Léo Malet
Il sole non è per noi
A cura di Luigi Bernardi
Quando si arriva a Parigi troppo giovani bisogna fare attenzione: è facile finire nei guai. André Arnal, aspirante artista giunto dalla provincia, ne fa esperienza sulla propria pelle finendo in prigione per vagabondaggio. È il 1926, «l’epoca della gioia di vivere», come annota con sarcasmo Léo Malet. Rilasciato dopo qualche mese, André inizia una vita di espedienti e truffe legandosi a un gruppo di ragazzi giovanissimi e, come lui, senza un lavoro e senza un tetto. Quando incontra Gina, André vi riconosce la ragazza che stava aspettando da tanto; insieme cercheranno di cominciare da capo, ma le cose andranno in modo ben diverso… Travolgente, lirico, durissimo, straziante: è difficile limitare gli aggettivi per questo romanzo, secondo della Trilogie noire dopo La vita è uno schifo; quello che è certo è che Il sole non è per noi conferma tutto lo straordinario talento narrativo di uno dei più grandi scrittori francesi del Novecento.
«Malet ha un’indubbia capacità di avvincere il lettore, di colpirlo allo stomaco, magari di farlo sentire in colpa. E il romanzo si legge d’un fiato. Non è certamente per caso che gli autori del nuovo “noir” considerino Malet il loro maestro».
Felice Piemontese, «l’Unità»
«Un maestro del genere “nero”».
Corrado Augias, «la Repubblica»
– 26/05/2001
Malet, rifiuto urbano tra débauche e utopia
Caro Léo Malet – scrive nel 1956 René Magritte complimentandosi con il romanziere francese – non viene mai a Bruxelles? C’è stato un delitto «interessante» qui: un barbiere ha strozzato un generale. Un giornale umoristico belga ha trovato le parole giuste in proposito: «La realtà supera la finzione». Ma il capostipite del noir d’Oltralpe è già abbondantemente ispirato dai faits divers di casa sua. Vi attinge, attento, forte della tradizione letteraria dei Lacenaire e dei Madrin, e del bagaglio d’illegalità acquisito in anni giovanili, facendosi interprete di quella letteratura di genere stufa dei gialli da salotto. Una letteratura che, sulle orme di Hammett e di Chandler, registra senza infingimenti il cambiamento di quadro e di atmosfera del nuovo scenario criminale uscito dalla prima guerra mondiale. E Malet, che più di tutti si avvicina a quel modello Hammet – Chandler, con tocco tutto francese, di suo, poi magari ambienta la storia in un periodo diverso, come ne Il sole non è per noi (traduzione di Luigi Bernardi, Fazi, pp.167, L. 24.000), secondo romanzo della Trilogie noir, comparso nel 1949. Comincia con la descrizione tesa e poetica di un atto di insubordinazione serale nel minorile parigino de La petite-Roquette. Lì il sedicenne André Arnal, squattrinato senza-famiglia con velleità artistiche, sta scontando due mesi per vagabondaggio. La porta della cella si aprirà presto per lui, ma solo per gettarlo più in basso lungo la china. «Quando un uomo è caduto in un pozzo, non importa cosa lo spinge. E’ il suo stesso peso che lo fa precipitare in fondo il più in fretta possibile». Malet mette in epigrafe la frase di John Webster come a chiarire subito che per le vittime, per gli «scarti» non c’è salvezza possibile: rabbia e rivolta sì, ma non riscatto sociale. Il successivo itinerario di sangue e morte che André subirà o compirà come in un incubo prestabilito (un matricidio involontariamente «suggerito», l’uccisione di un pappone a rasoiate, un aborto dagli esiti tragici), sarà quindi la beffarda conferma che il sole vero, per i perdenti, sorge solo il giorno del patibolo.
Un noir d’impronta surrealista e céliniana, questo di Malet, che restituisce le atmosfere di una Parigi sordida, miserabile e luciferina, descritta con la precisione chirurgica che già connotava le avventure del detective Nestor Burma. Fra la schiuma di un proletariato parigino che traffica e annaspa tra Les halles e Place d’Italie, André troverà del resto alcune sponde – un anarchico vegetariano, un operaio generoso e infine l’amour fou – ma, più che occasioni, esse si riveleranno alla fine feroci abbagli, equivoci amari, ulteriori spinte verso l’ultima porta. Il ragazzo è infatti un essere-per-la-morte gettato «nell’epoca della gioia di vivere», come ironicamente premette l’autore.
E sordida davvero è la Parigi di André: quella degli anni venti in cui la miseria non scelta dei «rifiuti urbani», in bilico ai bordi della vita, incontrava quella (o addirittura si estetizzava in quella) delle avanguardie artistiche in bilico tra débauche e utopia, tra dépense esistenziale e impegno politico: la Parigi di Magritte (che disegnerà le copertine dei romanzi di Malet) e di Breton, il quale risponderà a una lettera del prolifico Léo, indirizzandolo alla scrittura.
Proprio al surrealismo, Léo Malet (1909-1996) dedicherà alcune raccolte di poesie e dieci anni di impegno, dal 1930 al 1940. Ma come il protagonista del suo romanzo, egli aveva lasciato il sole del sud per cercare fortuna a Parigi, e, nella sua prosa, questa nota «plebea» resterà prevalente sulle atmosfere respirate nel circolo di Breton. A sedici anni, ospite dell’anarchico Colomer di cui condivideva l’ardore sovversivo, viveva alla giornata: faceva il cabarettista a Montmartre, trasportava bidet per un’impresa idraulica, scriveva poesie contro la guerra. Rimasto, proprio come André, orfano da piccolo, era stato allevato da un nonno anarchico che gli aveva trasmesso l’amore per la lettura e un indomabile anticonformismo di sapore stirneriano che, in una Francia sempre in fremito per i Bonnot e i Ravachol, gli avrebbe regalato un’adolescenza politica di attentati mai realizzati e piccole combines andate a vuoto. Strana figura di uomo e dis crittore, in cui una lingua forte e quasi rude media risonanze culturali tipicamente parigine. Il nichilismo dostoevskiano, filtrato da Gide e Céline; le tematiche surrealiste del sogno, della rivolta, e dell’amour fou come eros e thanatos; un certo proto-esistenzialismo di cui può esser considerato il portavoce più riuscito il famoso Nestor Burma, detective protagonista dei «Nouveaux Mystères de Paris» anni cinquanta, poi messo in strisce con successo da Jacques Tardi nell’81. Proprio Burma ci offre la migliore espressione di una filosofia disincantata, amara e tenera, fondata sulla disponibilità a battersi per l’uomo, ma anche pronta a ironizzare sulla sua presunta «dignità». E tuttavia questa poetica dei perdenti risulta più lucida e aspra nei romanzi iniziali (come La vita è uno schifo e, appunto, Il sole non è per noi), e non per caso ha segnato in modo particolare la generazione di Manchette e Daeninckx, producendo anche nel recente Il sole dei morenti di Izzo una eco di spessore.
Ma su quella giovinezza «politica» e, in parte, anche su quella letteraria, un Malet anziano, ipocondriaco e rancoroso, sputerà parecchio fiele nella sua veste di «anarchico di destra», gettando anche una luce razzista sull’origine di alcuni personaggi «cattivi» nei suoi romanzi principali, come i due arabi viziati de il sole non è per noi. Eppure, non c’è alcun semplicismo letterario nei suoi maudits. Piuttosto li contrassegna il grido rauco di un Sisifo plebeo, l’impossibile evasione da un fato incomprensibile, una addizione di male al male che non cerca escatologie collettive, ma si fa domanda essa stessa, perché in realtà non ha più domande da porre.
– 01/06/2001
Léo Malet, Il sole non è per noi
Quando racconta che la miseria è un ergastolo a vita, sembra di sentire la musica di Céline. Per Léo Malet la fatalità del crimine sta scritta nel delitto di essere nato dalla parte sbagliata della vita. Questo è il destino di André Arnal, protagonista e vittima de Il sole non è per noi (Fazi Editore, pp.160, Lire 24.000). Il suo mondo senza speranza conosce tutte le varietà del nero, se appare un raggio di luce può soltanto, illuminare il male.
– 23/05/2002
Le donne, i quartieri e gli assassini nella Parigi di Léo Malet
Chi sia George Simenon e il commissario Maigret, lo sappiamo tutti. Chi sia Léo Malet, l’abbiamo cominciato ad imparare un paio di anni fa, quando l’editore Fazi ricordò agli italiani che in Francia, nel novecento, era vissuto un vero scrittore, uno di quelli che scriveva romanzi noir, ma siccome per i critici europei il romanzo noir è sempre stato considerato di serie B, almeno fino a quando i critici americani non hanno dettato il contrordine, allora non era tanto facile conoscere Malet e trovare i suoi libri. Nel marzo del 2002 Fazi pubblicò La Vita è uno schifo, e fu come se un pugno avesse colpito lo stomaco debole dei lettori italiani: qualcuno fece il nome di Camus, altri si limitarono a dire che era un capolavoro, i lettori si accontentarono di scoprire un grande scrittore e un vero romanzo. Nel marzo dello scorso anno fu la volta di Il Sole non è per noi, un altro romanzo che è così bello da leggere e che sembra scritto in maniera così semplice come solo i grandi sano fare. Come Simenon per esempio. E proprio come Simenon, Malet, tra un romanzo e un altro in cui raccontava i meccanismi delle azioni umane , le tenebre da cui nascono i piccoli e grandi delitti, gli spruzzi di sole che li illuminano, anche se per una volta, li rendono per sempre splendenti, si divertiva a scrivere e incassare soldi inventando un fratello minore del commisario Maigret, un po’ più sbruffone e molto più disperato: Nestor Burma, detective proprietario dell’agenzia di investigazioni private Fiat Lux. “Con la pipa in bocca, le mani infilate nelle tasche della mia canadese foderata di pelliccia e i piedi calzati dalla comoda suola molto spessa” Nestor Burma si aggira per le strade di Parigi come un lupo solitario; come ogni detective che si rispetti, come i suoi cugini americani, a Burma i guai capitano addosso sempre per caso e sempre portati dalle gambe lunghe e dal respiro affannoso di qualche bella donna e mentre cerca di evitarli deve stare attento a non pestare i piedi e a non farsi pestare le ossa dalla polizia, nella persona del commissari Florimond Faroux. Prendiamo Nebbia sul ponte di Tolbiac (pag. 159, euro 8,50) e Febbre al Marais (pagg. 174, euro 8,50) i primi due dei quindici “misteri di Parigi” che adesso Fazi pubblica per la prima volta in Italia (ogni romanzo è dedicato ad un arrondissement parigino, andando a comporre una geografia umana e sociale della città che pochi scrittori moderni hanno saputo inventare). Nel primo c’è, naturalmente, un delitto e un assassino da scoprire. Un vecchio calzolaio anarchico e solitario, viene ucciso ma prima di morire riesce ad avvertire Burma. Naturalmente l’investigatore scoprirà l’assassino del vecchio anarchico, così come in Febbre del Marais troverà la mano che ha pugnalato l’usuraio Jules Cabirol.
Ed è chiaro che lo farà solo dopo aver amato donne che hanno “la gonna di feltro, animata dal dolce e armonioso movimento delle anche (…) la sua voce dal timbro voluttuoso, un po’ rauco, aveva un tono stanco, melanconico. Nelle pupille castano scure striate da pagliuzze dorate si leggeva una tristezza infinita, se non un accenno di paura”. E le donne di Nestor Burma ci sembra di averle incontrate in tanti film francesi e americani degli anni quaranta e cinquanta, così come abbiamo già fissato negli occhi di Burma tutte le volte che qualche cattivo esagera a far le sue porcherie e qualche debole non ce la fa più a sopportarle
– 29/06/2001
Randagio della vita
Un personaggio, lo scrittore francese Léo Malet, lo è stato senz’altro. Anarchico, surrealista, vagabondo, chansonnier, e infine autore di libri di grande successo che lo fanno considerare a giusta ragione il fondatore del noir francese.
Il suo personaggio principale – Néstor Burma, “il detective che mette ko il mistero” – è in Francia popolarissimo, grazie anche alle numerose versioni cinematografiche e, più di recente, alle splendide trasposizioni a fumetti del grande disegnatore Jacques Tardi. E, da qualche tempo, il nome di Malet ha cominciato a diventare famigliare anche al lettore italiano, grazie soprattutto a Luigi Bernardi, che dopo averlo lanciato alcuni anni fa (senza che nessuno se ne accorgesse) con una piccola casa editrice bolognese oggi scomparsa, Granatapress, lo ha riproposto l’anno scorso presso l’editore romano Fazi, che c’ha puntato molto (altri libri di Malet sono usciti nei Gialli Mondadori e dagli Editori Riuniti).
Nato a Montpellier nel 1909, in una famiglia modestissima, Malet perse ancora bambino entrambi i genitori, e fu allevato dal nonno, vecchio anarchico individualista. Trasferitosi a Parigi, fece numerosi mestieri (dopo un periodo di vagabondaggio, che lo portò anche in carcere), tra cui lo chansonnier in un cabaret di Montmartre. Completamente autodidatta, scoprì per caso il surrealismo, e diventò in breve tempo il più giovane componente del gruppo, molto apprezzato da Breton, Magritte, Dalì e compagnia. Ma, insofferente di ogni disciplina, sarà presto fuori dall’avventura surrealista, riprendendo piuttosto le vecchie frequentazioni nell’ambiente libertario. Nel 1940 finisce di nuovo in prigione. Non più per piccoli reati, ma per “attentato alla sicurezza interna ed esterna dello Stato”. Roba da ghigliottina, insomma, tanto più in tempo di guerra. Ma riesce a venirne fuori ed è deportato in un campo di concentramento nazista, lo Stalag X2. Ci rimane un anno. E finalmente, nel dopoguerra, dà il via alla sua attività di scrittore popolare. Muore nel 1996. E negli ultimi anni, prigioniero di una spirale di risentimenti e di veleni, aveva trovato il modo di contraddire tutto se stesso, accostandosi addirittura alle posizioni razziste e xenofobe di un personaggio che, in Francia almeno, tutti considerano immondo: il Le Pen del Fronte Nazionale. I libri pubblicati da Fazi (due finora) appartengono alla famosa trilogia noire, cominciata nel 1948. Il primo è intitolato La vita è uno schifo, il secondo, appena uscito, Il sole non è per noi. Seguirà Sueur aux tripes. Numerosi, nel romanzo adesso in libreria, i riferimenti autobiografici. Siamo nel 1926, “epoca della gioia di vivere”, come dice Malet con feroce sarcasmo all’inizio del libro. Il protagonista André Arnal, orfano e in balia di se stesso, si è trasferito a Parigi dalla provincia con qualche vaga aspirazione artistica (sa disegnare bene) ed è subito finito nei guai. Arrestato per vagabondaggio e rilasciato dopo qualche mese, si lega ad altri sbandati con i quali vive di espedienti, non senza aver provato perfino a lavorare onestamente. Conosce l’amore, grazie a una ragazza che fa parte del gruppo, ma si capisce subito che si tratta di un amore disperato e senza prospettive. E imboccare la via del crimine sarà anche per Arnal una specie di scelta obbligata, dettata da un destino al quale sarebbe inutile cercare di opporsi.
Ed è proprio questa la caratteristica principale di Malet: un nichilismo assoluto, una visione nerissima della vita, dei rapporti interpersonali e perfino amorosi. I suoi personaggi sono dominati da un senso di ineluttabilità, da una consapevolezza amara e disperata che il loro destino è segnato da sempre e che nulla potrà farlo cambiare. Non c’è luce che possa illuminarne l’esistenza (che si svolge in ambienti che sembrano quelli di Sue o di Zola, una Parigi poverissima e degradata), perfino il sole – come dice il titolo del libro – è a loro negato. E appare immediatamente inutile e velleitario ogni tentativo di uscire da una simile condizione di abbrutimento e di disperazione, se non per pochi istanti, nell’attesa che ricominci il corso “normale” delle cose. Una visione così estrema della vita produce, quasi inevitabilmente, eccessi narrativi, ridondanze, psicologie approssimative, effettacci tipici della letteratura “di genere”. Ma nonostante tutto questo (o forse grazie anche a questo) Malet riesce ad avvincere anche il lettore più avvertito, chiamato qui a fare i conti con una tradizione narrativa che ha avuto i suoi momenti esaltanti e che viene riproposta con indubbia efficacia e originalità. Del resto, non è un caso che Malet sia considerato un maestro dagli scrittori del nuovo noir francese (“Malet non deve niente a nessuno, il polar gli deve tutto”, è stato scritto). Autori cioè come Manchette, Daeninckx, Raynal, Pouy, tutti provenienti dall’ultrasinistra, e convinti – non senza ragioni – che il noir sia l’unica forma possibile di romanzo realista oggi, quella che consente cioè di raccontare la realtà dei nuovi ghetti suburbani, del razzismo, dell’affarismo, della corruzione.
Léo Malet, la violenza come destino
Duro e aspro, lacerante e violento, Il sole non è per noi (Fazi Editore, pagg. 168, lire 24mila) é il secondo romanzo della Trilogie noir, pubblicato per a prima volta nel 1949, un anno dopo La vita é uno schifo. Quando l’editore Eric Losfeld nel 1969 decide di dare alle stampe la Trilogie noir, il nome di Léo Malet non é più quello di uno sconosciuto. Prima rivaleggia con gli scrittori americani (utilizzando vari pseudonimi come Frank Harding, Omar Refreger, Léo Latimer), poi crea Nestor Burma, un detective privato squattrinato, cinico e sentimentale, che mette “knock out il mistero” imponendosi con George Simenon come un esponente di spicco del romanzo poliziesco. Vince il Grand Prix de Litérature Policière e il Grand Prix de l’humour noir. Malgrado la fama ottenuta, Malet non si accontenta dei romanzi polizieschi e decide di cimentarsi in un altro genere: sì, appunto, il noir, di cui diventerà un maestro (tra gli altri gli sono debitori Didier Daeninckx, Jean – Patrick Manchette, Harvè Prudon). Un genere in cui la bontà non esiste, a dominare é sempre il male e per combatterlo – secondo una visione eversiva – c’é bisogno di un male più spietato e radicale.Se La vita é uno schifo può essere considerato il capolavoro di Léo Malet, Il sole non é per noi ( anche questo con riferimenti autobiografici) riconferma il talento di uno scrittore dotato di un grande vigore espressivo e insuperabile nel descrivere con uno stile affilato personaggi, ambienti e atmosfere. Il protagonista del romanzo, André Arnal, quando arriva a Parigi dalla provincia ha 17 anni, la stessa età di Léo Malet allorché giunge nella capitale. Rimasto orfano, allevato dal nonno il suo “maestro” é André Colomer, militante anarchico, redattore capo di Libertaire e fondatore di L’insurgé. E’ Colomer che lo spinge ad abbandonare Montpellier per trasferirsi a Parigi. Ma Léo si esibisce come chansonnier al cabaret della Vache Enragée di Montmartre. Frequenta i bistrot, i circoli anarchici, i mercati generali. Fa il manovale, la comparsa, il venditore ambulante. E intanto scrive. Nel 1931, suggestionato dalla concezione rivoluzionaria e dalla scrittura automatica dei surrealisti, conosce in un bar André Breton e fino al 1940 farà parte della sua “banda”. Sarà René Magritte a disegnare la sovracopertina della Trilogie noir.In Il sole non é per noi affiora la filosofia dello scrittore: nella vita non c’é niente di logico e di giusto. Ognuno é segnato dal destino, se inciampa e cade, scivola giù e a salvarlo non c’é nessuno; André Arnal, aspirante artista, non riesce a vendere i suoi disegni. E’ stanco, senza neppure mezzo franco, vagabonda per la città fin quando si ferma sotto un ponte a chiacchierare con un clochard. Arrestato, rimane due mesi in prigione. L’avvocato difensore gli dice che quando si arriva a Parigi troppo giovani bisogna fare attenzione. “Io mi sono scordato di chiedergli quali fossero gli eventuali pericoli. Di fatto me ne sbattevo. La mia costante apatia faceva sì che non mi aspettassi nulla, né di buono né di cattivo, né da dentro né da fuori”.Il giovane André Arnal é destinato alla perdizione. Liberato dal carcere insieme ad un altro ragazzo, si trova ad essere lo spettatore di un macabro episodio. Quasi l’antefatto di quello che avverrà in seguito. Léo Malet fa muovere André in una Parigi periferica dai colori plumbei: edifici che sono tuguri, discinte prostitute agli angoli delle strade, dormitori dall’odore rancido, bistrot frequentati da avventori ricoperti di stracci. André riesce a trovare un lavoro in una fonderia e anche un posto per dormire. Ma i guai ricominciano subito. Con la complicità di un medico disonosto, truffa l’assicurazione simulando un infortunio. Diventa amico di Fredo, un tipo ambiguo con cui bighellona sui bastioni e frequenta uno scalcinato cinematografo. Fredo gli presenta, oltre ad alcuni “figli dei bassifondi”, la sorella Gina, “selvaggia e canagliesca bellezza”. La ragazza attrae André come una calamita e lui non fa che pensare a lei. In una scena di derivazione surrealista la sogna mentre si arrampicano sullaTorre Eiffel e sventola una bandiera nera.Amore e morte. Dal momento di quell’incontro la storia assume connotati lividi e orridi per poi sgretolarsi . Certo, la povertà e l’indigenza hanno la loro parte nello stato di abiezione che Malet descrive. Ma lui va oltre: la sua denuncia letteraria più che sociale é esistenziale, non solo contro la società ma contro il mondo. Afferma André: “Solidarietà, strana parola”. Nessuna possibilità di riscatto collettivo. Neppure l’amore é una salvezza. Come per un contagio, divampa la furia omicida. Anche Gina muore. André cerca una pianta, deposita la ragazza “in corrispondenza ad uno squarcio da cui il sole mattutino l’avrebbe riscaldata”.
In vetrina
Malet, Pagan, Jonquet all’insegna del thriller
Dobbiamo alla Francia la scoperta e il trapianto dei maestri americani delle black stories nell’Europa del dopoguerra: Woolrich, Goodis, Thompson. Una lezione che ha fatto scuola Oltralpe, alimentando una vocazione per le tonalità cupe del noir estranea ad altri autori del continente che non possono vantare parentele dirette con l’esistenzialismo, con le provocazioni del surrealismo e di altre avanguardie parigine. Con il clima culturale insomma in cui é maturato Leo Malet, uno dei padri storici del giallo francese, l’inventore di Nestor Burma, detective sbruffone che all’epoca faceva da contraltare al burbero e paterno Maigret di Simenon. Di Malet la casa editrice fazi ha cominciato a dissotterrare i romanzi più impegnati e meno noti. Dopo La vita é uno schifo, pubblicato con grande successo l’anno scorso, ecco Il sole non é per noi (24mila lire, 168 pagine). Sicuramente più forte ed intenso del primo. Una discesa senza tappe d’arresto nell’inferno della violenza e del fato lungo la scala di corda di un altro amore folle e spericolato: quello di un vagabondo diciotenne per una minorenne strappata a un torbido giro di sorprusi familiari e prostituzione. Storia tenera, trafelata e disperata, che solo un anarchico disilluso, un nipotino di Celine come Malet poteva immaginare.
– 04/02/2001
gialli
Discesa agli inferiper avere diritto al sole
Se volete sapere che cos’è l’inferno in terra, l’impossibilità di uscire da una disperata condizione, allora leggete questo secondo romanzo che fa parte della trilogia nera (il primo è stato pubblicato sempre da Fazi, La vita è uno schifo) di Leo Malet. Il protagonista è la città che stravolge e respinge i suoi abitanti, spesso senza dare alcuna possibilità di uscire fuori dal tunnel di una vita ringhiosa e crudele. Come è abitudine di Malet, grande amico di Breton e dei surrealisti ma anche con forte attrazione per l’esistenzialismo di Sartre o Camus, fa raccontare alle vittime del romanzo la loro discesa verso un punto senza ritorno. Perché nel noir, diverso dall’hardboiled, non ci sono buoni e cattivi, cattiva semmai è la città o la vita stessa. Il male non è un accidente ma una predestinazione impossibile da sovvertire («Il male si combatte solo con un male più grande»). André Arnal ha sedici anni e senza alcuno al mondo. Gira per Parigi. Non ha casa né lavoro. Viene beccato dalla polizia mentre si consola con un clochard sotto un ponte. Qualche mese di galera per vagabondaggio. Poi libero. Si barcamena tra un lavoro e un altro. Qualche piccola truffa con l’assicurazione, il folle amore per Gina, sua coetanea. La fuga in campagna e, come la peste, ecco il delitto, anzi i delitti. La morte di Gina che André non ha il coraggio di mettere sotto terra: la depone piuttosto sui rami in alto d’un albero perché possa finalmente prendere un po’ di sole.