Léo Malet

La vita è uno schifo

COD: 1afa34a7f984 Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
55
Pagine:
183
Codice ISBN:
9788881121366
Prezzo cartaceo:
€ 12,00
Data pubblicazione:
01-04-2000

A cura di Luigi Bernardi

Pubblicato originariamente alla fine degli anni Quaranta e poi riunito nella Trilogie noire nel 1969 La vita è uno schifo è considerato il romanzo capostipite del noir francese. Un gruppo di anarco-comunisti intendono sostenere, con furti e rapine, il proprio progetto rivoluzionario. Ma il limite tra ideologia politica e terrorismo sarà presto drammaticamente superato. Il giovane protagonista, Jean Fraiger, perdutamente innamorato di una donna bellissima e sfuggente, si ritrova a condurre da solo una spietata lotta contro il mondo fino al tragico e struggente epilogo. La concezione surrealista dell’amour fou, la dimensione onirica del piacere e del dolore prendono vita, con straordinaria forza espressiva, nelle pagine centrali del romanzo. Duro, romantico e violento, La vita è uno schifo rappresenta uno dei vertici assoluti del noir novecentesco.

«Malet è un maestro del genere “nero”… La vita è uno schifo è probabilmente il suo capolavoro».
Corrado Augias, «la Repubblica»

LA VITA È UNO SCHIFO – RECENSIONI

 

Di Angelo Ascoli, IL GIORNALE
– 23/05/2002

 

Le donne, i quartieri e gli assassini nella Parigi di Léo Malet

 

 

Chi sia George Simenon e il commissario Maigret, lo sappiamo tutti. Chi sia Léo Malet, l’abbiamo cominciato ad imparare un paio di anni fa, quando l’editore Fazi ricordò agli italiani che in Francia, nel novecento, era vissuto un vero scrittore, uno di quelli che scriveva romanzi noir, ma siccome per i critici europei il romanzo noir è sempre stato considerato di serie B, almeno fino a quando i critici americani non hanno dettato il contrordine, allora non era tanto facile conoscere Malet e trovare i suoi libri. Nel marzo del 2002 Fazi pubblicò La Vita è uno schifo, e fu come se un pugno avesse colpito lo stomaco debole dei lettori italiani: qualcuno fece il nome di Camus, altri si limitarono a dire che era un capolavoro, i lettori si accontentarono di scoprire un grande scrittore e un vero romanzo. Nel marzo dello scorso anno fu la volta di Il Sole non è per noi, un altro romanzo che è così bello da leggere e che sembra scritto in maniera così semplice come solo i grandi sano fare. Come Simenon per esempio. E proprio come Simenon, Malet, tra un romanzo e un altro in cui raccontava i meccanismi delle azioni umane , le tenebre da cui nascono i piccoli e grandi delitti, gli spruzzi di sole che li illuminano, anche se per una volta, li rendono per sempre splendenti, si divertiva a scrivere e incassare soldi inventando un fratello minore del commisario Maigret, un po’ più sbruffone e molto più disperato: Nestor Burma, detective proprietario dell’agenzia di investigazioni private Fiat Lux. “Con la pipa in bocca, le mani infilate nelle tasche della mia canadese foderata di pelliccia e i piedi calzati dalla comoda suola molto spessa” Nestor Burma si aggira per le strade di Parigi come un lupo solitario; come ogni detective che si rispetti, come i suoi cugini americani, a Burma i guai capitano addosso sempre per caso e sempre portati dalle gambe lunghe e dal respiro affannoso di qualche bella donna e mentre cerca di evitarli deve stare attento a non pestare i piedi e a non farsi pestare le ossa dalla polizia, nella persona del commissari Florimond Faroux. Prendiamo Nebbia sul ponte di Tolbiac (pag. 159, euro 8,50) e Febbre al Marais (pagg. 174, euro 8,50) i primi due dei quindici “misteri di Parigi” che adesso Fazi pubblica per la prima volta in Italia (ogni romanzo è dedicato ad un arrondissement parigino, andando a comporre una geografia umana e sociale della città che pochi scrittori moderni hanno saputo inventare). Nel primo c’è, naturalmente, un delitto e un assassino da scoprire. Un vecchio calzolaio anarchico e solitario, viene ucciso ma prima di morire riesce ad avvertire Burma. Naturalmente l’investigatore scoprirà l’assassino del vecchio anarchico, così come in Febbre del Marais troverà la mano che ha pugnalato l’usuraio Jules Cabirol.
Ed è chiaro che lo farà solo dopo aver amato donne che hanno “la gonna di feltro, animata dal dolce e armonioso movimento delle anche (…) la sua voce dal timbro voluttuoso, un po’ rauco, aveva un tono stanco, melanconico. Nelle pupille castano scure striate da pagliuzze dorate si leggeva una tristezza infinita, se non un accenno di paura”. E le donne di Nestor Burma ci sembra di averle incontrate in tanti film francesi e americani degli anni quaranta e cinquanta, così come abbiamo già fissato negli occhi di Burma tutte le volte che qualche cattivo esagera a far le sue porcherie e qualche debole non ce la fa più a sopportarle

 

Costanza Falanga, ROMA
– 09/09/2000

 

La vita è uno schifo

 

Pubblicato per la prima volta agli inizi degli anni Quaranta e poi riunito nella cosiddetta “Trilogia nera” nel 1969, “La vita è uno schifo” è considerato il romanzo capostipite del cosiddetto noir francese. É la storia di un gruppo di anarchici che attraverso furti e rapine intende finanziare il proprio progetto rivoluzionario, superando presto il limite tra ideologia politica e terrorismo fine a se stesso. Il protagonista della storia è un giovane che si è innamorato perdutamente di una donna bellissima, che tuttavia non fa altro che sfuggirgli, e finirà in un amaro epilogo la sua vita mentre prosegue ciecamente la sua battaglia rabbiosa contro il mondo. Leo Malet, insieme a George Simenon, è il maggiore rappresentante del romanzo poliziesco francese e questo suo romanzo, di straordinaria modernità, anticipa di decenni il filone cui ha poi attinto Quentin Tarantino.

 

UNIVERSITÀ & LAVORO
– 06/01/2000

 

Un’estate in “noir sotto l’ombrellone con Carlo Lucarelli e i suoi fratelli

Sul mercato una valanga di titoli e collane dedicate al genere “nero”

Il trend di quest’estate narrativa sembra volgere al…nero: sono sempre più numerose, infatti, le case editrici che propongono titoli, o collane specifiche, dedicate al “noir”: un genere che si differenzia dai classici gialli o dai polizieschi proprio per i contorni di trame e ambientazioni nere dove l’unico lieto fine è…finire il libro. Tra le ultimissime uscite “nere” da segnalare su tutti quello che viene considerato il romanzo capostipite del genere: “La vita è uno schifo” di Lèo Malet appena pubblicato da Fazi Editore (pp. 183, L. 24.000). Scritto sul finire degli Anni Quaranta “La vita è uno schifo” colpisce per la straordinaria attualità di una scrittura che sembra non aver risentito del tempo. Grazie ad un ritmo narrativo serrato e dialoghi sorprendentemente veloci, “La vita è uno schifo” è un romanzo che fa rivivere tutte quelle emozioni che solo lo schermo della pagina riesce a trasmettere. Non a caso l’introduzione di questo romanzo capolavoro di Malet è affidata a Luigi Bernardi, uno dei massimi esperti italiani del genere “nero”.

 

Giuseppe Montesano, IL DIARIO DELLA SETTIMANA

Il Nichilismo colorato di Noir

I fiori (domestici) del male

Da Simenon a Malet, fino a Manchette, nella letteratura francese cambia l’idea del crimine; non è più l’eccezione, ma la regola. I protagonisti, però, sono quasi sempre eroi maledetti e romantici.

Nella notte della modernità in cui tutte le merci sono buone, e dove le tavole dei valori sono state sostituite dalle tabelle del plusvalore, il crimine non è più l’eccezione ma la regola: è forse questa la scoperta che rende i personaggi di certi romanzi – per esempio Gli intrusi di Georges Simenon (Adelphi), “La vita è uno schifo” di Léo Malet (Fazi) e Nada di Jean-Patrick Manchette (Einaudi), appena usciti – così disperatamente nichilisti. Dove la società stessa è organizzata in modo ipocritamente criminoso, la legge è al servizio di una borghesia pacificata solo se i suoi affari vanno bene e la Storia sembra essersi fermata come un orologio guasto, la cosiddetta normalità può anche essere una mascherata. É l’ossessione di Simenon, variata ma ripetuta in infinite storie: dietro la patina di perbenismo e di ordine fasullo che addormenta la provincia francese sta acquattato l’ignoto, l’altro. Nel romanzo di Simenon gli sconosciuti del titolo originale – Les inconnus dans la maison – sono la figlia stessa del protagonista e la sua banda di amici che giocano a fare i criminali, costringendo il padre avvocato e ubriacone ad aprire gli occhi su una realtà estranea e a mettersi dalla parte dei ribelli contro i veri criminali, i borghesi piccoli e grandi accecati dal benessere e decrepiti come le loro regole. Ma nove anni dopo, nel 19448, l’eroe del romanzo di Malet ha trasformato la sorniona ironia simenoniana in un grottesco dichiarato. I massacri che riempiono “La vita è uno schifo” sono esagerati non solo per epater i lettori, ma anche perché il grande delitto pubblico della guerra ha fatto impallidire i delitti privati, e il massacro su scala industriale giustifica in qualche modo il singolo che ammazza per necessità. l’eroe solitario di Malet debutta come terrorista e rapinatore che uccide per finanziare le lotte operaie, ma si rivela ben presto per un déreglé assoluto, un affamato di passioni che riesce a esprimersi solo con la pistola in pugno. Nel fare di Jean Fraiger un caso freudiano da manuale, Malet rovescia le regole del noir nel momento stesso in cui le rispetta. Come nei romanzi che Raymond Queneau scriveva sotto pseudonimo celebrando e parodiando la moda hard-boiled dei duri dal cuore tenero, in La vie est déguelasse circola un’atmosfera addirittura comica, tra l’Anthologie de l’humour noir e i giochini del cadavere exquis presi alla lettera. Le risate ghignati da cui è scosso Jean Fraiger potrebbero essere quelle di un cartone animato scritto a quattro mani da Max Ernst e Dashiell Hammett, e il suo inconscio sembra l’archetipo beffardo degli inconsci di tutti i serial-killer a venire che uccideranno per mancanza d’amore. UNA FEROCE IRONIA. Nel 1972 questa comicità, in Malet ancora a tratti involontaria, diventa in Jean-Patrick Manchette un’ironia feroce e consapevole in cui se si ride è ormai solo con il sale sulle ferite. In Nada il sentimentalismo cinico che affligge quasi sempre noir e polizieschi è sostituito dalla ribellione a tutti i costi contro il “capitalismo tecnoburocratico”, e da un romanticismo insieme amato e ridicolizzato. Già all’inizio dell’epoca industriale il “licantropo” Pétrus Borel aveva scritto che nel 1832 a Parigi c’erano due covi: “Quello dei ladri è la Borsa, quello degli assassini è il Palazzo di Giustizia”, dichiarando di avere bisogno di “una somma enorme di libertà” che la civiltà non gli permetteva: è la stessa libertà smisurata che cercano invano i randagi anarchici di Manchette, persi in una machine infernale dove alla fine non ci possono essere né vinti né vincitori. Nel mondo di Nada il sistema legale dello Stato è terroristico quanto chi lo combatte; nessuna rivolta sociale è possibile perché la vera rivoluzione l’hanno fatta i media e il denaro; e la tragedia della modernità è che gli oppressi si muovono in fondo nello stesso ordine di idee degli oppressori. Gli eroi di Manchette a un certo punto si battono per il puro gusto di battersi, senza più alcuno scopo sensato, perdendo di vista la disprezzata realtà: e Manchette li smaschera, parodiando il loro nichilismo disperato nel singhiozzare satirico di una scrittura febbrile e jazzata, in cui le idee di Bene e Male hanno smarrito la loro stabilità, si scambiano di continuo le parti e costringono il lettore a modificare in profondità il punto di vista. Con Manchette e gli altri i luoghi comuni del genere smettono di essere comodi segnali di orientamento: il lettore deve perdersi anche lui come i protagonisti nei labirinti metropolitani in cerca di fuga, deve bagnarsi sotto la stessa pioggia che cade sui loro impermeabili lerci, ed è imprigionato anche lui nelle ville fatiscenti o negli appartamenti miserabili di una banlieue perpetua. Perché chi sono veramente i mostri? Come un Ensor in pantofole Simenon li svela dietro le giacche impeccabili e le cravatte discrete dei borghesi, Malet li scopre sotto ogni repressione della civiltà e Manchette li denuncia nel nascondiglio delle istituzioni “democratiche”. Simili in questo ai loro predecessori del “romanticismo nero” – scrittori ai margini come Lewis di The Monk o il Mathurin di Melmoth – alcuni autori di genere hanno trascritto nel proprio sismografo lacerazioni e sussulti sfuggiti a molta letteratura “alta”, fissando nel desiderio di fuga che sferza i loro eroi l’immagine di una società ipnotizzata dalla claustrofobia. I Malet e i Manchette sembrano aver preso in parola l’invito di Adorno: “Solo l’esagerazione è vera”, e sotto la loro lente deformante la superficie liscia e compatta della normalità si è svelata incrinata dalla violenza e devastata da rapporti umani impazziti. Ma a quanti scrittori ora che i generi stanno passando dalla colt al cult sarà concessa la possibilità, che in Nada è ancora riservata a chi ha rifiutato lo stupefacente del ribellismo maudit, di “raccontare la storia breve e completa”, di cosa sta succedendo nel buio del presente? I viaggiatori al termine di questa interminabile notte dovranno perdere ancora molte certezze e balocchi, per poter provare a raccontare davvero la realtà.

 

Sandro Caroli, IL GIORNALE DI VICENZA

 

Il surrealista che inventò il noir psicologico

 

Da sempre il giallo francese viene identificato con le indagini del commissario Maigret, così magistralmente descritte da Georges Simenon in decine di romanzi. Ma in realtà l’universo del noir, come i francesi indicano il genere poliziesco, è quanto mai sfaccettato. Altri ottimi autori d’oltralpe, infatti, benché non abbiano raggiunto la popolarità commerciale di Simenon – che peraltro era belga di nascita -, hanno arricchito questo filone con decine di personaggi originali. Uno di questi è Frédéric Dard, scrittore e giallista morto quasi ottantenne all’inizio di giugno. Dard è stato un autore quanto mai prolifico (ha scritto almeno trecento libri e venduto 290 milioni di copie) ed è essenzialmente ricordato come l’ideatore di Sanantonio, un commissario parigino un po’ sboccato, molto spaccone, pronto a sparare e conquistare le belle ragazze, protagonista di una lunghissima saga (anche televisiva) che per qualche tempo è stata popolare anche in Italia, malgrado la difficoltà di rendere nella nostra lingua i giochi di parole, le freddure, i calembours, le invenzioni che costellano i suoi romanzi. Altrettanto importante, ma su un piano decisamente più serio, è Lèo Malet, nato a Montpellier nel 1909 e morto quattro anni fa dopo aver attraversato, spesso navigando controcorrente, tutto il Novecento. In Francia è considerato fra gli intellettuali più originali che prima della seconda guerra mondiale orbitavano intorno al surrealismo e ad Andrè Breton; ma anche l’ispiratore di quella sorta di nouvelle vague del romanzo poliziesco sviluppatasi negli anni Settanta, con autori tutt’altro che marginali, da Didier Daeninchx a Jean-Patrick manchette. tra i molti romanzi che Malet ha scritto, spiccano quelli dedicati alle indagini di Nestor Burma e la “trilogia nera”, aperta da “La vita è uno schifo”. Apparso in Francia sul finire degli anni Quaranta, questo libro fu pubblicato nel 1992 in Italia nella collana “Metro libri” della Granata Press, curata da Luigi Bernardi, il quale ora ha tradotto e riproposto lo stesso romanzo per l’editore Fazi di Roma (185 pagine). La vicenda è ambientata nell’immediato dopoguerra e ruota intorno alle imprese criminali di un gruppo di anarco-comunisti che con furti e rapine cercano di raccogliere i mezzi per realizzare il loro antico sogno rivoluzionario. Ma ben presto l’ideologia perde i suoi contorni e il protagonista della vicenda, innamorato di una donna bellissima quanto sfuggente, si troverà a combattere una solitaria e disperata battaglia contro il mondo in un clima di follia e nichilismo. Quando, alla fine del 1969, l’editore francese Eric Losfeld raccolse in un unico volume, con copertina di René Magritte, l’intera “trilogia nera”, Leo Malet aveva alle sue spalle una trentina di romanzi con Nestor Burma e un passato di poeta, cantautore, anarchico e di romanziere che si richiamava alla scuola dei duri americani. Molti di quei libri erano stati firmati con pseudonimi ad hoc da Leo Latimer a Franck Harding, perché i francesi volevano leggere storie americana, senza sospettare che gli autori (lo stesso sarebbe accaduto a lungo anche in Italia) erano francesi come loro. Luigi Bernardi – editore negli anni Ottanta di interessanti iniziative nel mondo dei fumetti e da sempre tra i maggiori esperti dei noir francese, e non solo – ha il merito di aver importato in Italia questo autore, che adesso vuole far conoscere ulteriormente proponendo, nei prossimi mesi, sempre per la casa editrice Fazi, gli altri due romanzi della trilogia. “Con “La vita è uno schifo” – mi dice – viene superato il romanzo poliziesco tradizionale, spalancando la porta a scritture e temi differenti. e’ la nascita del noir, che non ha nulla a che vedere con l’hardboiled school americana, perché il noir autentico è un romanzo psicologico intorno alla figura della vittima, che racconta, o fa raccontare, la sua caduta verso il punto di non ritorno. Nel romanzo poliziesco il male è un accidente, nel noir invece è una presenza costante, e mentre il primo propone visioni sostanzialmente rassicuranti o consolatorie, il noir è sempre eversivo”. Lo è soprattutto in questo caso, con protagonisti anarchici, terroristi e comunisti che nell’infuocata atmosfera post-bellica giocano a fare i Robin Hood metropolitani, armi in pugno, razziando i richhi e gli sfruttatori per donare ai poveri. In questo e in altri romanzi di Malet, come nel noir in genere, non c’è lieto fine. “L’unico lieto fine possibile – mi dice ancora Bernardi – è quando la vittima si ribella e attraverso una serie di atti “contro la legge” riesce a salvarsi e magari a dettare le regole di un nuovo disegno. In questo senso, il noir è figlio del surrealismo: viviamo nell’epoca del male, si diceva allora, e solo un male più forte può contrastarlo, modificandone i connotati”. Un taglio diverso hanno invece le storie di Nestor Burma, un detective che opera in un clima da “scuola dei duri” trasferita a Parigi e dintorni, quasi la caricatura degli nvestigatori privati americani: non è un “duro”, non ha un fisico “bestiale”, preferisce far lavorare il cervello piuttosto che le mani, ha una segretaria, Hèlène, che lo adora, e molte belle clienti che s’invaghiscono di lui. ma il dovere prima di tutto, e così Nestor Burma svilge le sue indagini con serietà e ostinazione. anche in questi romanzi meno impegnati (pubblicati in Italia nel “Giallo Mondadori”) Malet riesce sempre a inserire “una critica sociale implicita, una veritiera e aspra visione del quotidiano, un Humour i cui sarcasmi dissimulano una certa tenerezza”, come ha scritto Francis Lacassin in un saggio pubblicato in Francia e dedicato interamente a Nestor Burma. Il quale è il protagonista anche di vari film e di alcuni fumetti, disegnati da Tardi, che hanno trasferito in originali immagini il tipico mondo di questo investigatore dal nome apparentemente esotico, quasi un omaggio alla lontana Birmania.

 

Michele Mari, CORRIERE DELLA SERA

 

Léo Malet, piccolo miracolo del “noir”

 

“Ho letto tutti i suoi libri, insieme agli unici leggibili in questo periodo: quelli di Rex Stout e di Simenon, quando racconta le avventure di Maigret…”: chi scrisse queste parole a Léo Malet nel 1956 non era un lettore qualsiasi, ma René Magritte. Il nome non è casuale, perché negli anni ‘30 Malet era stato molto vicino ai surrealisti e in particolare a Breton; e proprio Magritte, nel 1969, avrebbe illustrato la copertina di quella “Trilogie noir” che conservava Malet come maestro del “noir” francese, recuperando un aspetto della sua produzione messo in ombra dal grande successo nel genere del “giallo” ( protagonista di una trentina di romanzi, in Francia in suo “Nestor Burma” è secondo in popolarità solo a Maigret). “La vita è uno schifo”( La vie est dégueulasse, 1948) è il romanzo che apre la “Trilogie”, e leggendolo si può capire perchè nel 1969 sia tanto piaciuto allo stesso editore, Eric Losfeld, che in quel periodo stava ripubblicando i romanzi “maledetti” di Boris Vian. Infatti, per quanto Malet si fosse formato alla scuola del giallo americano “hard-boiled” ( tirocinio coperto da diversi pseudonimi, il più noto dei quali è Leo Latimer), il suo “noir” non ha nulla del romanzo d’azione, bordeggiando piuttosto le regioni oscure della patologia psichica e conformandosi al modello della tragedia classica. Fatti di sangue non mancano: ma sono appena sfiorati al narratore, che li riduce a sintomi o a epifenomeni di un “male oscuro” (la vocazione autodistruttiva del protagonista) ortodossalmente descritto ma non certo illuminato dall’anamnesi con cui il libro si chiude. Meno morboso di Lord Jim e meno contorto di Raskolnikov, Jean Fraiger ha con il mondo un rapporto di ingordigia infantile che a me ha ricordato da vicino Ben-Ami, e forse la grandezza di Malet sta proprio in questo: aver creato e “tenuto” una perfetta atmosfera da “noir” ( con esiti superati solo da James Cain) senza ricorrere ad alcuno stereotipo del “noir”: cosa che, per una letteratura “di genere”, è un miracolo.

 

Massimo Carlotto, LA PROVINCIA

Galleggiando. “La vita è uno schifo” e “Nada” dimostrano la vitalità di un genere in continua evoluzione

Sela rivolta contro il sistema si tinge di noir

Pistole, amori disperati e anarchici temerari in due splendidi romanzi di Malet e Manchette

“La vita è uno schifo” di Léo Malet e “Nada” di Jean Patrick Manchette hanno così tanti punti in comune che recensirli insieme è un atto dovuto. Oltre ad essere usciti quasi contemporaneamente, entrambi sono di autori francesi, entrambi appartengono al genere noir e affrontano lo stesso tema: la rivolta contro il sistema “La vita è uno schifo” (Fazi, 183 pagine, 24 mila lire) venne pubblicato in Francia alla fine degli anni Quaranta ma il vero successo lo ottenne quando il coraggioso editore Eric Losfeld lo inserì nella “Trilogie Noir” di Malet nel 1969. Considerato il capostipite del roman noir francese, narra la storia di Jean Fraigier e del suo gruppetto di anarchici, dediti alle rapini e alla lotta disperata contro tutto e tutti, che li condurrà a un tragico destino. L’autore, classe 1907, noto per aver creato il personaggio di Nestor Burma, l’investigatore protagonista di oltre trenta avventure, riunisce in questo grande romanzo la scrittura del poliziesco, l’anarchismo della gioventù e l’adesione al surrealismo. Quest’ultimo si ritrova soprattutto nella concezione dell’amore – l’amour fou – che emerge nelle pagine centrali del libro quando Jean Fraigier smarrisce il senno infatuato della bella Gloria. Il gruppo di rapinatori si ritrova a che fare con un ordine identificato con il male e per abbatterlo è necessario un male maggiore. Ovviamente il finale non è affatto consolatorio, come nella migliore tradizione del noir. Identico finale per “Nada” (Einaudi) di Manchette. Il titolo è il nome del gruppetto di anarco-comunisti che un bel giorno decide di sequestrare l’ambasciatore degli Stati Uniti in Francia. Ognuno dei partecipanti aderisce al progetto criminoso per motivazioni diverse ma in fondo c’è l’impossibilità di riuscire a vivere in questa società. La rivolta, inteso come atto estremo e suicida, è l’unico modo per dare senso all’esistenza. ma nel noir non ci sono né buoni, né cattivi, come non esiste il bianco e il nero ma tutto ha la tonalità grigia delle ombre. E i rapitori, in confronto ai giochi di potere da loro scatenati, sono in fondo dei disperati bonaccioni. Ministri e servizi segreti sfruttano il rapimento per un regolamento di conti interno e i terroristi vengono sterminati senza pietà per non lasciare testimoni di trame occulte. Il finale a sorpresa dimostra l’intuizione di Manchette nel futuro del potere dei media. Pubblicato nel 1972, l’anno seguente diventa un film diretto da Claude Chabrol, distribuito in Italia con il titolo “Sterminate Gruppo Zero”. Nel panorama noir, Manchette (1942-1995) è ricordato per aver rivoluzionato il genere in un momento in cui stava attraversando una grave crisi. Influenzato dalla scuola americana, con lui il noir conobbe nuova vita diventando critica sociale, una forma letteraria che, attraverso il racconto di vicende criminose, cerca di fornire un ritratto della società in un certo luogo e in un certo momento. Il poliziesco si eleva così a genere morale, la grande letteratura morale della nostra epoca, come sostengono oggi i critici. Il modello manchettiano infatti è quello di tutti gli autori impegnati nella nuova letteratura poliziesca. Il delitto è un mezzo per raccontare altro, dal disagio delle nostre città, alla grande criminalità, alla corruzione nel mondo della politica e della finanza. “la vita è uno schifo” e “Nada” andrebbero letti di seguito e in quest’ordine. Jean Fraigier e Buenaventura Diaz, i loro compagni, le loro pistole e gli amori disperati fanno parte di un unico grande disegno in continua evoluzione: il noir. Gradita sorpresa le deliziose lettere spedite da René Magritte a Leo Malet e pubblicate tra le appendici che arricchiscono questa edizione.

 

Walter Mauro, IL TEMPO
– 07/09/2000

Il poliziesco sotto analisi e due maestri a confronto: buonismo o spietatezza?

Simenon e Malet il noir letterario vince perfino Rex

Rassicurante il primo, impietoso il secondo, questi autori si fronteggiano in libreria con gialli fitti di suspence, ora disperata, ora languida e tenue

Il Festival del poliziesco di Cattolica, chiusosi da qualche giorno, non ha davvero risposto a una serie di domande che nel corso delle proiezioni e dei dibattiti venivano poste in termini forse un po’ troppo perentori: insomma, era più “noir” il tenente Sheridan, interpretato dal memorabile Ubaldo Lay o quel commissario Rex che sfila sui nostri video di oggi, cane poliziotto in grado di risolvere tutto ammazzando il colpevole, ma dopo averci ragionato sopra con umana lucidità? Se si ama il gioco delle contrapposizioni, basta andare in libreria e sottoporre a un preciso identikit due piccoli capolavori, dovuti, manco a dirlo, a due maestri del poliziesco occidentale, franco-belga per intenderci. Di George Simenon dunque, che non ha bisogno di presentazione, Adelphi pubblica un romanzo del 1941, “Gli intrusi”, un gioiello della narrazione noir, che André Gide promosse entusiasta con una cartolina dell’8 luglio 191, in cui diceva: “Ho da poco finito di leggere il suo stupefacente romanzo. Da tempo non mi accadeva di essere così vivamente interessato. Stupendo”. Una gran bella promozione. Sempre da qualche giorno in libreria, anche il “noir” di Léo Malet, allievo di Simenon, ma sul fronte opposto, quello dell’anarchia e del disordine, dei bassifondi e della realtà urbana sordida e crudele, quello che al tranquillo modello di Maigret contrapponeva le durissime vicende raccontate da Chandler o da Hammer. “La vita è uno schifo” edito da Fazi, è titolo che non lascia dubbi sull’ambiente che circonda i personaggi perduti e disperati di Malet, la cui scrittura impietosa e senza scampo riflette una condizione umana e durissima e deprivata di ogni speranza di riscatto: nasce l’uomo a fatica e vive disperato fino alla liberazione della morte: così potrebbe riassumersi la vita del protagonista, Jean Fraiger, violento e al contempo paradossalmente generoso per una sorta di losca solidarietà con quelli della sua risma: sicché i confini fra il bene e il male vengono saltati drammaticamente , mentre i colpi che il disadattato mette a segno risultano sensazionali proprio nella misura in cui la overdose di follia sopravanza ogni razionalità, anche quella del delitto. Qualcuno un po’ avanti con gli anni ricorderà un film di Henry Decoin, “Gioventù traviata” nella memorabile interpretazione di Raimu nel ruolo del protagonista Loursat: nessuno meglio del grande attore francese poteva interpretare la figura di questo struggente eroe di Simenon, figura centrale de “Gli intrusi”, romanzo del 1941 ora da noir in libreria, costruito dal maestro del giallo – quello che non aveva alcun modello e riuscì così a fondere noir e opera letteraria di grande pregio – con ingredienti molto semplici: un protagonista assoluto, molto emblematico, Hector Loursat de Saint Marc, avvocato trentottenne tradito e abbandonato, autoreclusosi in un vecchio palazzo con la figlia Nicole, trafitto da vino e sigarette che si risveglia solo davanti all’ “ingiustizia della giustizia”.

 

LA CRONACA DI MANTOVA
– 05/12/2000

Leo Malet

Una cruenta battaglia

 

Pubblicato una prima volta nel secondo dopoguerra, “La vita è uno schifo” di Leo Malet è considerato fra i capostipiti del romanzo noir francese. Una consacrazione attesa vent’anni, quando l’editore Eric Losfeld lo riscopre e lo inserisce ne “La trilogia nera”. Merita due parole, Losfeld. Inseguito dai tribunali e dalla censura, mandava avanti, tra mille difficoltà, una casa editrice, La Terrain Vague, sorta di cenacolo anarchico e post-surrealista dove, come scrive Luigi Bernardi nella prefazione, “si riunivano tutti coloro che, per un motivo o un altro, condividevano l’entusiasmo di promuovere culture marginali contemporanee.”. “La vita è uno schifo” arriva oggi nelle librerie italiane grazie a Fazi. Narra di un gruppo d’individui d’idee anarco-comuniste che, per portare avanti i propri progetti rivoluzionari, si dà alle rapine. Il fossato tra terrorismo e ideologia si riduce sempre di più. Il protagonista, già impegnato a combattere una battaglia sentimentale con una donna bellissima e sfuggente, si trova in mezzo a un’altra battaglia, più cruenta e drammatica. Malet, noto anche qui per aver cantato le gesta dell’ispettore Nestor Bruma, è considerato, in patria, alla stregua di Simenon. Leggendo questo libro se ne ha la conferma.

 

Giancarlo De Cataldo, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO

Letteratura di stagione. La prevalenza di un “genere”.

Estate, impazza il “noir” di Male in meglio

Da Herling a Malet, da Genet a Lucarelli… Ecco perché il disagio e il dolore scandiscono le nostre letture

“Siamo di fronte a un’invasione del Male di proporzioni eccezionali, di cui è impossibile non accorgersi. Esso si diffonde ogni giorno di più nel mondo in cui viviamo (…). Il Male è un soggetto inafferrabile, insondabile: perciò mi attira come scrittore”. Si può non essere d’accordo con Gustaw Herling quando, nella sua “Conversazione sul Male”, con un’analisi indubbiamente riduttiva, identifica nel Comunismo “la madre di tutti i mali” del Novecento (l’autore polacco e credente, sperimentò di persona la repressione staliniana), ma non si può dissentire dall’altra affermazione: che il Male sia un mistero insondabile e che, di conseguenza, più che spiegarlo, lo si debba prima individuare, poi sperimentare e, infine, raccontare. Dove il teologo o lo scienziato non riescono a penetrare, insomma, meglio affidarsi all’intuizione poetica dell’artista. Largo, dunque, a scrittori, pittori, registi e narratori che fanno i conti con il Male e ne catturano i diabolici frammenti: non solo e non tanto essi ci regalano opere più o meno dense di fascino e di vigore artistico, ma, soprattutto, ci costringono a fronteggiare quel lato oscuro presente in tutti noi che fece parlare il filosofo cattolico Gabriel Marcel di “uomini contro l’umano”. lato oscuro che la società dello spettacolo e il pragmatismo mercantile, con la pretesa di relegare l’individuo a mero fattore produttivo, tendono sciaguratamente a rimuovere. Salvo poi a inorridire davanti al serial-killer di turno o ai lanciatori di sassi dai cavalcavia. Che, d’altronde, quella di “raccontare il male” sia la tendenza culturale egemone negli ultimi anni lo dimostra la straordinaria diffusione, in tutto l’Occidente, di un genere letterario, il noir, un tempo minoritario e snobbato dai critici. Attenzione: il noir e non il giallo: perché, come ha scritto un critico acuto, Luigi Bernardi, il giallo è il genere del ricompattamento dell’ordine sociale ferito dal crimine, mentre nel noir non c’è nessun ordine da ricompattare perché tutto è già andato a rotoli. Per iniziare un percorso estivo di lettura negli stimolanti territori del Male, si può partire da “Il giovane criminale” di Jean Genet. Genet, figlio di nessuno, ladro, vagabondo, salvato dalla galera da Cocteau, innalzato alla gloria da Sartre, scrisse questo testo su commissione della radio di Stato francese, quando già era un drammatico di fama mondiale. In poche pagine tremende, incandescenti, il maturo uomo di successo rievoca il suo passato deviante, l’esperienza del Male, con parole di fuoco per gli ipocriti professionisti del pietismo rieducativo. La via d’uscita, dunque, è rigorosamente individuale, e passa per la solitudine e il riscatto. E qui l’ateo ribelle Genet è in singolare sintonia con il piissimo Herling. Inutile dire che, dopo aver letto il testo, i responsabili della radio si rifiutarono di mandarlo in onda. Restiamo in Francia con “La vita è uno schifo” di Lèo Malet. Anarchico, surrealista, combattente nella Resistenza , Malet è, nel suo Paese, più popolare di Simenon. Merito delle avventure dell’investigatore privato Nestor Burma, un “duro” divertente e autoironico protagonista anche di una fortunata serie televisiva. “La vita è uno schifo” appartiene invece al versante “maledetto” di Malet. Il protagonista è un ribelle senza causa che dalle rapine “politiche” passa all’omicidio fino a se stesso, divorato da un mal di vivere che nemmeno il più cruento bagno di sangue potrà sodisfare. La lingua ricca e densa di squarci lirici e un finale assolutamente avveniristico (per un romanzo degli anni ‘40) ne fanno un capolavoro imperdibile.

 

IL FOGLIO
– 06/03/2000

 

Léo Malet “La vita è uno schifo”

 

Jean Fraiger ripete in continuazione che la vita è uno schifo. Ogni occasione è buona per farlo sbraitare. Jean Fraiger a quattro anni è rimasto orfano di padre e madre. Potrebbe vivere tranquillamente con il nonno. Insieme formerebbero un amabile quadretto bucolico nell’amabile campagna francese. E, invece, a quindici anni, decide di andare in città, fino alla capitale. Si accontenta di lavori faticosi e miseri, guadagnando poco e vivendo male. Se la vita è uno schifo, tanto vale che sia veramente così. Ma Jean è un nichilista puro e duro. E uno a cui i guai rimbalzano addosso. Entra in contatto con un’organizzazione terroristica e pianifica e realizza una rapina, con altri tre compari, per finanziare uno sciopero di minatori. Il colpo riesce, fin troppo. A Jean e Paul il gobbo non bastano i soldi. Uccidere è un po’ come scopare. La Colt è un po’ come il pene in erezione. Jean e Paul assaltano il furgone che trasporta soldi, mentre Marcel fa il palo e tiene a bada l’autista, e Albert aspetta in macchina. Jean e Paul spalancano le porte posteriori del furgone e scatenano l’inferno contro i due uomini a guardia del denaro: un morto e un ferito grave. Non solo. Ma uno dei quattro banditi-terroristi, Marcel, rimane, a sua volta ferito. Forse si può salvare, forse no. Jean che odia Marcel per la sua bellezza e le sue avventure erotiche non ci pensa più di tanto e per non farlo soffrire gli pratica un’eutanasia forzata a colpi di piombo. Insomma, un altro omicidio. La storia è ancora lunga e avvincente. Ed è arrivato il momento di dire che Jean Fraiger è il protagonista di “La vita è uno schifo” scritto nei primissimi anni Quaranta da un giovane Léo Malet, famoso per aver inventato il personaggio di Nestor Burma, e considerato Oltralpe l’antiGeorges Simenon per eccellenza. “La vita è uno schifo” è un noir all’ennesima potenza. Utile a capire le differenze che esistono fra giallo, poliziesco d’azione, thriller e compagnia cantando, come spiega Luigi Bernardi nell’introduzione. Malet è un “mostro” del noir contemporaneo e sembra incredibile che un romanzo del genere abbia visto la luce già negli anni Quaranta (peraltro un’altra opera fu stampata ma mai distribuita per il fallimento della casa editrice). La trama è poi sostenuta da uno stile narrativo che non perde mai il ritmo, a cominciare dalle prime righe dell’incipit straordinarie per efficacia descrittiva: “Superate le ciminiere che sputavano un fetido fumo nero, toccai il braccio nudo di Albert per fargli capire che stavamo arrivando” (Jean è l’io narrativo). Ma Malet non si limita solo a dettare linee che saranno seguite o copiate in seguito da altri autori (questo romanzo può essere benissimo considerato anche l’antesignano del pulp, dal punto di vista della violenza cinica e fine a se stessa), ma dosa con notevole maestria altri ingredienti presi a prestito dalle sue esperienze di vita: la frequentazione dei circoli anarchici e l’amicizia con André Breton, il maestro del Surrealismo. Così si scopre che sullo sfondo di tutte le azioni e i pensieri “maledetti” del protagonista si nasconde una rassegnazione disperata del genere amour fou surrealista. Jean è attratto sin da ragazzo da Gloria. Ma non è mai riuscito a dichiararsi. Si rinchiude progressivamente in un labirinto di pazzia. La via d’uscita una soltanto: la morte. Jean desidera Gloria alla follia. La insegue come insegue poliziotti inermi per bucargli la testa. Gloria è una donna bella che si accontenta della sua vita piccolo-borghese con un marito geloso che forse lei tradisce (Malet lo dice e non lo dice). Jean possiede Gloria nei suoi deliri onirici e ogni volta si sveglia sconvolto: meglio la pistola del pene. Ma è il caso di non dire più niente per non guastare la sorpresa.

 

Erica Arosio, GIOIA

 

Il cuore nero del surrealismo

 

Ha il cuore nero Léo Malet. Come Jean, anarchico e ribelle, che rapina e uccide per un ideale e si riduce ben presto a farlo solo per disperazione, perché “la vita è uno schifo”. Emulo delle gesta della banda Bonnot, coltiva nel cuore un “amour fou”: quello per Gloria, la donna che mai potrà avere. Scrittore amato da André Bréton e Magritte, vicino ai surrealisti, a buona ragione considerato uno dei capofila del noir francese.

 

LA STAMPA -TUTTOLIBRI
– 07/01/2000

 

Léo Malet, l’anarchico del poliziesco che non ammetteva il lieto fine

 

TI amo. Non abbiamo a disposizione che queste parole, che sono state usate e strausate e che sono state pronunciate da labbra impure e grondanti di menzogne…». Non sono le sospiranti frasi di un romanzo sentimentale e struggente, ma una breve parentesi, inattesa e malinconica, tra le pagine di un duro romanzo noir francese scritto da un capostipite del genere. Léo Malet, nato nei primi anni del Novecento, scrisse La vita è uno schifo nel 1949 nell’ambito della «Trilogie noire», quando già aveva lanciato il suo detective anarchico Nestor Burma in contrapposizione frontale al quieto e analitico Maigret di Simenon. La scrittura è secca, impietosa, l’atmosfera dominante è notturna, l’umore dei protagonisti disperato, il pallore dei loro volti è quello di Boris Vian. Come ricorda Luigi Bernardi nell’introduzione, in quegli anni gli autori francesi di genere cercarono di mantenere il contatto con i lettori nonostante il divieto di tradurre opere americane e si ispirarono alle tendenze oltre oceano trasferendo ed evocando le trame della «scuola dei duri» (tra tutti Chandler e Hammett). Si può discutere di assonanze e difformità, come fa Fabio Giovannini ( Storia del noir , Castelvecchi), ma la rottura con il consolidato romanzo poliziesco, cioè per intenderci con il giallo, è compiuta. Il «noir» è privo di regole e la narrazione non risponde a strutture vincolanti, il suo è un mondo in cui bene-male, legale-illegale non sono nettamente distinguibili. I protagonisti dei suoi romanzi non si sottraggono a tale disegno ed attraversano l’ordine violato dal delitto senza speranza di ricomporlo; confusi da maledizione e disordine, riconoscono solo i riti della famiglia surrealista. E’ uno sradicato anche l’attore principale di questo romanzo, figura smarrita e vittima di una società colpevole, che lentamente ma inesorabilmente scivola in basso, nel fumo nero e inebriante dell’illegalità. Jean Fraiger, il quale usa la violenza efferata non per arricchirsi ma per aiutare gli altri, sa che anche questa variante è inutile: il destino non lascia scampo e con il destino non si vince. Ed allora si dibatte sempre più ribelle e disorientato, dominato dalla disperazione di chi ha perduto ogni punto di riferimento, salvo il male. I colpi messi a segno sono sensazionali e sfrontati alla maniera di Bonnot, e utili soltanto a creare un effimero compiacimento alimentato dalla lettura dei giornali del giorno dopo che ne descrivono i dettagli più sanguinolenti. Ma il rotolare non ha tregua: si elimina il compagno Marcel, ferito e di impaccio, si uccide Gisele di cui il triste e gobbo Paul, componente della squadra, si era invaghito, si finisce col piombo il marito dell’amata Gloria. Chi si oppone lungo la strada viene abbattuto, per poter correre verso il baratro che si avvicina. L’amor fou che emerge nelle pagine centrali del romanzo potrebbe far intuire il sorgere della speranza in un’esistenza che è solo disperata: e Jean lo coltiva, verso Gloria, con le sue parole calde, come quando spiega che non fa la corte ma «io dico ti amo… è una verità… c’è il sole, la terra, la luna, le stelle e io ti amo… constatare la presenza non è corteggiamento». Tutto inutile, anche amare è un sintomo della disperazione, e rappresenta soltanto l’ultimo tentativo di resistere al fallimento esistenziale, di fuggire da quelle turbe profonde che lo squassano e che il dottor Claps, dal quale si è recato per amore di Gloria, non può cancellare. Quel dottore svela i misteri interiori dopo averne raccolto gli indizi, quasi fosse un «detective» dell’anima, ma tutto è inutile. L’amore con la sua donna è fatto solo di squarci, di sussulti, ma non è eterno e questa incompletezza prima o dopo si manifesta. Se l’amore è folle e quindi ingovernabile, se anche i sentimenti non guariscono dalle ferite dello sradicamento sociale, non rimane che la fuga solitaria, irreversibile. E’ l’abdicazione nei confronti del male che governa, non c’è lieto fine perché finisce con la sconfitta, o la ribellione. Non c’è lieto fine perché «la vita è uno schifo». Non c’è lieto fine «perché il colore che ci circonda è il nero».

 

Felice Piemontese, L’UNITÀ
– 06/12/2000

 

L’anarchico in noir

Una nuova traduzione per “La vita è uno schifo” di Léo Malet, terrorista, surrealista e geniale scrittore do polizieschi nella Francia degli anni ‘40

Fa un certo effetto, devo dire, vedere con quanto zelo volenterosi recensori “scoprono” oggi un autore che altri avevano scoperto dieci o vent’anni fa. Ma è sempre la solita storia del mercato e di quella sorta di maledizione dei piccoli editori, che giocano d’anticipo, “lanciano” autori in cui credono… e poi falliscono. L’autore di cui parlo, e al quale i giornali stanno dedicando grossi titoli e fervorosi articoli, si chiama Léo Malet, sconosciuto a tutti e quindi per tutti una “scoperta”. Senonché, il libro che per tanti recensori è una novità assoluta, intitolato (e il titolo è tutto un programma) “La vita è uno schifo”, è già uscito alcuni anni fa presso una piccola casa editrice bolognese, Granata Press (poi fallita, per l’appunto) per le cure di quello stesso luigi Bernardi – uno straordinario talent scout, va detto che lo ripropone oggi da Fazi, in una traduzione rivista e corretta e con un’utile nota introduttiva. e qualcuno, allora, se ne accorse, anche perché Malet è stato un personaggio con una storia davvero straordinaria, che merita di essere raccontata, anche se in modo succinto. Nato a Montpellier nel 1909 in una famiglia modestissima, Malet perse entrambi i genitori quand’era piccolo, e fu quindi allevato dal nonno, vecchio anarchico individualista. Il suo primo lavoro fu di fattorino in una banca, ma fu subito licenziato, per aver diffuso il giornale, per aver diffuso il giornale anarchico “l’insurgé”. Se ne è andò allora a Parigi, dove fece il vagabondo (finendo anche il carcere) e numerosi, occasionali mestieri (tra cui il lavabottiglie in un grande magazzino), fino all’esordio come chansonnier in un cabaret di Montmartre. tra i suoi lavori: anche il fattorino di una ditta d’impianti idraulici. e un giorno – come ha raccontato lui stesso – mentre consegna un bidet per un lussuoso bordello di rue Hanovre, vede nella vetrina di una libreria (quella del mitico José Corti) delle pubblicazioni che lo incuriosiscono: si tratta di “La Révolution surréaliste”, di riviste, di libri dalle strane copertine. Lui è curioso, cerca di informarsi. Si procura il “Manifesto del Surrealismo”, va a vedere “Un Chien andalou”, il film di Bunuel Dalì, legge Lautréamont, trova che questi surrealisti dicono cose che lo convincono, anche dal punto di vista politico. Alla fine, si decide a scrivere a Breton, il “Papa”, il personaggio già mitico nell’ambiente intellettuale. “Era una specie di messaggio nella bottiglia – ha raccontato Malet – se ne dicevano tante, che i surrealisti erano molto poco accoglienti, gente ricca, distante. Io, invece, Breton l’ho conosciuto anche molto povero, e soprattutto ho scoperto che non si prendeva sempre per André Breton. In ogni caso, la mia lettera gli piacque, mi chiese di mandargli ciò che scrivevo, e poi di andarlo a trovare al Café Cyrano, il famoso Cyrano di Place Blanche. Era il 12 maggio 1931”. Eccolo dunque integrato nel gruppo. Lui, da sempre, scrive poesie, e nel movimento surrealista, benché più giovane degli altri, si conquista subito molte simpatie, grazie all’invenzione di alcuni “procedimenti” originali, che saranno poi largamente ripresi. da anarchico diventa trotkista, ma in realtà è troppo individualista per accettare una qualsiasi disciplina (e quella surrealista era severa). del resto, la situazione sta rapidamente precipitando. Nel ‘40 finisce di nuovo in prigione. Ma questa volta non si tratta di sciocchezzuole, bensì di “attentato alla sicurezza interna ed esterna dello Stato”, roba da ghigliottina o da ergastolo, in tempo di guerra. Viene invece liberato dopo qualche mese, ma catturato dai nazisti e rinchiuso in campo di concentramento (lo Stalag X2, tra Amburgo e Brema). Ci rimane un anno. Poi, tornato in libertà per gravi problemi di salute, s’inventa una nuova attività, quella di autore di romanzi polizieschi, prima con pseudonimi “americani”, poi, nel ‘43, pubblicando quello che è a tutti gli effetti il primo noir francese, e cioé “120, rue de la Gare” (tradotto di recente dagli Editori Riuniti). ambientato in parte in uno stalag tedesco, il romanzo propone per la prima volta il personaggio di Nestor Burma, il detective privato “che mette ko il mistero”. Tra il ‘43 e il ‘49 escono sette inchieste di Burma, i romanzi ottengono successo, il loro protagonista diventa popolare quasi come Maigret e ben quattro attori diversi (René Dary, Michel Serrault e Gérard Desarthe) lo porteranno sullo schermo. Il successo aumenterà poi a partire dal ‘53, quando Malet ha un’altra idea brillante: ambientare ognuna delle inchieste di Burma in un diverso arrondissement di Parigi. “L’idea mi venne sul ponte di Bir-Hakeim – ha raccontato -. davanti a quel paesaggio di Parigi, mi sono detto che era davvero straordinario che nessuno avesse mai pensato di fare un film su Parigi, a parte Louis feuillade. Ho avuto l’idea confusa di romanzi polizieschi che si svolgessero ognuno in un diverso quartiere”. Ne usciranno quindici, tra il ‘54 e il ‘59, cinque mancano all’appello perché la speculazione edilizia stava già cambiando il volto della città, e Malet non riconosceva più alcune delle zone che aveva amato. Nel 1948, Malet pubblica il primo volume della sua trilogia noire: “La vie est déguelasse”, e poi “Le soleil n’est pas pour nous” e “Sueur aux tripes”. E sulla differenza tra il noir e il poliziesco d’azione, con il quale il primo viene spesso confuso, Bernardi fa un’utile puntualizzazione. “Nel poliziesco il male è un “accidente”; si tratta dunque di rimettere le cose al loro posto ripristinando l’ordine precedente; nel noir invece il male è una costante”. Il primo “ha una sostanziale attitudine rassicurante e consolatoria, il secondo è sempre eversivo”. In ogni caso, della scuola noir francese, Malet è considerato il precursore e l’esponente più rappresentativo. Cosa che anche gli autori venuti dopo (quelli dl “nuovo noir”) sono pronti a riconoscere (“Malet non deve niente a nessuno, il polar gli deve tutto”). Il Malet della “Trilogia” è uno scrittore in apparenza zoliano (non a caso i romanzi con Burma saranno complessivamente intitolati “i nuovi misteri” di Parigi). i romanzi si svolgono prevalentemente in periferie che sembrano ancora ottocentesche, in ambienti degradati, tra odori immondi, esalazioni venefiche, esistenze destinate comunque a bruciarsi. Ma c’è, in più, lo spirito anarchico e, imprevedibile, l richiamo a Freud e alla psicoanalisi. Così, ne “la vita è uno schifo”, il protagonista Jean è un giovane anarchico che, diventato rapinatore e assassino per la “Causa” e respinto poi dai suoi stessi compagni “legatisti”,, si avvita in una spirale distruttiva, e autodistruttiva, costellata di cadaveri e dalla quale gli sarà impossibile uscire, anche se a un certo punto l’intervento di un psicanalista sembra riuscire a fargli capire il motivo profondo della irresistibile pulsione di morte che gli impedisce di godere perfino dei momenti che potrebbero essere felici. Una disperazione assoluta e irrimediabile, dunque; esistenze segnate da un destino negativo al quale è impossibile sfuggire; la consapevolezza che niente è possibile fare perché, tanto, “la vie est déguelasse”, la vita è uno schifo, come ossessivamente ripete Jean. Sono queste le caratteristiche del Malet della “Trilogia”, e ne fanno, nonostante certe cadute ed eccessi ingiustificabili, un autore significativo tra quelli che hanno abbracciato la bandiera del nichilismo. Insomma, più noir di così non si può.

 

Danilo Maestosi, IL MESSAGGERO

 

Torna Nestor Burma, l’anti-Maigret

 

Nella galleria degli antenati della letteratura poliziesca Leo Malet (1909-1996) occupa sicuramente un ruolo di spicco. Ma è una scomoda nicchia da antagonista che ricorda la sorte toccata ai tanti ciclisti di rango vissuti all’epoca di coppi. Il campionissimo è diventato leggenda, il nome dei suoi grandi rivali, Koblet e Bobet, è rimasto solo una scia nella sua ombra. L’ombra che oscura la carriera di Leo Malet è quella gigantesca di Georges Simenon, a cui lo accomunano la stessa lingua, una produzione altrettanto sterminata e una fortunata catena di gialli incentrati sullo stesso personaggio. Alla serie dedicata al commissario Maigret, Malet oppose le avventure di un detective privato che è il suo rovescio speculare: Nestor Burma. Un investigatore manesco, ciarliero e sbruffone che maneggia le sue inchieste con la clava, contro un poliziotto burbero e sornione che tratta il delitto con la dolente pazienza di un padre di famiglia. Negli anni a cavallo della guerra sul mercato, ancora non invaso dall’hard boiled americano, c’era posto per entrambi. Anche se le differenze di stile e di vita tra i due autori e tra i due rispettivi eroi della caccia al crimine erano abissali. Simenon era un conservatore cresciuto tra le brume del Nord. Malet era un anarchico individualista, nato nel sud della Francia e trapiantato a Parigi, dove il suo nichilismo metropolitano gli aveva fatto conquistare l’amicizia e la stima dei circoli surrealisti: Breton fu a lungo suo padrino, Magritte non perdeva uno dei suoi romanzi, in cui annusava lo stesso sapore estraniato dei suoi quadri. Le indagini di Magritte ricordano il tono pacato e i poetici controluce dei film in bianco e nero di René Clair. Le peripezie di Nestor Burma anticipano il ritmo vorticoso e stereotipato dei fumetti e della pop art, annunciando il cinema della nouvelle vague. Grande romanziere di tradizione, Simenon è però diventato un classico non solo della letteratura di consumo, specie ora che l’Adelphi ha iniziato a ripubblicare i suoi romanzi di maggiore impegno, mentre la fama di Malet si è offuscata con il declino della lunga stagione delle avanguardie, congelata sui guizzi ormai datati e caricaturali del suo Burma. Un ingiusto oblio da cui dovrebbe risollevarlo la riscoperta di una trilogia di noir, fuori di ogni schema di genere, uscita negli anni sessanta. Una preziosa operazione di archeologia curata dall’editrice Fazi che inizia con la ristampa del primo titolo della serie: “La vita è uno schifo” (184 pagine). E’ la cupa parabola di Jean Fraigier , spietato bandito che spara per liberarsi delle sue ossessioni, della sua paura di amare. La stesa allucinata e disperata vitalità che Godrard mise in scena nel suo film “All’ultimo respiro” e scolpì nei gesti di un giovanissimo Belmondo. Un nero senza fronzoli e senza riscatti consolatori, scritto con mano da maestro. Chi lo legge aspetterà con impazienza le due prossime puntate.

 

E. Dietrich, LA REPUBBLICA

 

Malavita continua

Surrealista e nichilista, Léo Malet tra rapine e amour fou

Non abbiamo contato, rapiti dal vorticoso ritmo degli accadimenti, quante volte Léo Malet fa dire al personaggio del suo romanzo che la vita è uno schifo. Certo più di dieci, come se volesse convincere il lettore (e confermare a se stesso) che le cose stanno proprio così. Una giovinezza da anarchico nichilista,ai limiti del bombarolo, poi cantante e poeta vicino ai surrealisti, soprattutto amico e discepolo di Bréton, frequentazioni fitte con Duchamps e Magritte (sua la copertina della prima edizione, Léo Malet, dopo aver firmato molti libri con pseudonimi (era una moda ricorrente in Francia a quei tempi: o stesso Queneau, suo amico carissimo, usò quello di Sally Mara per un giallo), pubblica col suo vero nome “120, rue de la Gare”, dove appare per la prima volta l’investigatore Nestor Burma, che lo accompagnerà in tante altre avventure. E’ il ‘43. Cinque anni dopo mette temporaneamente da parte Burma e scrive “La vita è uno schifo” (Fazi, p. 170). Una storia cupa, violenta con un uso esagerato dell’argot, come gli rimproverò affettuosamente Magritte (chissà che fatica ha dovuto fare Luigi Bernardi per tirare fuori una bella traduzione). Malet usava l’argot – gergo della vita parigina – per rendere reali quei dialoghi crudi dai quali escono le angosce esistenziali dei protagonisti senza uso di introspezioni psicologiche. Quattro isolati anarchici assaltano un furgone che trasporta le paghe degli operai d’una azienda, è strage. Doveva essere una provocazione ma il sangue è troppo, così l’ideologia politica e il terrorismo gratuito finiscono lì/ Resta Jean, col suo fidato amico gobbo, a combattere una guerra personale contro il mondo. “L’ amour fou” per una sfuggente donna, però, lo porta a incaute e fatali soluzioni con nuovo spargimento di sangue. Nero su nero fino a un epilogo a sorpresa e disperatamente struggente.

 

Corrado Augias, LA REPUBBLICA

Effetto noir

Quei romanzi senza un lieto fine

Mostre, libri, collane dedicate a un genere letterario di grande popolarità, ma anche raffinato, come nel caso di Léo Malet, di cui esce in Italia “La vita è uno schifo”

Basterebbero il titolo e l’esergo a far capire davanti a che tipo di romanzo ci troviamo. Il primo “La vita è uno schifo” traduce letterariamente l’originale francese “La vie est dé gueulasse”. Il secondo, tratto da una frase di Lacenaire, recita: “Da quel momento la vita divenne un lungo suicidio”. L’autore è Léo Malet, scrittore pochissimo noto in Italia e abbastanza trascurato (ingiustamente) anche in Francia, ora pubblicato dall’editore Fazi (pagg. 183). Malet è un maestro del genere detto “nero” che, a parte ogni bisticcio di colori, non va confuso con gli abituali polizieschi chiamati in italiano “gialli”. Nella sua accurata prefazione Luigi Bernardi fa una serie di distinzioni tra questi due generi spesso e ingiustamente confusi nono stante le loro abissali diversità. Vi tornerò tra qualche riga. “La vita è uno schifo” è il racconto drammatico e in prima persona di un giovane criminale, Jean fraiger, che comincia con le rapine per finanziare un gruppo anarchico rivoluzionario e continua poi a uccidere per obbedire a un irresistibile impulso. Mescolata al sangue, alla sua vita miserabile anche quando è pieno di soldi, alle amicizie scombinate e rivoltanti, c’è la storia d’amore con Gloria, una donna sposata, che in qualche modo come il lettore vedrà arriva alla sua conclusione diciamo così naturale, salvo prendere poi tutt’altra via poco prima del drammatico finale. se appaio reticente è perché devo esserlo. Ho letto il romanzo in un pomeriggio senza riuscire a staccarmene anche perché il personaggio di Jean che dovrebbe risultare repulsivo per gli orribili atti che commete, sprigiona invece una curiosa (forse malsana) attrazione e lo sviluppo degli avvenimenti è sorprendente; Proprio qui sta una delle differenze di fondo tra il “giallo” e il “nero”; Il romanzo poliziesco classico si apre con una violazione dell’ordine (in genere un assassinio inspiegabile) per chiudersi, scartare tutte le altre piste, con il ristabilimento di quello stesso ordine. Il “giallo, in altre parole, è un genere rassicurante e a lieto fine, vorrei dire che non lo tollera, il suo sviluppo è disordinato, la sua trama apre di continuo su situazioni nuove viste pe lo più dalla prospettiva non dell’investigatore ma della vittima. Léo Malet (1909-1996) è un maestro riconosciuto del “nero” e se tra i lettori di questo articolo c’è qualcuno interessato al genere spero che ne converrà. Una certa celebrità l’aveva già raggiunta con una serie di romanzi polizieschi classici che avevano in Nestor Burma il loro protagonista fisso. frequentatore a Parigi (lui che veniva dalla Linguadoca, Montpellier) di circoli anarchici, poi amico di André Breton e dei surrealisti, Malet decise che le svventure di Burma (non molto dissimili da quelle di Maigret) non gli bastavano più. “La vita è uno schifo”, probabilmente il suo capolavoro, uscì alla fine degli anni Quaranta come primo titolo di quella che in seguito sarebbe diventata la sua trilogia nera. Nella prefazione alla prima edizione dell’opera (1948) l’autore scriveva: “Jean, è un Tristano al carboncino, Tristano senza Isotta che, sopra un abisso di crudeltà e di tenerezza e sopra il frastuono delle matrigliette in azione, inalbera la bandiera color sangue e notte dell’inquietudine sessuale”. Per questo personaggio lo scrittore s’era ispirato inizialmente al celebre bandito “Jules Bonnot, definito il primo criminale “motorizzato” nel senso che le rapine, siamo nel 1911, venivano eseguite in auto mobile; anche Bonnot s’era avvicinato a un gruppo di anarchici riuniti ntorno a una specie di amestro di nome Raymond Callemin. I suoi uomini, come i personaggi di Malet, durante le rapine sparavano preventivamente, non per difendersi; E anche loro come Jean dimenticarono via via la vaga ideologia che li aveva mossi per trasformarsi in sanguinosi criminali comuni; Ripsetto a questo itinerario, il protagonista del romanzo ha però una dimensione supplementare adombrata proprio nelle parole citate più sopra: “inquietudine sessuale”; Segnando un’altra differenza notevole rispetto al “giallo” classico, Malet scava progressivamente nella psiche del protagonista fino alla scena nella quale, grazie a un certo personaggio, la sua ossessione viene svelata. Nel suo romanzo scrive Malet “Freud gioca il ruolo abitualmente riservato al brillante investigatore. Bracca nell’inconscio il colpevole, che è allo stesso tempo la vittima”. Il sorprendente abbraccio che sovrappone due figure in genere distinte, il colpevole e la vittima, segna un altro punto a favore di Léo Malet e di questo romanzo romanzo nero affilato come la lama della ghigliottina.

 

Giampaolo Martelli, IL GIORNALE

Esce in Italia “La vita è uno schifo”, capolavoro del “noir”

Leo Malet, arriva l’altro Simenon

 

Il giallo, il rosso e il nero sono i colori che hanno ispirato le opere di Leo Malet. Vincitore nel 1948 del “Grand Prix de Litterature Policiére” e nel 1958 del “Grand Prix de l’Humour Noir”, Leo Malet deve la sua fama al personaggio do Nestor Burm, il detective privato sentimentale e cinico che mette “Knock-out il mistero”, diventando con Simenon il maggior esponente del romanzo poliziesco francese. Alla “Trilogie noir”, pubblicata nel 1969 appartiene “La vita è uno schifo”, un romanzo aspro e violento che è considerato il suo capolavoro e che finalmente (curato da Luigi Bernardi) i lettori italiani possono ora leggere. Autore prolifico e versatile con lo spirito del ribelle, nato nel 1909, Leo Malet in pochi mesi rimane orfano, viene allevato dal nonno ma il suo vero “precettore” è André Colomer, anarchico e pacifista, redattore capo di “Libertaire” e fondatore di “L’insurgé”. E’ lui che lo incita ad abbandonare Montpellier per trasferirsi a Parigi. A 17 anni Leo si esibisce come chansonnier al cabaret della Vache Enragée di Montparnasse. Passa da un mestiere all’altro: lo sguattero, il manovale, la comparsa cinematografica, il venditore ambulante. Frequenta i circoli anarchici e nei bistrot scrive poesie. Nel 1931, passando davanti alla libreria dell’editore Jose Corti, scopre alcune pubblicazioni surrealiste. Rimane affascinato sia dalla scrittura automatica sia dai temi anticonvenzionali. In un caffè conosce Breton, Aragon, Prevert e con fervore fino al 1940 fa parte della “banda dei surrealisti”. Non è un caso che diventi amico di René Magritte, lettore entusiasta dei suoi libri, che disegna la sovracopertina per la “Trilogie noir”. Prima di iniziare a firmare con il suo nome utilizza vari pseudonimi (tra cui Frank Harding e Omer Refreger) con cui scrive gialli di stampo americano. Durante la grande guerra è internato in un campo di concentramento tedesco che gli ispira “120, Rue de la Gare”. “La vita è uno schifo” è un racconto a tinte forti, complesso e ambizioso, in cui c’è la rivoluzione, l’amore, la morte – e che Leo Malet ha voluto definire “un romanzo dolce”. Dietro la vicenda del fuorilegge Jean Fraiger (ispirata alle imprese dell’anarco-terrorista Jules Bonnot) vi è l’esperienza anarchica e surrealista vissuta dall’autore. Non si dimentichi che André Breton aveva inneggiato alla rivolta nichilista, scrivendo: “L’atto surreale più semplice consiste, revolver in pugno, nell’uscire per strada e tirare a caso, quando si può, nella folla…”. Jean Fraiger è dunque un giovane anarco-comunista che con un gruppo di compagni rapina il furgone che trasporta gli studenti per gli operai delle Ufficine Folk, iniziando ad uccidere; I quattrini devono servire per finanziare l’attività rivoluzionaria dei ribelli. Si apre però una frattura fra gli “illegalisti”, fautori della violenza, e gli “operaisti” convinti nell’azione dei sindacati. Jean Fraiger crede nell’azione diretta, ai gesti che sono più importanti delle parole, e continua la sua solitaria guerra contro le istituzioni, la società e il mondo. Lui vorrebbe credere nell’amore ma è convinto che sa un’illusione. Dice:” L’amore è la vita stessa, ne è il centro di gravità. La vita è uno schifo, le donne rovinano tutto…”. Le uccisioni da parte del commando anarchico rientrano nella morale “che il fine giustifica i mezzi”. Però lo spartiacque tra il terrorismo ideologico e la delinquenza comune è sottile e ben presto viene superato. Jean Fraiger non ha tentennamenti e ammazza con inaudita ferocia. In questa pulsione omicida sono dei guasti interiori (Malet dedica un capitolo all’analisi psicoanalitica del personaggio) ma anche la disperazione di vivere in un mondo ingiusto. Fraiger non può sottostare agli arbitri, alle false morali, alle umiliazioni, alle ostentazioni della ricchezza ma anche alla mediocrità di quanti diventano servi del potere. Innamoratosi di Gloria, una donna seducente ed enigmatica, è consapevole di inseguire un sogno. ed ecco che ritorna la teoria surrealista sulla capacità anticipatrice delle visioni oniriche. E il finale è ancora un’esaltazione dell’atto gratuito. Poiché a Fraiger è vietato poter realizzare ciò che desidera, rivendica la libertà totale e compie la più disperata delle scelte. Un individualismo radicale domina queste pagine di Leo Malet, nemico di ogni costrizione (passato successivamente dall’anarchismo di sinistra e quello di destra) e che ha fatto l’esemplare ritratto di un “bandito letterario” la cui causa è il nulla.

 

Giampaolo Rugarli, ALIAS – IL MANIFESTO

“La vita è uno schifo”, matrice preterintenzionale di un genere

Malet noir platonico

 

Léo Malet, scomparso quasi novantenne nel 1996, è uno dei capostipiti del “nero”, e Fazi editore ha fatto bene a proporne “La vita è uno schifo”, pp. 192 (titolo originale, molto più violento: “La vie est dégueulasse”, “La vita è vomitevole”, se si preferisce “Che vomito la vita!”). Il romanzo, all’incirca del 1947, è il primo di una trilogia nera pubblicata alla fine degli anni sessanta, e Luigi Berbardi, il curatore odierno, giustamente attribuisce importanza all’avvenimento. Lo stesso Bernardi, dopo aver offerto alcune preziose notizie storiche, ragiona con intelligenza sulle regole che governano la letteratura nera. Non sono uno studioso da para-letteratura, terminologia comprensiva dell’appendice, del rosa, del giallo, del nero, del fumetto e quant’altro. La terminologia entra in vigore negli anni settanta, sulla scia di un convegno tenutosi in Francia, i cui atti vengono pubblicati da Librairie Plon e poi in Italia da Liguori. Ma a me sembra iniqua, poiché il prefisso “para”, ossia ”accanto” (per significare la natura laterale di un fenomeno), piuttosto che alle sorelle Giussani o a Brunella Gasperini si attaglia meglio a tanti narratori italiani delle recenti covate, occupati a fare il verso all’arte del romanzo, estranea alle loro corde. invece di Malet la felicità del raccontare è assoluta, egli riuscirebbe a mutare in narrazione persino l’elenco del telefono. In “la vita è uno schifo” Jean fraiger appartiene a un gruppo anarchico: per passare qualche soldo ad alcuni minatori in sciopero, compie una disastrosa rapina, ferendo a morte il padre della donna da lui amata. Ma della parentela verrà a sapere solo dopo. I minatori in preda a una crisi di moralismo, respingono l’obolo insanguinato; così Jean ricomincia a rapinare a profitto delle sue tasche. L’attività delinquenziale di tanto in tanto lo costringe a far fuori chi lo intralcia – e Malet pone insistenza nel fornire particolari cruenti. Tra tanti omicidi, mi sembrano fulgidi (se posso esprimermi così) quello di una puttana e quello del rivale in amore. La puttana si è permessa di rivolgere a Jean un sorriso di scherno, e vedremo presto perché questo sorriso non possa essere accettato; il rivale ha assunto un atteggiamento bullesco, perciò fargli la pelle è un contrappasso esiguo. Malet ne racconta la morte con poche parole: “Armai la pistola per il colpo di grazia e gli ficcai due palle nell’inguine. Una reazione lo fece balzare in piedi, e sussultò come all’apice di una masturbazione. Solo che eiaculò sangue”. L’avventura di Jean non può che concludersi tragicamente: tradito da un gobbo, già suo complice e amico, va a suicidarsi. “sparate al sesso!”, grida ai poliziotti, e “lo strano invito” viene preso alla lettera, come rivelerà l’autopsia. E’ evidente che i genitali maschili non godono la simpatia di Malet. Per alcuni aspetti, quelli più rigorosamente “neri”, “La vita è uno schifo” può sembrare una parodia: è la triste sorte delle opere che danno l’avvio a un genere, specie quando quel genere venga sfruttato al di là di ogni decenza. Così, volendo suggerire a Paolo Poli di ridurre per la scena il romanzo di Malet, sono sicuro che in grande attore si sentirebbe almeno tentato: è tutto folle, su una cadenza di balletto, ma di un balletto meccanico, e qualche cosa di simile si può ammirare a Montecarlo, al “Museo delle bambole e degli Autori”, naturalmente senza artiglierie e cadaveri. e allora per quale ragione consiglio di leggere “La vita è uno schifo” e sento l’obbligo di aggiungere che il libro non è un capolavoro ma è certo una degna opera, con alcune pagine mirabili? La risposta è in questo passaggio che descrive l’estasi amorosa dal punto di vista del maschio: “… in un grande cataclisma, un sommo movimento di terra, d’acqua, di fuoco, di cielo e d’inferno, il mio seme si sparse in fiotto torrentizio, un delizioso Niagara…”. Ebbene: il centro geometrico del romanzo è quel Niagara, quel fiume di sperma che si scatena per la beatitudine ma pure per la dannazione di Jean, incapace di governare la passione amorosa, e dunque incapace di far gioire le sue compagne. ecco perché è proibito sorridere. Sebbene Malet non usi mai la dizione “eiaculatio praecox”, forse poco nota in epoca anteriore ai rapporti Kinsey, la patologia che avvilisce e tormentata Jean va rubricata sotto l’anzidetta dizione. Lean è colpevole di un eccesso d’amore: egli ignora che la perfezione dell’amplesso esige pazienza, controllo, meticolosità piuttosto che onde di piena dove prologo, peripezia ed epilogo siano tutt’uno. Insomma: la passione è roba per ragionieri. Malet azzarda una spiegazione psicanalitica della turba che affligge Jean: la spiegazione sul piano scientifico è risibile ma letterariamente è molto bella. Effondere il seme anzi tempo segnalerebbe una pulsione di morte, e la donna, votata per sua natura a officiare la distribuzione, smetterebbe di essere compagna dell’avventura terrena e assurgerebbe al ruolo, non so da lei quanto desiderato, di sacerdotessa del disfacimento. Tutte vacche, tutte puttane, è il pensiero cui Jean si affida, per rendersi conto del malefico potere esercitato su di lui dal sesso femminile; e la rivoltella fa le veci di una carne troppo fragile, la rivoltella che alla seduzione, ossia alla presa di possesso stabilita dal turbamento amoroso, replica senza mezzi termini, replica con la morte. Malet ha ben chiaro di avere scritto un romanzo d’amore, sia pure “sui generis”, tanto vero che, nella prefazione alla prima edizione del libro, stabilisce una certa distanza dalla moda del “nero”, e avverte che il suo eroe è un Tristano senza Isotta, costretto a inalberare, sopra il frastuono delle matrigliette, “la bandiera color sangue e notte dell’inquietudine sessuale”. Sì, è così, ma non solo così. La materia è scappata di mano a Malet: “La vita è uno schifo”, come accade a tanti romanzi, è una storia in larga misura preterintenzionale. Oltrepassa il “nero” e persino l’inquietudine sessuale invocata dall’Autore: è cronaca della impossibilità nel rapporto uomo-donna, impossibilità che presto o tardi si manifesta, quand’anche gli orgasmi siano sincroni e gli spermatozoi muovano all’assalto allo scoccare dell’ora x sul quadrante di Afrodite. Le due metà in cui Zeus scisse l’uomo, per castigarlo della sua superbia (cfr. Platone, “Convito”, 190 B sgg.), non smettono di cercarsi e, con la complicità di Eros, di voler riconquistare la primigenia unità: se non che ogni tentativo è destinato a fallire, perché il taglio a suo tempo operato non ammette rimedio. e l’amore delle creature umane è fatto di bagliori e soprassalti, mai di eternità: a dispetto di ogni contraria illusione, è una povera cosa larvale, comunque condannata a disperdersi, con la inutilità di una polluzione notturna. Léo Malet, forse senza accorgereste, ha raccontato questa tragedia.

LA VITA È UNO SCHIFO – RECENSIONI

 

E. Dietrich, LA REPUBBLICA

 

Malavita continua

 

Non abbiamo contato, rapiti dal vorticoso ritmo degli accadimenti, quante volte Léo Malet fa dire al personaggio del suo romanzo che la vita è uno schifo. Certo più di dieci, come se volesse convincere il lettore (e confermare a se stesso) che le cose stanno proprio così. Una giovinezza da anarchico nichilista,ai limiti del bombarolo, poi cantante e poeta vicino ai surrealisti, soprattutto amico e discepolo di Bréton, frequentazioni fitte con Duchamps e Magritte (sua la copertina della prima edizione, Léo Malet, dopo aver firmato molti libri con pseudonimi (era una moda ricorrente in Francia a quei tempi: o stesso Queneau, suo amico carissimo, usò quello di Sally Mara per un giallo), pubblica col suo vero nome “120, rue de la Gare”, dove appare per la prima volta l’investigatore Nestor Burma, che lo accompagnerà in tante altre avventure. E’ il ‘43. Cinque anni dopo mette temporaneamente da parte Burma e scrive “La vita è uno schifo” (Fazi, p. 170). Una storia cupa, violenta con un uso esagerato dell’argot, come gli rimproverò affettuosamente Magritte (chissà che fatica ha dovuto fare Luigi Bernardi per tirare fuori una bella traduzione). Malet usava l’argot – gergo della vita parigina – per rendere reali quei dialoghi crudi dai quali escono le angosce esistenziali dei protagonisti senza uso di introspezioni psicologiche. Quattro isolati anarchici assaltano un furgone che trasporta le paghe degli operai d’una azienda, è strage. Doveva essere una provocazione ma il sangue è troppo, così l’ideologia politica e il terrorismo gratuito finiscono lì/ Resta Jean, col suo fidato amico gobbo, a combattere una guerra personale contro il mondo. “L’ amour fou” per una sfuggente donna, però, lo porta a incaute e fatali soluzioni con nuovo spargimento di sangue. Nero su nero fino a un epilogo a sorpresa e disperatamente struggente.

 

Giampaolo Martelli, IL GIORNALE

 

Leo Malet, arriva l’altro Simenon

 

Il giallo, il rosso e il nero sono i colori che hanno ispirato le opere di Leo Malet. Vincitore nel 1948 del “Grand Prix de Litterature Policiére” e nel 1958 del “Grand Prix de l’Humour Noir”, Leo Malet deve la sua fama al personaggio do Nestor Burm, il detective privato sentimentale e cinico che mette “Knock-out il mistero”, diventando con Simenon il maggior esponente del romanzo poliziesco francese. Alla “Trilogie noir”, pubblicata nel 1969 appartiene “La vita è uno schifo”, un romanzo aspro e violento che è considerato il suo capolavoro e che finalmente (curato da Luigi Bernardi) i lettori italiani possono ora leggere. Autore prolifico e versatile con lo spirito del ribelle, nato nel 1909, Leo Malet in pochi mesi rimane orfano, viene allevato dal nonno ma il suo vero “precettore” è André Colomer, anarchico e pacifista, redattore capo di “Libertaire” e fondatore di “L’insurgé”. E’ lui che lo incita ad abbandonare Montpellier per trasferirsi a Parigi. A 17 anni Leo si esibisce come chansonnier al cabaret della Vache Enragée di Montparnasse. Passa da un mestiere all’altro: lo sguattero, il manovale, la comparsa cinematografica, il venditore ambulante. Frequenta i circoli anarchici e nei bistrot scrive poesie. Nel 1931, passando davanti alla libreria dell’editore Jose Corti, scopre alcune pubblicazioni surrealiste. Rimane affascinato sia dalla scrittura automatica sia dai temi anticonvenzionali. In un caffè conosce Breton, Aragon, Prevert e con fervore fino al 1940 fa parte della “banda dei surrealisti”. Non è un caso che diventi amico di René Magritte, lettore entusiasta dei suoi libri, che disegna la sovracopertina per la “Trilogie noir”. Prima di iniziare a firmare con il suo nome utilizza vari pseudonimi (tra cui Frank Harding e Omer Refreger) con cui scrive gialli di stampo americano. Durante la grande guerra è internato in un campo di concentramento tedesco che gli ispira “120, Rue de la Gare”. “La vita è uno schifo” è un racconto a tinte forti, complesso e ambizioso, in cui c’è la rivoluzione, l’amore, la morte – e che Leo Malet ha voluto definire “un romanzo dolce”. Dietro la vicenda del fuorilegge Jean Fraiger (ispirata alle imprese dell’anarco-terrorista Jules Bonnot) vi è l’esperienza anarchica e surrealista vissuta dall’autore. Non si dimentichi che André Breton aveva inneggiato alla rivolta nichilista, scrivendo: “L’atto surreale più semplice consiste, revolver in pugno, nell’uscire per strada e tirare a caso, quando si può, nella folla…”. Jean Fraiger è dunque un giovane anarco-comunista che con un gruppo di compagni rapina il furgone che trasporta gli studenti per gli operai delle Ufficine Folk, iniziando ad uccidere; I quattrini devono servire per finanziare l’attività rivoluzionaria dei ribelli. Si apre però una frattura fra gli “illegalisti”, fautori della violenza, e gli “operaisti” convinti nell’azione dei sindacati. Jean Fraiger crede nell’azione diretta, ai gesti che sono più importanti delle parole, e continua la sua solitaria guerra contro le istituzioni, la società e il mondo. Lui vorrebbe credere nell’amore ma è convinto che sa un’illusione. Dice:” L’amore è la vita stessa, ne è il centro di gravità. La vita è uno schifo, le donne rovinano tutto…”. Le uccisioni da parte del commando anarchico rientrano nella morale “che il fine giustifica i mezzi”. Però lo spartiacque tra il terrorismo ideologico e la delinquenza comune è sottile e ben presto viene superato. Jean Fraiger non ha tentennamenti e ammazza con inaudita ferocia. In questa pulsione omicida sono dei guasti interiori (Malet dedica un capitolo all’analisi psicoanalitica del personaggio) ma anche la disperazione di vivere in un mondo ingiusto. Fraiger non può sottostare agli arbitri, alle false morali, alle umiliazioni, alle ostentazioni della ricchezza ma anche alla mediocrità di quanti diventano servi del potere. Innamoratosi di Gloria, una donna seducente ed enigmatica, è consapevole di inseguire un sogno. ed ecco che ritorna la teoria surrealista sulla capacità anticipatrice delle visioni oniriche. E il finale è ancora un’esaltazione dell’atto gratuito. Poiché a Fraiger è vietato poter realizzare ciò che desidera, rivendica la libertà totale e compie la più disperata delle scelte. Un individualismo radicale domina queste pagine di Leo Malet, nemico di ogni costrizione (passato successivamente dall’anarchismo di sinistra e quello di destra) e che ha fatto l’esemplare ritratto di un “bandito letterario” la cui causa è il nulla.

 

Giampaolo Rugarli, ALIAS – IL MANIFESTO

 

Malet noir platonico

 

Léo Malet, scomparso quasi novantenne nel 1996, è uno dei capostipiti del “nero”, e Fazi editore ha fatto bene a proporne “La vita è uno schifo”, pp. 192 (titolo originale, molto più violento: “La vie est dégueulasse”, “La vita è vomitevole”, se si preferisce “Che vomito la vita!”). Il romanzo, all’incirca del 1947, è il primo di una trilogia nera pubblicata alla fine degli anni sessanta, e Luigi Berbardi, il curatore odierno, giustamente attribuisce importanza all’avvenimento. Lo stesso Bernardi, dopo aver offerto alcune preziose notizie storiche, ragiona con intelligenza sulle regole che governano la letteratura nera. Non sono uno studioso da para-letteratura, terminologia comprensiva dell’appendice, del rosa, del giallo, del nero, del fumetto e quant’altro. La terminologia entra in vigore negli anni settanta, sulla scia di un convegno tenutosi in Francia, i cui atti vengono pubblicati da Librairie Plon e poi in Italia da Liguori. Ma a me sembra iniqua, poiché il prefisso “para”, ossia ”accanto” (per significare la natura laterale di un fenomeno), piuttosto che alle sorelle Giussani o a Brunella Gasperini si attaglia meglio a tanti narratori italiani delle recenti covate, occupati a fare il verso all’arte del romanzo, estranea alle loro corde. invece di Malet la felicità del raccontare è assoluta, egli riuscirebbe a mutare in narrazione persino l’elenco del telefono. In “la vita è uno schifo” Jean fraiger appartiene a un gruppo anarchico: per passare qualche soldo ad alcuni minatori in sciopero, compie una disastrosa rapina, ferendo a morte il padre della donna da lui amata. Ma della parentela verrà a sapere solo dopo. I minatori in preda a una crisi di moralismo, respingono l’obolo insanguinato; così Jean ricomincia a rapinare a profitto delle sue tasche. L’attività delinquenziale di tanto in tanto lo costringe a far fuori chi lo intralcia – e Malet pone insistenza nel fornire particolari cruenti. Tra tanti omicidi, mi sembrano fulgidi (se posso esprimermi così) quello di una puttana e quello del rivale in amore. La puttana si è permessa di rivolgere a Jean un sorriso di scherno, e vedremo presto perché questo sorriso non possa essere accettato; il rivale ha assunto un atteggiamento bullesco, perciò fargli la pelle è un contrappasso esiguo. Malet ne racconta la morte con poche parole: “Armai la pistola per il colpo di grazia e gli ficcai due palle nell’inguine. Una reazione lo fece balzare in piedi, e sussultò come all’apice di una masturbazione. Solo che eiaculò sangue”. L’avventura di Jean non può che concludersi tragicamente: tradito da un gobbo, già suo complice e amico, va a suicidarsi. “sparate al sesso!”, grida ai poliziotti, e “lo strano invito” viene preso alla lettera, come rivelerà l’autopsia. E’ evidente che i genitali maschili non godono la simpatia di Malet. Per alcuni aspetti, quelli più rigorosamente “neri”, “La vita è uno schifo” può sembrare una parodia: è la triste sorte delle opere che danno l’avvio a un genere, specie quando quel genere venga sfruttato al di là di ogni decenza. Così, volendo suggerire a Paolo Poli di ridurre per la scena il romanzo di Malet, sono sicuro che in grande attore si sentirebbe almeno tentato: è tutto folle, su una cadenza di balletto, ma di un balletto meccanico, e qualche cosa di simile si può ammirare a Montecarlo, al “Museo delle bambole e degli Autori”, naturalmente senza artiglierie e cadaveri. e allora per quale ragione consiglio di leggere “La vita è uno schifo” e sento l’obbligo di aggiungere che il libro non è un capolavoro ma è certo una degna opera, con alcune pagine mirabili? La risposta è in questo passaggio che descrive l’estasi amorosa dal punto di vista del maschio: “… in un grande cataclisma, un sommo movimento di terra, d’acqua, di fuoco, di cielo e d’inferno, il mio seme si sparse in fiotto torrentizio, un delizioso Niagara…”. Ebbene: il centro geometrico del romanzo è quel Niagara, quel fiume di sperma che si scatena per la beatitudine ma pure per la dannazione di Jean, incapace di governare la passione amorosa, e dunque incapace di far gioire le sue compagne. ecco perché è proibito sorridere. Sebbene Malet non usi mai la dizione “eiaculatio praecox”, forse poco nota in epoca anteriore ai rapporti Kinsey, la patologia che avvilisce e tormentata Jean va rubricata sotto l’anzidetta dizione. Lean è colpevole di un eccesso d’amore: egli ignora che la perfezione dell’amplesso esige pazienza, controllo, meticolosità piuttosto che onde di piena dove prologo, peripezia ed epilogo siano tutt’uno. Insomma: la passione è roba per ragionieri. Malet azzarda una spiegazione psicanalitica della turba che affligge Jean: la spiegazione sul piano scientifico è risibile ma letterariamente è molto bella. Effondere il seme anzi tempo segnalerebbe una pulsione di morte, e la donna, votata per sua natura a officiare la distribuzione, smetterebbe di essere compagna dell’avventura terrena e assurgerebbe al ruolo, non so da lei quanto desiderato, di sacerdotessa del disfacimento. Tutte vacche, tutte puttane, è il pensiero cui Jean si affida, per rendersi conto del malefico potere esercitato su di lui dal sesso femminile; e la rivoltella fa le veci di una carne troppo fragile, la rivoltella che alla seduzione, ossia alla presa di possesso stabilita dal turbamento amoroso, replica senza mezzi termini, replica con la morte. Malet ha ben chiaro di avere scritto un romanzo d’amore, sia pure “sui generis”, tanto vero che, nella prefazione alla prima edizione del libro, stabilisce una certa distanza dalla moda del “nero”, e avverte che il suo eroe è un Tristano senza Isotta, costretto a inalberare, sopra il frastuono delle matrigliette, “la bandiera color sangue e notte dell’inquietudine sessuale”. Sì, è così, ma non solo così. La materia è scappata di mano a Malet: “La vita è uno schifo”, come accade a tanti romanzi, è una storia in larga misura preterintenzionale. Oltrepassa il “nero” e persino l’inquietudine sessuale invocata dall’Autore: è cronaca della impossibilità nel rapporto uomo-donna, impossibilità che presto o tardi si manifesta, quand’anche gli orgasmi siano sincroni e gli spermatozoi muovano all’assalto allo scoccare dell’ora x sul quadrante di Afrodite. Le due metà in cui Zeus scisse l’uomo, per castigarlo della sua superbia (cfr. Platone, “Convito”, 190 B sgg.), non smettono di cercarsi e, con la complicità di Eros, di voler riconquistare la primigenia unità: se non che ogni tentativo è destinato a fallire, perché il taglio a suo tempo operato non ammette rimedio. e l’amore delle creature umane è fatto di bagliori e soprassalti, mai di eternità: a dispetto di ogni contraria illusione, è una povera cosa larvale, comunque condannata a disperdersi, con la inutilità di una polluzione notturna. Léo Malet, forse senza accorgereste, ha raccontato questa tragedia.

 

Giancarlo De Cataldo, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO

 

Estate, impazza il “noir” di Male in meglio

 

“Siamo di fronte a un’invasione del Male di proporzioni eccezionali, di cui è impossibile non accorgersi. Esso si diffonde ogni giorno di più nel mondo in cui viviamo (…). Il Male è un soggetto inafferrabile, insondabile: perciò mi attira come scrittore”. Si può non essere d’accordo con Gustaw Herling quando, nella sua “Conversazione sul Male”, con un’analisi indubbiamente riduttiva, identifica nel Comunismo “la madre di tutti i mali” del Novecento (l’autore polacco e credente, sperimentò di persona la repressione staliniana), ma non si può dissentire dall’altra affermazione: che il Male sia un mistero insondabile e che, di conseguenza, più che spiegarlo, lo si debba prima individuare, poi sperimentare e, infine, raccontare. Dove il teologo o lo scienziato non riescono a penetrare, insomma, meglio affidarsi all’intuizione poetica dell’artista. Largo, dunque, a scrittori, pittori, registi e narratori che fanno i conti con il Male e ne catturano i diabolici frammenti: non solo e non tanto essi ci regalano opere più o meno dense di fascino e di vigore artistico, ma, soprattutto, ci costringono a fronteggiare quel lato oscuro presente in tutti noi che fece parlare il filosofo cattolico Gabriel Marcel di “uomini contro l’umano”. lato oscuro che la società dello spettacolo e il pragmatismo mercantile, con la pretesa di relegare l’individuo a mero fattore produttivo, tendono sciaguratamente a rimuovere. Salvo poi a inorridire davanti al serial-killer di turno o ai lanciatori di sassi dai cavalcavia. Che, d’altronde, quella di “raccontare il male” sia la tendenza culturale egemone negli ultimi anni lo dimostra la straordinaria diffusione, in tutto l’Occidente, di un genere letterario, il noir, un tempo minoritario e snobbato dai critici. Attenzione: il noir e non il giallo: perché, come ha scritto un critico acuto, Luigi Bernardi, il giallo è il genere del ricompattamento dell’ordine sociale ferito dal crimine, mentre nel noir non c’è nessun ordine da ricompattare perché tutto è già andato a rotoli. Per iniziare un percorso estivo di lettura negli stimolanti territori del Male, si può partire da “Il giovane criminale” di Jean Genet. Genet, figlio di nessuno, ladro, vagabondo, salvato dalla galera da Cocteau, innalzato alla gloria da Sartre, scrisse questo testo su commissione della radio di Stato francese, quando già era un drammatico di fama mondiale. In poche pagine tremende, incandescenti, il maturo uomo di successo rievoca il suo passato deviante, l’esperienza del Male, con parole di fuoco per gli ipocriti professionisti del pietismo rieducativo. La via d’uscita, dunque, è rigorosamente individuale, e passa per la solitudine e il riscatto. E qui l’ateo ribelle Genet è in singolare sintonia con il piissimo Herling. Inutile dire che, dopo aver letto il testo, i responsabili della radio si rifiutarono di mandarlo in onda. Restiamo in Francia con “La vita è uno schifo” di Lèo Malet. Anarchico, surrealista, combattente nella Resistenza , Malet è, nel suo Paese, più popolare di Simenon. Merito delle avventure dell’investigatore privato Nestor Burma, un “duro” divertente e autoironico protagonista anche di una fortunata serie televisiva. “La vita è uno schifo” appartiene invece al versante “maledetto” di Malet. Il protagonista è un ribelle senza causa che dalle rapine “politiche” passa all’omicidio fino a se stesso, divorato da un mal di vivere che nemmeno il più cruento bagno di sangue potrà sodisfare. La lingua ricca e densa di squarci lirici e un finale assolutamente avveniristico (per un romanzo degli anni ‘40) ne fanno un capolavoro imperdibile.

 

Erica Arosio,

 

Il cuore nero del surrealismo

 

Ha il cuore nero Léo Malet. Come Jean, anarchico e ribelle, che rapina e uccide per un ideale e si riduce ben presto a farlo solo per disperazione, perché “la vita è uno schifo”. Emulo delle gesta della banda Bonnot, coltiva nel cuore un “amour fou”: quello per Gloria, la donna che mai potrà avere. Scrittore amato da André Bréton e Magritte, vicino ai surrealisti, a buona ragione considerato uno dei capofila del noir francese.

 

Giuseppe Montesano, IL DIARIO DELLA SETTIMANA

 

I fiori (domestici) del male

 

Nella notte della modernità in cui tutte le merci sono buone, e dove le tavole dei valori sono state sostituite dalle tabelle del plusvalore, il crimine non è più l’eccezione ma la regola: è forse questa la scoperta che rende i personaggi di certi romanzi – per esempio Gli intrusi di Georges Simenon (Adelphi), “La vita è uno schifo” di Léo Malet (Fazi) e Nada di Jean-Patrick Manchette (Einaudi), appena usciti – così disperatamente nichilisti. Dove la società stessa è organizzata in modo ipocritamente criminoso, la legge è al servizio di una borghesia pacificata solo se i suoi affari vanno bene e la Storia sembra essersi fermata come un orologio guasto, la cosiddetta normalità può anche essere una mascherata. É l’ossessione di Simenon, variata ma ripetuta in infinite storie: dietro la patina di perbenismo e di ordine fasullo che addormenta la provincia francese sta acquattato l’ignoto, l’altro. Nel romanzo di Simenon gli sconosciuti del titolo originale – Les inconnus dans la maison – sono la figlia stessa del protagonista e la sua banda di amici che giocano a fare i criminali, costringendo il padre avvocato e ubriacone ad aprire gli occhi su una realtà estranea e a mettersi dalla parte dei ribelli contro i veri criminali, i borghesi piccoli e grandi accecati dal benessere e decrepiti come le loro regole. Ma nove anni dopo, nel 19448, l’eroe del romanzo di Malet ha trasformato la sorniona ironia simenoniana in un grottesco dichiarato. I massacri che riempiono “La vita è uno schifo” sono esagerati non solo per epater i lettori, ma anche perché il grande delitto pubblico della guerra ha fatto impallidire i delitti privati, e il massacro su scala industriale giustifica in qualche modo il singolo che ammazza per necessità. l’eroe solitario di Malet debutta come terrorista e rapinatore che uccide per finanziare le lotte operaie, ma si rivela ben presto per un déreglé assoluto, un affamato di passioni che riesce a esprimersi solo con la pistola in pugno. Nel fare di Jean Fraiger un caso freudiano da manuale, Malet rovescia le regole del noir nel momento stesso in cui le rispetta. Come nei romanzi che Raymond Queneau scriveva sotto pseudonimo celebrando e parodiando la moda hard-boiled dei duri dal cuore tenero, in La vie est déguelasse circola un’atmosfera addirittura comica, tra l’Anthologie de l’humour noir e i giochini del cadavere exquis presi alla lettera. Le risate ghignati da cui è scosso Jean Fraiger potrebbero essere quelle di un cartone animato scritto a quattro mani da Max Ernst e Dashiell Hammett, e il suo inconscio sembra l’archetipo beffardo degli inconsci di tutti i serial-killer a venire che uccideranno per mancanza d’amore. UNA FEROCE IRONIA. Nel 1972 questa comicità, in Malet ancora a tratti involontaria, diventa in Jean-Patrick Manchette un’ironia feroce e consapevole in cui se si ride è ormai solo con il sale sulle ferite. In Nada il sentimentalismo cinico che affligge quasi sempre noir e polizieschi è sostituito dalla ribellione a tutti i costi contro il “capitalismo tecnoburocratico”, e da un romanticismo insieme amato e ridicolizzato. Già all’inizio dell’epoca industriale il “licantropo” Pétrus Borel aveva scritto che nel 1832 a Parigi c’erano due covi: “Quello dei ladri è la Borsa, quello degli assassini è il Palazzo di Giustizia”, dichiarando di avere bisogno di “una somma enorme di libertà” che la civiltà non gli permetteva: è la stessa libertà smisurata che cercano invano i randagi anarchici di Manchette, persi in una machine infernale dove alla fine non ci possono essere né vinti né vincitori. Nel mondo di Nada il sistema legale dello Stato è terroristico quanto chi lo combatte; nessuna rivolta sociale è possibile perché la vera rivoluzione l’hanno fatta i media e il denaro; e la tragedia della modernità è che gli oppressi si muovono in fondo nello stesso ordine di idee degli oppressori. Gli eroi di Manchette a un certo punto si battono per il puro gusto di battersi, senza più alcuno scopo sensato, perdendo di vista la disprezzata realtà: e Manchette li smaschera, parodiando il loro nichilismo disperato nel singhiozzare satirico di una scrittura febbrile e jazzata, in cui le idee di Bene e Male hanno smarrito la loro stabilità, si scambiano di continuo le parti e costringono il lettore a modificare in profondità il punto di vista. Con Manchette e gli altri i luoghi comuni del genere smettono di essere comodi segnali di orientamento: il lettore deve perdersi anche lui come i protagonisti nei labirinti metropolitani in cerca di fuga, deve bagnarsi sotto la stessa pioggia che cade sui loro impermeabili lerci, ed è imprigionato anche lui nelle ville fatiscenti o negli appartamenti miserabili di una banlieue perpetua. Perché chi sono veramente i mostri? Come un Ensor in pantofole Simenon li svela dietro le giacche impeccabili e le cravatte discrete dei borghesi, Malet li scopre sotto ogni repressione della civiltà e Manchette li denuncia nel nascondiglio delle istituzioni “democratiche”. Simili in questo ai loro predecessori del “romanticismo nero” – scrittori ai margini come Lewis di The Monk o il Mathurin di Melmoth – alcuni autori di genere hanno trascritto nel proprio sismografo lacerazioni e sussulti sfuggiti a molta letteratura “alta”, fissando nel desiderio di fuga che sferza i loro eroi l’immagine di una società ipnotizzata dalla claustrofobia. I Malet e i Manchette sembrano aver preso in parola l’invito di Adorno: “Solo l’esagerazione è vera”, e sotto la loro lente deformante la superficie liscia e compatta della normalità si è svelata incrinata dalla violenza e devastata da rapporti umani impazziti. Ma a quanti scrittori ora che i generi stanno passando dalla colt al cult sarà concessa la possibilità, che in Nada è ancora riservata a chi ha rifiutato lo stupefacente del ribellismo maudit, di “raccontare la storia breve e completa”, di cosa sta succedendo nel buio del presente? I viaggiatori al termine di questa interminabile notte dovranno perdere ancora molte certezze e balocchi, per poter provare a raccontare davvero la realtà.

 

Sandro Caroli, IL GIORNALE DI VICENZA

 

Il surrealista che inventò il noir psicologico

 

Da sempre il giallo francese viene identificato con le indagini del commissario Maigret, così magistralmente descritte da Georges Simenon in decine di romanzi. Ma in realtà l’universo del noir, come i francesi indicano il genere poliziesco, è quanto mai sfaccettato. Altri ottimi autori d’oltralpe, infatti, benché non abbiano raggiunto la popolarità commerciale di Simenon – che peraltro era belga di nascita -, hanno arricchito questo filone con decine di personaggi originali. Uno di questi è Frédéric Dard, scrittore e giallista morto quasi ottantenne all’inizio di giugno. Dard è stato un autore quanto mai prolifico (ha scritto almeno trecento libri e venduto 290 milioni di copie) ed è essenzialmente ricordato come l’ideatore di Sanantonio, un commissario parigino un po’ sboccato, molto spaccone, pronto a sparare e conquistare le belle ragazze, protagonista di una lunghissima saga (anche televisiva) che per qualche tempo è stata popolare anche in Italia, malgrado la difficoltà di rendere nella nostra lingua i giochi di parole, le freddure, i calembours, le invenzioni che costellano i suoi romanzi. Altrettanto importante, ma su un piano decisamente più serio, è Lèo Malet, nato a Montpellier nel 1909 e morto quattro anni fa dopo aver attraversato, spesso navigando controcorrente, tutto il Novecento. In Francia è considerato fra gli intellettuali più originali che prima della seconda guerra mondiale orbitavano intorno al surrealismo e ad Andrè Breton; ma anche l’ispiratore di quella sorta di nouvelle vague del romanzo poliziesco sviluppatasi negli anni Settanta, con autori tutt’altro che marginali, da Didier Daeninchx a Jean-Patrick manchette. tra i molti romanzi che Malet ha scritto, spiccano quelli dedicati alle indagini di Nestor Burma e la “trilogia nera”, aperta da “La vita è uno schifo”. Apparso in Francia sul finire degli anni Quaranta, questo libro fu pubblicato nel 1992 in Italia nella collana “Metro libri” della Granata Press, curata da Luigi Bernardi, il quale ora ha tradotto e riproposto lo stesso romanzo per l’editore Fazi di Roma (185 pagine). La vicenda è ambientata nell’immediato dopoguerra e ruota intorno alle imprese criminali di un gruppo di anarco-comunisti che con furti e rapine cercano di raccogliere i mezzi per realizzare il loro antico sogno rivoluzionario. Ma ben presto l’ideologia perde i suoi contorni e il protagonista della vicenda, innamorato di una donna bellissima quanto sfuggente, si troverà a combattere una solitaria e disperata battaglia contro il mondo in un clima di follia e nichilismo. Quando, alla fine del 1969, l’editore francese Eric Losfeld raccolse in un unico volume, con copertina di René Magritte, l’intera “trilogia nera”, Leo Malet aveva alle sue spalle una trentina di romanzi con Nestor Burma e un passato di poeta, cantautore, anarchico e di romanziere che si richiamava alla scuola dei duri americani. Molti di quei libri erano stati firmati con pseudonimi ad hoc da Leo Latimer a Franck Harding, perché i francesi volevano leggere storie americana, senza sospettare che gli autori (lo stesso sarebbe accaduto a lungo anche in Italia) erano francesi come loro. Luigi Bernardi – editore negli anni Ottanta di interessanti iniziative nel mondo dei fumetti e da sempre tra i maggiori esperti dei noir francese, e non solo – ha il merito di aver importato in Italia questo autore, che adesso vuole far conoscere ulteriormente proponendo, nei prossimi mesi, sempre per la casa editrice Fazi, gli altri due romanzi della trilogia. “Con “La vita è uno schifo” – mi dice – viene superato il romanzo poliziesco tradizionale, spalancando la porta a scritture e temi differenti. e’ la nascita del noir, che non ha nulla a che vedere con l’hardboiled school americana, perché il noir autentico è un romanzo psicologico intorno alla figura della vittima, che racconta, o fa raccontare, la sua caduta verso il punto di non ritorno. Nel romanzo poliziesco il male è un accidente, nel noir invece è una presenza costante, e mentre il primo propone visioni sostanzialmente rassicuranti o consolatorie, il noir è sempre eversivo”. Lo è soprattutto in questo caso, con protagonisti anarchici, terroristi e comunisti che nell’infuocata atmosfera post-bellica giocano a fare i Robin Hood metropolitani, armi in pugno, razziando i richhi e gli sfruttatori per donare ai poveri. In questo e in altri romanzi di Malet, come nel noir in genere, non c’è lieto fine. “L’unico lieto fine possibile – mi dice ancora Bernardi – è quando la vittima si ribella e attraverso una serie di atti “contro la legge” riesce a salvarsi e magari a dettare le regole di un nuovo disegno. In questo senso, il noir è figlio del surrealismo: viviamo nell’epoca del male, si diceva allora, e solo un male più forte può contrastarlo, modificandone i connotati”. Un taglio diverso hanno invece le storie di Nestor Burma, un detective che opera in un clima da “scuola dei duri” trasferita a Parigi e dintorni, quasi la caricatura degli nvestigatori privati americani: non è un “duro”, non ha un fisico “bestiale”, preferisce far lavorare il cervello piuttosto che le mani, ha una segretaria, Hèlène, che lo adora, e molte belle clienti che s’invaghiscono di lui. ma il dovere prima di tutto, e così Nestor Burma svilge le sue indagini con serietà e ostinazione. anche in questi romanzi meno impegnati (pubblicati in Italia nel “Giallo Mondadori”) Malet riesce sempre a inserire “una critica sociale implicita, una veritiera e aspra visione del quotidiano, un Humour i cui sarcasmi dissimulano una certa tenerezza”, come ha scritto Francis Lacassin in un saggio pubblicato in Francia e dedicato interamente a Nestor Burma. Il quale è il protagonista anche di vari film e di alcuni fumetti, disegnati da Tardi, che hanno trasferito in originali immagini il tipico mondo di questo investigatore dal nome apparentemente esotico, quasi un omaggio alla lontana Birmania.

 

Michele Mari, CORRIERE DELLA SERA

 

Léo Malet, piccolo miracolo del “noir”

 

“Ho letto tutti i suoi libri, insieme agli unici leggibili in questo periodo: quelli di Rex Stout e di Simenon, quando racconta le avventure di Maigret…”: chi scrisse queste parole a Léo Malet nel 1956 non era un lettore qualsiasi, ma René Magritte. Il nome non è casuale, perché negli anni ‘30 Malet era stato molto vicino ai surrealisti e in particolare a Breton; e proprio Magritte, nel 1969, avrebbe illustrato la copertina di quella “Trilogie noir” che conservava Malet come maestro del “noir” francese, recuperando un aspetto della sua produzione messo in ombra dal grande successo nel genere del “giallo” ( protagonista di una trentina di romanzi, in Francia in suo “Nestor Burma” è secondo in popolarità solo a Maigret). “La vita è uno schifo”( La vie est dégueulasse, 1948) è il romanzo che apre la “Trilogie”, e leggendolo si può capire perchè nel 1969 sia tanto piaciuto allo stesso editore, Eric Losfeld, che in quel periodo stava ripubblicando i romanzi “maledetti” di Boris Vian. Infatti, per quanto Malet si fosse formato alla scuola del giallo americano “hard-boiled” ( tirocinio coperto da diversi pseudonimi, il più noto dei quali è Leo Latimer), il suo “noir” non ha nulla del romanzo d’azione, bordeggiando piuttosto le regioni oscure della patologia psichica e conformandosi al modello della tragedia classica. Fatti di sangue non mancano: ma sono appena sfiorati al narratore, che li riduce a sintomi o a epifenomeni di un “male oscuro” (la vocazione autodistruttiva del protagonista) ortodossalmente descritto ma non certo illuminato dall’anamnesi con cui il libro si chiude. Meno morboso di Lord Jim e meno contorto di Raskolnikov, Jean Fraiger ha con il mondo un rapporto di ingordigia infantile che a me ha ricordato da vicino Ben-Ami, e forse la grandezza di Malet sta proprio in questo: aver creato e “tenuto” una perfetta atmosfera da “noir” ( con esiti superati solo da James Cain) senza ricorrere ad alcuno stereotipo del “noir”: cosa che, per una letteratura “di genere”, è un miracolo.

 

Massimo Carlotto, LA PROVINCIA

 

Sela rivolta contro il sistema si tinge di noir

 

“La vita è uno schifo” di Léo Malet e “Nada” di Jean Patrick Manchette hanno così tanti punti in comune che recensirli insieme è un atto dovuto. Oltre ad essere usciti quasi contemporaneamente, entrambi sono di autori francesi, entrambi appartengono al genere noir e affrontano lo stesso tema: la rivolta contro il sistema “La vita è uno schifo” (Fazi, 183 pagine, 24 mila lire) venne pubblicato in Francia alla fine degli anni Quaranta ma il vero successo lo ottenne quando il coraggioso editore Eric Losfeld lo inserì nella “Trilogie Noir” di Malet nel 1969. Considerato il capostipite del roman noir francese, narra la storia di Jean Fraigier e del suo gruppetto di anarchici, dediti alle rapini e alla lotta disperata contro tutto e tutti, che li condurrà a un tragico destino. L’autore, classe 1907, noto per aver creato il personaggio di Nestor Burma, l’investigatore protagonista di oltre trenta avventure, riunisce in questo grande romanzo la scrittura del poliziesco, l’anarchismo della gioventù e l’adesione al surrealismo. Quest’ultimo si ritrova soprattutto nella concezione dell’amore – l’amour fou – che emerge nelle pagine centrali del libro quando Jean Fraigier smarrisce il senno infatuato della bella Gloria. Il gruppo di rapinatori si ritrova a che fare con un ordine identificato con il male e per abbatterlo è necessario un male maggiore. Ovviamente il finale non è affatto consolatorio, come nella migliore tradizione del noir. Identico finale per “Nada” (Einaudi) di Manchette. Il titolo è il nome del gruppetto di anarco-comunisti che un bel giorno decide di sequestrare l’ambasciatore degli Stati Uniti in Francia. Ognuno dei partecipanti aderisce al progetto criminoso per motivazioni diverse ma in fondo c’è l’impossibilità di riuscire a vivere in questa società. La rivolta, inteso come atto estremo e suicida, è l’unico modo per dare senso all’esistenza. ma nel noir non ci sono né buoni, né cattivi, come non esiste il bianco e il nero ma tutto ha la tonalità grigia delle ombre. E i rapitori, in confronto ai giochi di potere da loro scatenati, sono in fondo dei disperati bonaccioni. Ministri e servizi segreti sfruttano il rapimento per un regolamento di conti interno e i terroristi vengono sterminati senza pietà per non lasciare testimoni di trame occulte. Il finale a sorpresa dimostra l’intuizione di Manchette nel futuro del potere dei media. Pubblicato nel 1972, l’anno seguente diventa un film diretto da Claude Chabrol, distribuito in Italia con il titolo “Sterminate Gruppo Zero”. Nel panorama noir, Manchette (1942-1995) è ricordato per aver rivoluzionato il genere in un momento in cui stava attraversando una grave crisi. Influenzato dalla scuola americana, con lui il noir conobbe nuova vita diventando critica sociale, una forma letteraria che, attraverso il racconto di vicende criminose, cerca di fornire un ritratto della società in un certo luogo e in un certo momento. Il poliziesco si eleva così a genere morale, la grande letteratura morale della nostra epoca, come sostengono oggi i critici. Il modello manchettiano infatti è quello di tutti gli autori impegnati nella nuova letteratura poliziesca. Il delitto è un mezzo per raccontare altro, dal disagio delle nostre città, alla grande criminalità, alla corruzione nel mondo della politica e della finanza.“La vita è uno schifo” e “Nada” andrebbero letti di seguito e in quest’ordine. Jean Fraigier e Buenaventura Diaz, i loro compagni, le loro pistole e gli amori disperati fanno parte di un unico grande disegno in continua evoluzione: il noir. Gradita sorpresa le deliziose lettere spedite da René Magritte a Leo Malet e pubblicate tra le appendici che arricchiscono questa edizione.

 

UNIVERSITÀ & LAVORO
– 06/01/2000

 

Un’estate in “noir sotto l’ombrellone con Carlo Lucarelli e i suoi fratelli

 

Il trend di quest’estate narrativa sembra volgere al…nero: sono sempre più numerose, infatti, le case editrici che propongono titoli, o collane specifiche, dedicate al “noir”: un genere che si differenzia dai classici gialli o dai polizieschi proprio per i contorni di trame e ambientazioni nere dove l’unico lieto fine è…finire il libro. Tra le ultimissime uscite “nere” da segnalare su tutti quello che viene considerato il romanzo capostipite del genere: “La vita è uno schifo” di Lèo Malet appena pubblicato da Fazi Editore (pp. 183, L. 24.000). Scritto sul finire degli Anni Quaranta “La vita è uno schifo” colpisce per la straordinaria attualità di una scrittura che sembra non aver risentito del tempo. Grazie ad un ritmo narrativo serrato e dialoghi sorprendentemente veloci, “La vita è uno schifo” è un romanzo che fa rivivere tutte quelle emozioni che solo lo schermo della pagina riesce a trasmettere. Non a caso l’introduzione di questo romanzo capolavoro di Malet è affidata a Luigi Bernardi, uno dei massimi esperti italiani del genere “nero”.

 

LA STAMPA -TUTTOLIBRI
– 07/01/2000

 

Léo Malet, l’anarchico del poliziesco che non ammetteva il lieto fine

 

TI amo. Non abbiamo a disposizione che queste parole, che sono state usate e strausate e che sono state pronunciate da labbra impure e grondanti di menzogne…». Non sono le sospiranti frasi di un romanzo sentimentale e struggente, ma una breve parentesi, inattesa e malinconica, tra le pagine di un duro romanzo noir francese scritto da un capostipite del genere. Léo Malet, nato nei primi anni del Novecento, scrisse La vita è uno schifo nel 1949 nell’ambito della «Trilogie noire», quando già aveva lanciato il suo detective anarchico Nestor Burma in contrapposizione frontale al quieto e analitico Maigret di Simenon. La scrittura è secca, impietosa, l’atmosfera dominante è notturna, l’umore dei protagonisti disperato, il pallore dei loro volti è quello di Boris Vian. Come ricorda Luigi Bernardi nell’introduzione, in quegli anni gli autori francesi di genere cercarono di mantenere il contatto con i lettori nonostante il divieto di tradurre opere americane e si ispirarono alle tendenze oltre oceano trasferendo ed evocando le trame della «scuola dei duri» (tra tutti Chandler e Hammett). Si può discutere di assonanze e difformità, come fa Fabio Giovannini ( Storia del noir , Castelvecchi), ma la rottura con il consolidato romanzo poliziesco, cioè per intenderci con il giallo, è compiuta. Il «noir» è privo di regole e la narrazione non risponde a strutture vincolanti, il suo è un mondo in cui bene-male, legale-illegale non sono nettamente distinguibili. I protagonisti dei suoi romanzi non si sottraggono a tale disegno ed attraversano l’ordine violato dal delitto senza speranza di ricomporlo; confusi da maledizione e disordine, riconoscono solo i riti della famiglia surrealista. E’ uno sradicato anche l’attore principale di questo romanzo, figura smarrita e vittima di una società colpevole, che lentamente ma inesorabilmente scivola in basso, nel fumo nero e inebriante dell’illegalità. Jean Fraiger, il quale usa la violenza efferata non per arricchirsi ma per aiutare gli altri, sa che anche questa variante è inutile: il destino non lascia scampo e con il destino non si vince. Ed allora si dibatte sempre più ribelle e disorientato, dominato dalla disperazione di chi ha perduto ogni punto di riferimento, salvo il male. I colpi messi a segno sono sensazionali e sfrontati alla maniera di Bonnot, e utili soltanto a creare un effimero compiacimento alimentato dalla lettura dei giornali del giorno dopo che ne descrivono i dettagli più sanguinolenti. Ma il rotolare non ha tregua: si elimina il compagno Marcel, ferito e di impaccio, si uccide Gisele di cui il triste e gobbo Paul, componente della squadra, si era invaghito, si finisce col piombo il marito dell’amata Gloria. Chi si oppone lungo la strada viene abbattuto, per poter correre verso il baratro che si avvicina. L’amor fou che emerge nelle pagine centrali del romanzo potrebbe far intuire il sorgere della speranza in un’esistenza che è solo disperata: e Jean lo coltiva, verso Gloria, con le sue parole calde, come quando spiega che non fa la corte ma «io dico ti amo… è una verità… c’è il sole, la terra, la luna, le stelle e io ti amo… constatare la presenza non è corteggiamento». Tutto inutile, anche amare è un sintomo della disperazione, e rappresenta soltanto l’ultimo tentativo di resistere al fallimento esistenziale, di fuggire da quelle turbe profonde che lo squassano e che il dottor Claps, dal quale si è recato per amore di Gloria, non può cancellare. Quel dottore svela i misteri interiori dopo averne raccolto gli indizi, quasi fosse un «detective» dell’anima, ma tutto è inutile. L’amore con la sua donna è fatto solo di squarci, di sussulti, ma non è eterno e questa incompletezza prima o dopo si manifesta. Se l’amore è folle e quindi ingovernabile, se anche i sentimenti non guariscono dalle ferite dello sradicamento sociale, non rimane che la fuga solitaria, irreversibile. E’ l’abdicazione nei confronti del male che governa, non c’è lieto fine perché finisce con la sconfitta, o la ribellione. Non c’è lieto fine perché «la vita è uno schifo». Non c’è lieto fine «perché il colore che ci circonda è il nero».

 

Costanza Falanga, ROMA
– 09/09/2000

 

La vita è uno schifo

 

Pubblicato per la prima volta agli inizi degli anni Quaranta e poi riunito nella cosiddetta “Trilogia nera” nel 1969, “La vita è uno schifo” è considerato il romanzo capostipite del cosiddetto noir francese. É la storia di un gruppo di anarchici che attraverso furti e rapine intende finanziare il proprio progetto rivoluzionario, superando presto il limite tra ideologia politica e terrorismo fine a se stesso. Il protagonista della storia è un giovane che si è innamorato perdutamente di una donna bellissima, che tuttavia non fa altro che sfuggirgli, e finirà in un amaro epilogo la sua vita mentre prosegue ciecamente la sua battaglia rabbiosa contro il mondo. Leo Malet, insieme a George Simenon, è il maggiore rappresentante del romanzo poliziesco francese e questo suo romanzo, di straordinaria modernità, anticipa di decenni il filone cui ha poi attinto Quentin Tarantino.

 

Corrado Augias, LA REPUBBLICA

 

Quei romanzi senza un lieto fine

 

Basterebbero il titolo e l’esergo a far capire davanti a che tipo di romanzo ci troviamo. Il primo “La vita è uno schifo” traduce letterariamente l’originale francese “La vie est dé gueulasse”. Il secondo, tratto da una frase di Lacenaire, recita: “Da quel momento la vita divenne un lungo suicidio”. L’autore è Léo Malet, scrittore pochissimo noto in Italia e abbastanza trascurato (ingiustamente) anche in Francia, ora pubblicato dall’editore Fazi (pagg. 183). Malet è un maestro del genere detto “nero” che, a parte ogni bisticcio di colori, non va confuso con gli abituali polizieschi chiamati in italiano “gialli”. Nella sua accurata prefazione Luigi Bernardi fa una serie di distinzioni tra questi due generi spesso e ingiustamente confusi nono stante le loro abissali diversità. Vi tornerò tra qualche riga. “La vita è uno schifo” è il racconto drammatico e in prima persona di un giovane criminale, Jean fraiger, che comincia con le rapine per finanziare un gruppo anarchico rivoluzionario e continua poi a uccidere per obbedire a un irresistibile impulso. Mescolata al sangue, alla sua vita miserabile anche quando è pieno di soldi, alle amicizie scombinate e rivoltanti, c’è la storia d’amore con Gloria, una donna sposata, che in qualche modo come il lettore vedrà arriva alla sua conclusione diciamo così naturale, salvo prendere poi tutt’altra via poco prima del drammatico finale. se appaio reticente è perché devo esserlo. Ho letto il romanzo in un pomeriggio senza riuscire a staccarmene anche perché il personaggio di Jean che dovrebbe risultare repulsivo per gli orribili atti che commete, sprigiona invece una curiosa (forse malsana) attrazione e lo sviluppo degli avvenimenti è sorprendente; Proprio qui sta una delle differenze di fondo tra il “giallo” e il “nero”; Il romanzo poliziesco classico si apre con una violazione dell’ordine (in genere un assassinio inspiegabile) per chiudersi, scartare tutte le altre piste, con il ristabilimento di quello stesso ordine. Il “giallo, in altre parole, è un genere rassicurante e a lieto fine, vorrei dire che non lo tollera, il suo sviluppo è disordinato, la sua trama apre di continuo su situazioni nuove viste pe lo più dalla prospettiva non dell’investigatore ma della vittima. Léo Malet (1909-1996) è un maestro riconosciuto del “nero” e se tra i lettori di questo articolo c’è qualcuno interessato al genere spero che ne converrà. Una certa celebrità l’aveva già raggiunta con una serie di romanzi polizieschi classici che avevano in Nestor Burma il loro protagonista fisso. frequentatore a Parigi (lui che veniva dalla Linguadoca, Montpellier) di circoli anarchici, poi amico di André Breton e dei surrealisti, Malet decise che le svventure di Burma (non molto dissimili da quelle di Maigret) non gli bastavano più. “La vita è uno schifo”, probabilmente il suo capolavoro, uscì alla fine degli anni Quaranta come primo titolo di quella che in seguito sarebbe diventata la sua trilogia nera. Nella prefazione alla prima edizione dell’opera (1948) l’autore scriveva: “Jean, è un Tristano al carboncino, Tristano senza Isotta che, sopra un abisso di crudeltà e di tenerezza e sopra il frastuono delle matrigliette in azione, inalbera la bandiera color sangue e notte dell’inquietudine sessuale”. Per questo personaggio lo scrittore s’era ispirato inizialmente al celebre bandito “Jules Bonnot, definito il primo criminale “motorizzato” nel senso che le rapine, siamo nel 1911, venivano eseguite in auto mobile; anche Bonnot s’era avvicinato a un gruppo di anarchici riuniti ntorno a una specie di amestro di nome Raymond Callemin. I suoi uomini, come i personaggi di Malet, durante le rapine sparavano preventivamente, non per difendersi; E anche loro come Jean dimenticarono via via la vaga ideologia che li aveva mossi per trasformarsi in sanguinosi criminali comuni; Ripsetto a questo itinerario, il protagonista del romanzo ha però una dimensione supplementare adombrata proprio nelle parole citate più sopra: “inquietudine sessuale”; Segnando un’altra differenza notevole rispetto al “giallo” classico, Malet scava progressivamente nella psiche del protagonista fino alla scena nella quale, grazie a un certo personaggio, la sua ossessione viene svelata. Nel suo romanzo scrive Malet “Freud gioca il ruolo abitualmente riservato al brillante investigatore. Bracca nell’inconscio il colpevole, che è allo stesso tempo la vittima”. Il sorprendente abbraccio che sovrappone due figure in genere distinte, il colpevole e la vittima, segna un altro punto a favore di Léo Malet e di questo romanzo romanzo nero affilato come la lama della ghigliottina.

 

Walter Mauro, IL TEMPO
– 07/09/2000

 

Simenon e Malet il noir letterario vince perfino Rex

 

Il Festival del poliziesco di Cattolica, chiusosi da qualche giorno, non ha davvero risposto a una serie di domande che nel corso delle proiezioni e dei dibattiti venivano poste in termini forse un po’ troppo perentori: insomma, era più “noir” il tenente Sheridan, interpretato dal memorabile Ubaldo Lay o quel commissario Rex che sfila sui nostri video di oggi, cane poliziotto in grado di risolvere tutto ammazzando il colpevole, ma dopo averci ragionato sopra con umana lucidità? Se si ama il gioco delle contrapposizioni, basta andare in libreria e sottoporre a un preciso identikit due piccoli capolavori, dovuti, manco a dirlo, a due maestri del poliziesco occidentale, franco-belga per intenderci. Di George Simenon dunque, che non ha bisogno di presentazione, Adelphi pubblica un romanzo del 1941, “Gli intrusi”, un gioiello della narrazione noir, che André Gide promosse entusiasta con una cartolina dell’8 luglio 191, in cui diceva: “Ho da poco finito di leggere il suo stupefacente romanzo. Da tempo non mi accadeva di essere così vivamente interessato. Stupendo”. Una gran bella promozione. Sempre da qualche giorno in libreria, anche il “noir” di Léo Malet, allievo di Simenon, ma sul fronte opposto, quello dell’anarchia e del disordine, dei bassifondi e della realtà urbana sordida e crudele, quello che al tranquillo modello di Maigret contrapponeva le durissime vicende raccontate da Chandler o da Hammer. “La vita è uno schifo” edito da Fazi, è titolo che non lascia dubbi sull’ambiente che circonda i personaggi perduti e disperati di Malet, la cui scrittura impietosa e senza scampo riflette una condizione umana e durissima e deprivata di ogni speranza di riscatto: nasce l’uomo a fatica e vive disperato fino alla liberazione della morte: così potrebbe riassumersi la vita del protagonista, Jean Fraiger, violento e al contempo paradossalmente generoso per una sorta di losca solidarietà con quelli della sua risma: sicché i confini fra il bene e il male vengono saltati drammaticamente , mentre i colpi che il disadattato mette a segno risultano sensazionali proprio nella misura in cui la overdose di follia sopravanza ogni razionalità, anche quella del delitto. Qualcuno un po’ avanti con gli anni ricorderà un film di Henry Decoin, “Gioventù traviata” nella memorabile interpretazione di Raimu nel ruolo del protagonista Loursat: nessuno meglio del grande attore francese poteva interpretare la figura di questo struggente eroe di Simenon, figura centrale de “Gli intrusi”, romanzo del 1941 ora da noir in libreria, costruito dal maestro del giallo – quello che non aveva alcun modello e riuscì così a fondere noir e opera letteraria di grande pregio – con ingredienti molto semplici: un protagonista assoluto, molto emblematico, Hector Loursat de Saint Marc, avvocato trentottenne tradito e abbandonato, autoreclusosi in un vecchio palazzo con la figlia Nicole, trafitto da vino e sigarette che si risveglia solo davanti all’ “ingiustizia della giustizia”.

 

Felice Piemontese, L’UNITÀ
– 06/12/2000

 

L’anarchico in noir

 

Fa un certo effetto, devo dire, vedere con quanto zelo volenterosi recensori “scoprono” oggi un autore che altri avevano scoperto dieci o vent’anni fa. Ma è sempre la solita storia del mercato e di quella sorta di maledizione dei piccoli editori, che giocano d’anticipo, “lanciano” autori in cui credono… e poi falliscono. L’autore di cui parlo, e al quale i giornali stanno dedicando grossi titoli e fervorosi articoli, si chiama Léo Malet, sconosciuto a tutti e quindi per tutti una “scoperta”. Senonché, il libro che per tanti recensori è una novità assoluta, intitolato (e il titolo è tutto un programma) “La vita è uno schifo”, è già uscito alcuni anni fa presso una piccola casa editrice bolognese, Granata Press (poi fallita, per l’appunto) per le cure di quello stesso luigi Bernardi – uno straordinario talent scout, va detto che lo ripropone oggi da Fazi, in una traduzione rivista e corretta e con un’utile nota introduttiva. e qualcuno, allora, se ne accorse, anche perché Malet è stato un personaggio con una storia davvero straordinaria, che merita di essere raccontata, anche se in modo succinto. Nato a Montpellier nel 1909 in una famiglia modestissima, Malet perse entrambi i genitori quand’era piccolo, e fu quindi allevato dal nonno, vecchio anarchico individualista. Il suo primo lavoro fu di fattorino in una banca, ma fu subito licenziato, per aver diffuso il giornale, per aver diffuso il giornale anarchico “l’insurgé”. Se ne è andò allora a Parigi, dove fece il vagabondo (finendo anche il carcere) e numerosi, occasionali mestieri (tra cui il lavabottiglie in un grande magazzino), fino all’esordio come chansonnier in un cabaret di Montmartre. tra i suoi lavori: anche il fattorino di una ditta d’impianti idraulici. e un giorno – come ha raccontato lui stesso – mentre consegna un bidet per un lussuoso bordello di rue Hanovre, vede nella vetrina di una libreria (quella del mitico José Corti) delle pubblicazioni che lo incuriosiscono: si tratta di “La Révolution surréaliste”, di riviste, di libri dalle strane copertine. Lui è curioso, cerca di informarsi. Si procura il “Manifesto del Surrealismo”, va a vedere “Un Chien andalou”, il film di Bunuel Dalì, legge Lautréamont, trova che questi surrealisti dicono cose che lo convincono, anche dal punto di vista politico. Alla fine, si decide a scrivere a Breton, il “Papa”, il personaggio già mitico nell’ambiente intellettuale. “Era una specie di messaggio nella bottiglia – ha raccontato Malet – se ne dicevano tante, che i surrealisti erano molto poco accoglienti, gente ricca, distante. Io, invece, Breton l’ho conosciuto anche molto povero, e soprattutto ho scoperto che non si prendeva sempre per André Breton. In ogni caso, la mia lettera gli piacque, mi chiese di mandargli ciò che scrivevo, e poi di andarlo a trovare al Café Cyrano, il famoso Cyrano di Place Blanche. Era il 12 maggio 1931”. Eccolo dunque integrato nel gruppo. Lui, da sempre, scrive poesie, e nel movimento surrealista, benché più giovane degli altri, si conquista subito molte simpatie, grazie all’invenzione di alcuni “procedimenti” originali, che saranno poi largamente ripresi. da anarchico diventa trotkista, ma in realtà è troppo individualista per accettare una qualsiasi disciplina (e quella surrealista era severa). del resto, la situazione sta rapidamente precipitando. Nel ‘40 finisce di nuovo in prigione. Ma questa volta non si tratta di sciocchezzuole, bensì di “attentato alla sicurezza interna ed esterna dello Stato”, roba da ghigliottina o da ergastolo, in tempo di guerra. Viene invece liberato dopo qualche mese, ma catturato dai nazisti e rinchiuso in campo di concentramento (lo Stalag X2, tra Amburgo e Brema). Ci rimane un anno. Poi, tornato in libertà per gravi problemi di salute, s’inventa una nuova attività, quella di autore di romanzi polizieschi, prima con pseudonimi “americani”, poi, nel ‘43, pubblicando quello che è a tutti gli effetti il primo noir francese, e cioé “120, rue de la Gare” (tradotto di recente dagli Editori Riuniti). ambientato in parte in uno stalag tedesco, il romanzo propone per la prima volta il personaggio di Nestor Burma, il detective privato “che mette ko il mistero”. Tra il ‘43 e il ‘49 escono sette inchieste di Burma, i romanzi ottengono successo, il loro protagonista diventa popolare quasi come Maigret e ben quattro attori diversi (René Dary, Michel Serrault e Gérard Desarthe) lo porteranno sullo schermo. Il successo aumenterà poi a partire dal ‘53, quando Malet ha un’altra idea brillante: ambientare ognuna delle inchieste di Burma in un diverso arrondissement di Parigi. “L’idea mi venne sul ponte di Bir-Hakeim – ha raccontato -. davanti a quel paesaggio di Parigi, mi sono detto che era davvero straordinario che nessuno avesse mai pensato di fare un film su Parigi, a parte Louis feuillade. Ho avuto l’idea confusa di romanzi polizieschi che si svolgessero ognuno in un diverso quartiere”. Ne usciranno quindici, tra il ‘54 e il ‘59, cinque mancano all’appello perché la speculazione edilizia stava già cambiando il volto della città, e Malet non riconosceva più alcune delle zone che aveva amato. Nel 1948, Malet pubblica il primo volume della sua trilogia noire: “La vie est déguelasse”, e poi “Le soleil n’est pas pour nous” e “Sueur aux tripes”. E sulla differenza tra il noir e il poliziesco d’azione, con il quale il primo viene spesso confuso, Bernardi fa un’utile puntualizzazione. “Nel poliziesco il male è un “accidente”; si tratta dunque di rimettere le cose al loro posto ripristinando l’ordine precedente; nel noir invece il male è una costante”. Il primo “ha una sostanziale attitudine rassicurante e consolatoria, il secondo è sempre eversivo”. In ogni caso, della scuola noir francese, Malet è considerato il precursore e l’esponente più rappresentativo. Cosa che anche gli autori venuti dopo (quelli dl “nuovo noir”) sono pronti a riconoscere (“Malet non deve niente a nessuno, il polar gli deve tutto”). Il Malet della “Trilogia” è uno scrittore in apparenza zoliano (non a caso i romanzi con Burma saranno complessivamente intitolati “i nuovi misteri” di Parigi). i romanzi si svolgono prevalentemente in periferie che sembrano ancora ottocentesche, in ambienti degradati, tra odori immondi, esalazioni venefiche, esistenze destinate comunque a bruciarsi. Ma c’è, in più, lo spirito anarchico e, imprevedibile, l richiamo a Freud e alla psicoanalisi. Così, ne “la vita è uno schifo”, il protagonista Jean è un giovane anarchico che, diventato rapinatore e assassino per la “Causa” e respinto poi dai suoi stessi compagni “legatisti”,, si avvita in una spirale distruttiva, e autodistruttiva, costellata di cadaveri e dalla quale gli sarà impossibile uscire, anche se a un certo punto l’intervento di un psicanalista sembra riuscire a fargli capire il motivo profondo della irresistibile pulsione di morte che gli impedisce di godere perfino dei momenti che potrebbero essere felici. Una disperazione assoluta e irrimediabile, dunque; esistenze segnate da un destino negativo al quale è impossibile sfuggire; la consapevolezza che niente è possibile fare perché, tanto, “la vie est déguelasse”, la vita è uno schifo, come ossessivamente ripete Jean. Sono queste le caratteristiche del Malet della “Trilogia”, e ne fanno, nonostante certe cadute ed eccessi ingiustificabili, un autore significativo tra quelli che hanno abbracciato la bandiera del nichilismo. Insomma, più noir di così non si può.

 

Angelo Ascoli, IL GIORNALE
– 23/05/2002

 

Le donne, i quartieri e gli assassini nella Parigi di Léo Malet

 

Chi sia George Simenon e il commissario Maigret, lo sappiamo tutti. Chi sia Léo Malet, l’abbiamo cominciato ad imparare un paio di anni fa, quando l’editore Fazi ricordò agli italiani che in Francia, nel novecento, era vissuto un vero scrittore, uno di quelli che scriveva romanzi noir, ma siccome per i critici europei il romanzo noir è sempre stato considerato di serie B, almeno fino a quando i critici americani non hanno dettato il contrordine, allora non era tanto facile conoscere Malet e trovare i suoi libri. Nel marzo del 2002 Fazi pubblicò La Vita è uno schifo, e fu come se un pugno avesse colpito lo stomaco debole dei lettori italiani: qualcuno fece il nome di Camus, altri si limitarono a dire che era un capolavoro, i lettori si accontentarono di scoprire un grande scrittore e un vero romanzo. Nel marzo dello scorso anno fu la volta di Il Sole non è per noi, un altro romanzo che è così bello da leggere e che sembra scritto in maniera così semplice come solo i grandi sano fare. Come Simenon per esempio. E proprio come Simenon, Malet, tra un romanzo e un altro in cui raccontava i meccanismi delle azioni umane , le tenebre da cui nascono i piccoli e grandi delitti, gli spruzzi di sole che li illuminano, anche se per una volta, li rendono per sempre splendenti, si divertiva a scrivere e incassare soldi inventando un fratello minore del commisario Maigret, un po’ più sbruffone e molto più disperato: Nestor Burma, detective proprietario dell’agenzia di investigazioni private Fiat Lux. “Con la pipa in bocca, le mani infilate nelle tasche della mia canadese foderata di pelliccia e i piedi calzati dalla comoda suola molto spessa” Nestor Burma si aggira per le strade di Parigi come un lupo solitario; come ogni detective che si rispetti, come i suoi cugini americani, a Burma i guai capitano addosso sempre per caso e sempre portati dalle gambe lunghe e dal respiro affannoso di qualche bella donna e mentre cerca di evitarli deve stare attento a non pestare i piedi e a non farsi pestare le ossa dalla polizia, nella persona del commissari Florimond Faroux. Prendiamo Nebbia sul ponte di Tolbiac (pag. 159, euro 8,50) e Febbre al Marais (pagg. 174, euro 8,50) i primi due dei quindici “misteri di Parigi” che adesso Fazi pubblica per la prima volta in Italia (ogni romanzo è dedicato ad un arrondissement parigino, andando a comporre una geografia umana e sociale della città che pochi scrittori moderni hanno saputo inventare). Nel primo c’è, naturalmente, un delitto e un assassino da scoprire. Un vecchio calzolaio anarchico e solitario, viene ucciso ma prima di morire riesce ad avvertire Burma. Naturalmente l’investigatore scoprirà l’assassino del vecchio anarchico, così come in Febbre del Marais troverà la mano che ha pugnalato l’usuraio Jules Cabirol.
Ed è chiaro che lo farà solo dopo aver amato donne che hanno “la gonna di feltro, animata dal dolce e armonioso movimento delle anche (…) la sua voce dal timbro voluttuoso, un po’ rauco, aveva un tono stanco, melanconico. Nelle pupille castano scure striate da pagliuzze dorate si leggeva una tristezza infinita, se non un accenno di paura”. E le donne di Nestor Burma ci sembra di averle incontrate in tanti film francesi e americani degli anni quaranta e cinquanta, così come abbiamo già fissato negli occhi di Burma tutte le volte che qualche cattivo esagera a far le sue porcherie e qualche debole non ce la fa più a sopportarle

La vita è uno schifo - RASSEGNA STAMPA

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