzgerald, nel giardino dorato ora europeo ora africano – a cui egli si apparenta come scrittore. L’hopperiano romanzo di cui Wolfe racconta l’impervio cammino è un catalogo minuzioso dell’uomo americano, dello spazio, della luce, dei fiumi, degli oggetti americani; Wolfe cerca l’essenza dell’America, il suo spirito, la sua lingua che, dice lui, nessuno ha mai parlato ma che tutti hanno nel cuore. Anche Wolfe come tanti latri scrittori americani di quell’epoca viene in Europa ma, a differenza della “generazione perduta”, lui usa i caffè, le stanze di Londra, di Parigi, non per dimenticare ma per meglio ricordare le americanissime pensiline alle fermate degli autobus, i treni, i mestieri; i dialoghi tra la gente della sua amata America. E così se il Paese è piegato dalle conseguenze della crisi del ’29, Wolfe si sente ancora più vicino ad esso perché anche lui sta soffrendo per il romanzo che tarda a farsi. Il romanzo (Of Time and the River) che alla fine lo scrittore riesce a scrivere e a pubblicare sarà forse meno interessante di questa storia che ne racconta il travagliato percorso (e questo è uno dei difetti di Wolfe) e la prematura morte, all’età di trentotto anni, non permetteranno a Thomas Wolfe di continuare a cercare la sua America.

 

Monica Schirru, LA NUOVA

E’ la storia di un romanzo in un racconto autobiografico dello scrittore Thomas Wolfe

Lezioni di scrittura direttamente dall’America

 

Se avete intenzione di iscrivervi a scuola di scrittura (o affidarvi ad un manuale che vi riveli come diventare scrittori) è proprio il caso di leggere un buon libro pubblicato dalla casa editrice romana Fazi, scritto da Thomas Wolfe e intitolato ‘Storia di un romanzo’. Schiettamente autobiografico, è il racconto semplice di come nasce un’opera letteraria, e riprende la versione integrale di un discorso che l’autore ha tenuto per un gruppo di studenti del Boudler College (pubblicato per la prima volta in America nel 1983). Invitando il lettore ad entrare nel suo laboratorio di scrittura, Thomas Wolfe dà consigli, suggerimenti e informazioni su come fare buona letteratura. Molti gli aspetti e i problemi considerati e sviscerati: anzitutto il tema dell’autobiografismo: ogni romanzo vitale e autentico che riesca ad emozionare chi legge, deve attingere direttamente alle percezioni e alle sensazioni di chi scrive (…’la mia memoria è caratterizzata in misura più che ordinaria dall’intensità delle sue impressioni sensoriali, dalla sua capacità di evocare e di riportare in vita odori, suoni colori, forme e sensazioni con concreta vividezza’), alla quotidianità, all’esperienza di vita di ogni giorno. Altro aspetto importante su cui l’autore si sofferma ampiamente è la descrizione della raccolta di “materiale grezzo” su cui poter lavorare, (‘gran numero di note, frammenti, stralci di dialoghi e di personaggi che raccoglievo in grandi registri (…) grafici, cataloghi e brani descrittivi di metropoli, persone, città stati e paesi che avevo conosciuto bene’), omettendo qualunque sforzo compositivo o di ricerca di uno schema formale del romanzo, che possa contemplare una trama, una narrazione ordinata o un disegno prestabilito (questo avviene spontaneamente, in modo lento e graduale). Molto bella la definizione dello scrittore come artigiano della parola, come uomo che lavora sulla pagina, (creatura stanca, sudata, affaticata, imperfetta), lontanissima dalla mozione di artista quale soggetto raffinato pieno di elaborate nozioni critiche ed estetiche.

 

Ermanno Krumm, CORRIERE DELLA SERA
– 12/10/1997

Ispirazione. I meccanismi mentali alla base del romanzo descritti da Thomas Wolfe

Si scrive per dimenticare: parola dell’autore

 

In che modo si diventa scrittori? E come si compone un libro? Il soggetto inesauribile e ora riproposto da Fazi: Thomas Wolfe, “Storia di un romanzo”: Quest’autore (da non confondere con Tom Wolfe e neppure con i molti Wolf) racconta davanti a un gruppo di studenti le illusioni, le aspettative e le vicende che accompagnano la nascita di “Angelo guarda il passato” (’29) e “Del tempo e del fiume” (’35). Si tratta della versione originale di quella “Storia di un romanzo” (’36) che uscì ridotta, 40 anni fa, nella biblioteca delle Silerchie di Giacomo Debenedetti. Ed è meglio che andare a scuola di scrittura: si entra nella mente e nel laboratorio di uno scrittore scanzonato e impulsivo, “folgorato dalla grande illusione”. Se ne seguono i viaggi, le scoperte e le ossessioni, soprattutto. Come si scrive? Per dimenticare: è questa la prima scoperta. La verità è che ci vuole un’energia infinita per inseguire sulla pagina impressione improvvise e minuziose, che non si riesce mai a circoscrivere. Non bastano centinaia di pagine per descrivere una ringhiera di ferro. Alla fine Thomas Wolfe ne accumula più di 1500: un enorme libro, con mille entrate e uscite, un romanzo allo stato brado, imbizzarrito.

 

Alessandro Iovinelli, AVVENIMENTI

 

Scrivo, dunque esisto

 

Di Thomas Wolfe, lo scrittore a-mericano nato nel 1900 e morto a soli 38 anni, sappiamo in Italia ancora troppo poco. D’altra parte, la sua opera è di tali dimensioni che la potremo leggere tradotta solo allorché ne sarà riconosciuto il valore anche da noi. Intanto possiamo apprezzare (fra l’altro, in edizione integrale)questo testo del 1936: una conferenza da lui tenuta agli studenti del Boulder College su come nasce un romanzo. In realtà, il discorso di Wolfe non ha nulla di manualistico né precettistica. La sua è una sorta di confessione autobiografica, che ne svela il cammino attraverso la letteratura: “Ogni lavoro creativo è autobiografico”. Wolfe racconta la scoperta della vocazione, i primi tentativi di scrittura, la dimensione particolare della vita dello scrittore, il lavoro sulla pagina, la revisione, l’edizione e la stampa. Sincerità e ingenuità procedono di pari passo – ma proprio per questo la sua esperienza assume una valenza universale, diviene cioè l’esperienza della scrittura in sé. In altre parole, ci sono passaggi che Wolfe dice di sé stesso, ma che chiunque abbia scritto può intendere a pieno. Per esempio, quando dice: “Scrissi con quel fuoco divorante e luminoso con cui scrive un giovane che non ha mai pubblicato ma pensa a tutto sarà magnifico”. Oppure: “Scrivevo a volte senza speranza, senza credere che sarei mai arrivato in fondo e con dentro niente tranne una cupa disperazione, tuttavia scrivevo di continuo e non riuscivo a smettere”. Oppure ancora: “Si scrive non per ricordare ma per dimenticare”. E, infine, a proposito degli editori: “E’ facile ammirare l’abilità e la severa precisione di un chirurgo ma a nessuno piace vedere gente compiere gesti insensati con n coltello in mano”. Insomma la ‘Storia di un romanzo’ è la storia di uno scrittore, anzi dello scrittore. Qualcuno per il quale scrivere – a torto o a ragione – è più della vita, anzi è “una forza creativa che è in noi, che ci sostiene e ci arricchisce”, ma che è “anche capace di distruggerci come una lebbra se la lasciamo marcire”.

 

LA STAMPA
– 10/02/1997

Wolfe

Fare un romanzo nella Parigi Anni Trenta

 

Lo scrittore, dopo ‘Angelo, guarda il passato’, insegue nella Parigi Anni Trenta il filo secondo romanzo. Via via, a dispiegarsi, è un racconto autobiografico: “Ho imparato qualcosa di me stesso – confesserà – e del mestiere di scrivere e cercherò di dirvi cos’è”. Consigli, informazioni, suggerimenti: il laboratorio di un’opera letteraria. A cura di Iginia Tattoni.

 

Enzo Siciliano, L’ESPRESSO

Il Saggio

Confessione d’autore

 

Chi si trova a leggere molti manoscritti di narrativa sa che nella maggior parte dei casi ha per le mani pagine e pagine piene di una sola idea: l’idea di chi è convinto che raccontare si ala cosa più semplice del mondo, che basti cioè allineare fatti frase per frase, i più incredibili o anche i più corsivi, e che tanto basti. La necessità di raccontare qualcosa, la necessità per cui non si possa far altro, è un sentimento che nasce da un difficile confronto con se stessi, che si elabora attraverso un travagli pieno di rischi, e che passa anche per il varco di crisi violentissime. Con “Storia di un romanzo” Thomas Wolfe ha scritto un saggio in forma di racconto autobiografico sulla difficoltà di cui ho detto. Questo saggio non ha nulla di dottrinario, ha il suono e i colori di un’ardua confessione, però raramente si può leggere qualcosa di più aderente a una realtà di fatto. Wolfe, il romanziere di “Angelo, guarda il passato”, un libro tra i più significativi della letteratura crisi d’impotenza creativa. Andò a Parigi, come molti scrittori della sua generazione (era nato nel 1900 e morì nel 1938), e la riuscì a liberarsi dall’afasia che l’aveva aggredito. Raccontò con limpidezza la propria esperienza, e il suo libretto ha l’umiltà delle riflessioni filosofiche più vere. Wolfe lascia che le conclusioni nascano dai fatti raccontati. “Non sono uno scrittore professionista; sono semplicemente uno scrittore che sta imparando il mestiere e cercando la linea, la struttura e l’articolazione del linguaggio che debbo trovare se voglio fare il lavoro che voglio”. Il problema non è soltanto tecnico. È necessario trasformare il vissuto in una lingua “che tutti abbiano sperimentato nel cuore, che non può essere più a lungo dimenticata o rifiutata, e che ancora non ha trovato espressione”.

 

Tommaso Giartosio, IL MANIFESTO

 

Una diga per il New Deal

Cronaca di un apprendistato interiore segnato dal violento bisogno di scrivere. L’America della grande depressione descritta da Thomas Wolfe

Quando gli chiesero una classifica degli scrittori americani della sua generazione, Faulkner disse: “Abbiamo tutti fallito. Ma il fallimento di Wolfe è stato il migliore, perché lui ha avuto più coraggio rischiando di peccare di cattivo gusto, goffaggine, leziosità, noia”. La risposta aveva una sua funzione strategica. A Hemingway, l’unico vivente (si era nel ’47) che potesse davvero stargli alla pari, Faulkner assegnava il terzo posto; concedendo la vittoria a un autore che già poco dopo la morte appariva sopravvalutato. Però in fondo il verdetto coglieva nel segno. La grandezza di Thomas Wolfe (1900-1938) non sta tanto nella sua opera (molto disuguale) quanto nella persona e nel progetto letterario: un progetto così ambizioso che al confronto i quattro giganteschi romanzi autobiografici di Wolfe scompaiono, come quattro elenchi telefonici dimenticati sugli scaffali della Biblioteca Nazionale Centrale. Di quest’uomo e del suo sogno Igina Tattoni ha presentato con passione un resoconto breve e affascinante, la Storia di un romanzo. Si tratta di una conferenza. Ho calcolato, orologio alla mano, che ci vorrebbero tre ore per pronunciarla: siamo a livelli da Fidel Castro. Wolfe la lesse (in forma abbreviata, spero) nel ’35, poco dopo la pubblicazione del seguito della sua opera d’esordio (nota in Italia come Angelo, guarda il passato). La Storia di un romanzo racconta dunque l’intervallo infernale che per molti scrittori separa il primo libro pubblicato dal secondo. C’è in Wolfe una schiettezza, uno slancio giovanile che rende affascinante e preziosa questa cronaca di un apprendistato tutto interiore, in cui non si cita mai un altro scrittore ma si parla solo del proprio violento bisogno di scrivere, e dell’altrettanto violenta paura; dei sogni di gloria, del tentativo di rimandare all’infinito la pubblicazione con la scusa di revisioni sempre più affannose e immotivate; del senso di nudità che accompagna l’uscita del libro; del momento in cui pensi che in fondo non si scrive per ricordare (per ricordare si legge), ma per dimenticare; dell’ingombro del tuo libro reso pubblico, che continua ad aggirarsi nei dintorni come un fantasma; del bisogno di partire, vedere altro, ma solo per voltarti da lontano verso un punto d’origine tradito, e scrivere scrivere scrivere di quel punto: dell’America… Ecco, questo periodo prolungato e traballante l’ho scritto alla Wolfe: tanto profonda è la simpatia che suscita la sua voce narrante, ancora più limpida (avevi ragione, maligno Faulkner!) se qualche volta appare retorica o maldestra. Perciò viene spontaneo di chiamare Wolfe con il nome di battesimo, con quella bella confidenza che purtroppo ci si concede quasi solo parlando di “letteratura al femminile”. E allora Wolfe sia Thomas, come “la Cvetaeva” è Marina, e “la Dickinson” Emily; che se lo meritano. Thomas dunque parla dell’America; compone anche lui, come tanti connazionali (all’appello: Whitman Pound Williams Crane Zukofsky Kerouac…) la sua versione del Grande Poema Cosmologico Americano. Gli Stati uniti sono una casa-frontiera che recede e si espande quanto più ti avvicini. Per renderne conto in un’opera d’arte occorrono strumenti nuovi. Non le caute, raffinate tecniche europee, con la loro “fertilità tenue e controllata”, ma qualcosa di rozzo, laborioso; verificato sul terreno, dunque autobiografico; ma al tempo stesso inedito, inaudito… In fondo non è un (sud-)americano anche l’Ireneo Funes di Borges? Così Thomas compila immense liste. Tutti i dettagli, completi di colore peso e qualità, di un vagone ferroviario. Tutte le persone conosciute, incontrate, sfiorate per la strada. Tutte le città percorse, con grafici e dati e cifre. Tutte le stanze in cui egli ha vissuto, il mobilio, la carta da parati, “il modo in cui pendeva l’asciugamano”. Tutte le emozioni… Poi le intreccia e mischia in descrizioni a tappeto, ovviamente fiorite di particolari: epifanie joyceane, se vogliamo, solo che per lui tutto è epifanico. Poi costruisce episodi. Come quello, bellissimo, in cui una donna scende dalla motocicletta del marito per una commissione di cinque minuti in casa della madre, ma incontra due parenti e si addentra in una conversazione di quattro ore e duecento pagine. “Analizzavano minuziosamente la vita, i ricordi, le avventure e i sogni di quasi tutte le persone del paese”. Tremendo, prolisso. Ma intanto – è questo il tocco geniale – c’è il marito di fuori, a cavalcioni della moto, che di tanto in tanto dà una strombazzata di claxon, e lei si affaccia e gli grida ogni volta: “Va bene, va bene, cinque minuti e sono da te”. Qui, nella strada polverosa, nel ritmo acre e meccanico del claxon tra le voci delle donne che tessono il loro piccolo mondo, l’astratta poetica dell’inesauribile diventa motivata, diventa poesia. In un certo senso, a questo punto non importa leggere l’episodio in sé: ma sapere che esiste, che è stato ideato così – è fondamentale. Sprofondato nell’America della grande depressione, Thomas la descrive con energia sovrumana e un po’ disumana. Innalza da solo, foglia a foglia e nome per nome, una diga del New Deal. Sospettiamo che sia pazzo. Certo che è pazzo: Storia di un romanzo racconta questa follia, il sogno di un libro che comprenda tutta la vita. E’ un sogno tipicamente americano, ma è anche una verità: non si può scrivere senza giocarsi tutta la vita a ogni lettera, senza venire posseduti dal libro che si scrive. Di notte non riesce a dormire. La sua insonnia popolata di “incubi sfarzosi”, la sua megalomania e insicurezza (il non essere mai sicuro di aver detto abbastanza, e poi la profetica del suo lavoro (parola che il libro ripete come una preghiera), possiedono una radicalità che ci riguarda. Lui pensa ancora, come da ragazzo, che non si scriva per produrre libri ma per essere Longfellow o Lord Byron. E questo è un bel pasticcio adolescenziale, una solitudine eroica e sbagliata, la porta d’ingresso a tutto il peggio della nostra mitologia letteraria… ma anche a quel senso del coinvolgimento reale e personale nella scrittura, che è il meglio della nostra eredità romantica. Così un bel giorno il manoscritto è pronto. Allora entra in scena, a bilanciare la vocazione totalizzante del poeta moderno, una figura che dev’essere più o meno coeva: l’editor. In fondo possiede una statura altrettanto epica, questo Maxwell Perkins. Thomas non lo nomina mai, ma si chiamava così; lavorava per la Scribner, intratteneva rapporti con grandi scrittori espatriati come Hemingway, ma certamente la più grossa gatta da pelare se la trovò lì a New York. Thomas gli sbatte sulla scrivania “un milione di parole”, più o meno cinquemila pagine, presentate come una piccola parte di un progetto più ampio che abbraccia 150 anni di storia americana e oltre duemila personaggi “di ogni razza e classe”. Maxwell gli cita il primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra; e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso…”. La creazione era una prima stesura. Dio ha bisogno di un editor. Si mettono al lavoro. E qui la Storia di un romanzo acquista un retrogusto di commedia. Thomas è schietto ma non ingenuo: sa di essere uno scrittore torrenziale, ha anche l’ironia a sfondo serio di dare al suo romanzo-fiume il titolo Del tempo e del fiume. “Organizza” il materiale semplicemente aggiungendo guglie e campate, e si considera incapace di praticare tagli. Maxwell gli insegnerà a farlo. A saltare prologhi e parentesi. A togliere “tanti bei passi a cui mi ero affezionato”. Ma l’autore stesso non può non rimanere di stucco quando il curatore, vero medico o levatrice, sottrae interi capitoli; o lo “informa” che il suo libro è finito; o addirittura lo dà alle stampe senza avvertirlo. Indoviniamo l’esasperazione di questo signor Perkins, la sua infinita pazienza. Non possiamo fare a meno di immaginarlo piccolo, ordinato, calvo; ci viene voglia di sapere come lui racconterebbe la storia di questo romanzo; ci viene voglia di sapere cosa ne avrebbe fatto, di questa coppia straordinaria, un Nabokov. Ma tutto questo ci giunge nella voce di Thomas, grato, cocciuto e imbarazzato, egotista e tutto sfumature. E’ lui a giustificare ampiamente il fluviale autobiografismo dell’autore. E’ lui, il più bel personaggio di Thomas Wolfe.

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