Leo Perutz

La neve di San Pietro

COD: 1385974ed590 Categorie: , , Tag:

Collana:
Numero collana:
40
Pagine:
184
Codice ISBN:
9788881120734
Prezzo cartaceo:
€ 14,00
Data pubblicazione:
01-04-1998

Introduzione di Marino Freschi
Traduzione di Carlo Sandrelli

“Perché la fede in Dio scompare dal mondo?”. La domanda ricorre nel racconto del dottor Amberg, io narrante proiettato nel labirinto di una vicenda dove le strade della realtà si intrecciano con le spirali dell’allucinazione. Invitato come medico condotto nel villaggio vestfalico di Morwede dall’ultraconservatore barone von Malchin, Amberg è messo al corrente del progetto di quest’ultimo: restituire al mondo la sua fede e il suo imperatore. L’esperimento dell’eccentrico aristocratico produrrà esiti imprevisti: le potenze irrazionali dell’entusiasmo fanatico e del delirio collettivo, una volta evocate, si ribellano all’apprendista stregone che si illude di indirizzarle verso i suoi fini. Nella storia della Neve di San Pietroburgo, raccontata da Perutz nel 1932 con magistrale talento affabulatorio, non è difficile leggere la metafora delle terribili inquietudini che si agitano nel mondo tedesco e si scateneranno di lì a poco.

«Ciò che possediamo in sogno non ci può essere tolto da nessun mondo di nemici».

LA NEVE DI SAN PIETRO – RECENSIONI

 

AVVENIRE
– 07/04/1998

Speciale. Tanti consigli per non perdere l’occasione più preziosa dell’anno. Perchè anche sotto.

Avviso ai vacanzieri, è…

 

La mole è quasi la stessa del libro di Djaout ma la prosa è più astratta, la lettura più impegnativa. Insomma meglio riservare un po’ più di tempo al Romanzo del fenotipo di Gottfried Benn (Adelphi; pagine 190 L. 32.000), grande scrittore tedesco che non ha mai fatto nulla per ingraziarsi i gusti del pubblico. Volete un’alternativa meno impervia? Ecco La neve di San Pietro del praghese Leo Perutz (Fazi, pagine 200, L. 28.000), che qui sembra addirittura sfiorare l’intreccio umoristico. Ma il libro è del 1932 una data che mette poca voglia di scherzare.

 

Alessandro Scurani, LETTURE
– 02/01/1999

 

La contagiosa droga della rivoluzione

Leo Perutz, La neve di San Pietro

Perutz appartiene a quel gruppo di scrittori mitteleuropei, che crebbero all’interno della cultura tedesca. Nato nel 1894, di razza ebraica visse gli anni giovanili a Praga, nella cerchia dei Kafka, Rilke, Kubin, Meyrink… si recò ben presto a Vienna dove brillavano Musil, Freud, Brehm… A Vienna risentì forse anche del neopositivismo di Wittgenstein. Ne troviamo i segni in ‘La neve di San Pietro’ scritto nel 1932 alla vigilia dell’ avvento di Hitler al potere. In seguito, Perutz partì per la Palestrina ma continuò a considerarsi tedesco, suddito di quella vecchia Austria asburgica, di cui non perse mai la nostalgia. ‘La neve di San Pietro è l’unico romanzo di Perutz di argomento direttamente politico. A Morwerge, in Westfalia, dove ha ottenuto il posto di medico condotto il protagonista conosce il barone russo Melchin che ha un progetto ambizioso: ricondurre il mondo ai tempi del grande imperatore Federico 2°. Erede di tale sogno è un terzo Federico, ancora ragazzo, dotato di qualità eccezionali. Strumento di questo ritorno al mondo antico è una droga ricavata da un cereale, che riporterà la religiosità e l’estasi sulla terra. In Westfalia la chiamano la neve di San Pietro; i contadini, il fuoco della Madonna. Invano il vecchio parroco ammonisce a non lasciarsi ingannare. L’oggetto della nuova fede non sarà frutto di grazia soprannaturale ma falso idolo. I contadini cadono nell’inganno. Nell’ inganno cade anche Babiche, l’affascinante chimica che il dottore aveva conosciuto all’università e che ritrova con stupore a Morwege. I soli che non provano la droga sono il barone Melchin, Federico, il parroco, il dottor Perutz. Ed ecco che un giorno la falsa religiosità getta la maschera: si tratta dello spirito della rivoluzione. A capo della rivolta proletaria dei contadini c’è Babiche e accanto a lei il russo Paxatim, l’ultimo dei Rurik, e il maestro del villaggio, finalmente veritiero. Il barone Melchin viene travolto. Il dottore stesso finisce all’ospedale. Nei tormenti della convalescenza Leo ripercorre allucinato la vicenda senza credere a sé stesso. ‘La neve di San Pietro’ è un romanzo dove fantasia e curiosità scientifica si mescolano; dove ideologia e poesia convivono in una serie di gialli sovrapposti e vivaci.

 

Giovanni Masciola, L’ARENA

“La neve di San Pietro” di Leo Perutz

Piccoli affreschi di un denso mondo germanico

 

Nel vasto firmamento della letteratura del secolo ventesimo, l’opera di Leo Perutz merita sicuramente un posto di rilievo. Ebreo praghese di lingua tedesca, Perutz si è sempre contraddistinto per l’originalità della sua produzione, sospesa, per alcuni tra Kafka ed Agatha Christie. In realtà, forse, la cifra che caratterizza la sua scrittura è quella d’un realismo fantastico. Ed è proprio di questi giorni la prima uscita in lingua italiana de La neve di San Pietro, un breve ed affascinante romanzo toccato dal segno della profezia. Scritto nel 1932, attraverso la vicenda d’un medico Amberg, io narrante autobiografico, il racconto preconizza in termini metaforici l’ascesa, gli orrori e la caduta del nazismo. Con lo stile schietto e sicuro d’un narratore americano di quegli anni, Perutz ci porta nel denso mondo germanico di ieri ed in quello di sempre. Non a caso, infatti, l’azione si svolge nell’inquieta terra di Westfalia, che tanta parte aveva avuto nel terrificante scontro tra mondo cattolico e protestante nelle infuocate giornate della guerra dei Trent’anni. Delle quasi ancestrali tensioni resta un filo, come un lieve brivido di fondo, che corre per tutto il libro, per esplodere nell’episodio risolutivo. Del resto la fortissima sensibilità di Perutz è impregnata degli umori della sua Praga, cattolica, protestante ed ebrea, sede degli imperatori della casa d’Asburgo dall’ortodossia ineccepibile, ma anche pulpito di irriducibili eresiarchi come Jan Hus, città prediletta dal saturnino Rodolfo e corte fastosa dei suoi astrologi e alchimisti, pauroso luogo della creazione e dei casi del mitico Golem. Quegli umori Perutz li metabolizza di certo, ma solo in parte li fa trasparire, riuscendo sempre a mantenere la leggerezza del racconto, che solo nel momento topico diviene spaventoso. L’autore ci porta in uno spazio agreste ed invernale pressoché immoto. A dare ritmo agli eventi è la forsennata ricerca del barone von Malchin e l’imprevedibile atteggiamento di Bibliche, un’alabastrina bellezza greca, raggio di luce abbagliante nella soporosa e malinconica solitudine della campagna tedesca innevata. La singolare figura di von Malchin vive divisa tra lo spasimo del raggiungimento del risultato e l’incessante vagheggiamento d’un passato che in parte lo stesso Perutz ama e condivide. Così il protagonista viene reso partecipe del progetto del barone, del suo sogno di restaurazione imperiale. Lo scrittore ci porta con incredibile naturalezza nel mondo della casa di Svevia, ricorda e ricrea le vicende degli Hoenstaufen, Staufer familiarmente chiamati in Germania, per un attimo c’illude che le parole della Sibilla stiano per avverarsi. La leggenda del risveglio del grande Federico Barbarossa, che dorme attorniato dai suoi sette cavalieri più fedeli nelle caverna del Kyffhaüser, il monte della Turingia che lo custodisce e lo restituirà alla nazione tedesca per guidarne la vittoria, sembra vera come una notizia di cronaca. Poi con impareggiabile maestria ed un salto spazio-temporale vertiginoso, Perutz ci riporta alla verosimiglianza, se non all’autentica realtà. E’ questo l’aspetto più caratteristico della sua arte ricorrente in tutti i suoi scritti. Ad esempio nel Marchese di Bolibar, aveva catapultato nella storia d’un gruppo d’ufficiali tedeschi d’uno Stato satellite di Napoleone il personaggio dell’Ebreo errante. E tra i suoi motivi preferiti compare costantemente la nostalgia per l’ancien regime. Joseph Roth fu il grande cantore del mondo perduto dell’impero asburgico. Perutz gli è vicino, ma non lamenta solo la dissoluzione del dominio di Vienna, si sente legato a tutto il mondo che precedette la prima guerra mondiale ed i suoi sfrenati nazionalismi. Ebreo, Perutz si rifugia nel 1938 in Palestina, dove i fratelli dirigono delle aziende importanti. Salverà così la vita, ma anche in Medio Oriente i contrasti sono feroci e l’epoca della tolleranza è passata da un pezzo. Uomo del Mitteleuropa, abituato ad interminabili inverni, il narratore è anche impareggiabile descrittore d’ambienti. La spoglia stanza d’affitto dove è alloggiato il dottor Amberg, la ricca sala ed il caldo studio del barone von Malchin, la camera della piccola Elsie nella casa del guardiacaccia, nella foresta, l’angosciante stanza d’ospedale ad Osnabrück: sono un’autentica galleria di piccoli affreschi dipinti con la precisione calligrafica d’un fiammingo, filtrata da un sentire proprio soltanto della Praga di quegli anni.

 

 

La neve di San Pietro

 

Leonardo Sciascia era affascinato da “Il barone Bagge”, un racconto dell’austriaco Alexander Lernet – Holenia (edito da Adelphi). E si chiedeva, in un elzeviro sul Corriere della Sera, in quale preciso punto del libro il lettore, sempre più insospettito da una logica dei fatti che si va facendo poco convincente e dà dettagli assurdi e surreali, si rende conto che il narratore gli sta raccontando un sogno. Ne “La neve di San Pietro”, romanzo dell’ebreo praghese Leo Perutz (1882 – 1957), amico e maestro di Lernet – Holenia, non c’é l’effetto sorpresa di una storia consegnata secondo le regole della razionalità e della verosimiglianza che piano piano si trasforma in un delirio omerico. Fin dall’inizio é chiara la possibilità che tutto quanto viene narrato sia un’allucinazione del protagonista, ma non perciò il risultato é meno suggestivo, anzi. Il dottor Amberg, ricoverato all’ospedale di Osnabruck, é stato investito da un’auto nel piazzale della stazione ed é rimasto più di un mese privo di sensi, come tutti i medici sostengono, oppure ha trascorso questo tempo nel misterioso borgo di Morwede, ospite del barone von Malchin, accanto alla bellissima Bibiche, come sembra ricordare perfettamente? L’ambiguità é complicata dalla corrispondenza di molti persoanggi fra l’ambiente dell’ospedale e il presunto sogno: un infermiere sfuggente è il principe Praxatim, il buon parroco di Morwede appare e scompare nella corsia, la moglie del primario é l’amata Bibiche. La sensazione é che ci sia dietro un complotto per tentare di covincere il paziente di essersi immaginato tutto, perché non venga mai divulgata la notizia dei fatti terribili di cui il dottor Amberg é stato incredulo testimone. Se si dovesse etichettare il romanzo secondo una celebre classificazione del fantastico di Tzvetan Todorov, bisognerebbe ammettere che sta quasi in equilibrio fra lo stanco e il meraviglioso, cioè tra la volontà di spiegare razionalmente il soprannaturale ( il delirio di un malato) e la tentazione di accettarlo, a cui cede nel finale il protagonista. La neve di San Pietro é un parassita, un fungo dei cereali che avrebbe il potere stupefacente di condurre gli uomini all’estasi religiosa: ossessionato dal pensiero che il timore di Dio sta scomparendo dal mondo, il reazionario barone von Malchin legge in parallelo la storia della fede attraverso i millenni e il percorso di questa malattia vegetale in tutte le migrazioni. Come Jekyll, traffica con la chimica e le pozioni finchè, in una gran festa del borgo, distribuisce a tutti la grappa con il siero e attende i risultati. Come Frankestein, tutto finirà con un assalto al castello della folla inferocita, perché la fede del tempo non é più il cristianesimo, ma la rivoluzione. Prendendo le distanze dalla follia razzista del diabolico aristocratico e dalla violenza della furia proletaria, Perutz si schiera dalla parte del sogno, cioé della letteratura. Struttura con magistrale abilità un intreccio ricco ed appassionante, mescolando giuste dosi di avventura, amore e mistero, con punte di kitsch postmoderno ( c’è anche un discendente diretto di Federico II con il quale il barone sogna di restaurare l’impero) e la consueta attenzione alla storia dell’arte ( al Cenacolo milanese de “Il Giuda di Leonardo” qui corrisponde un rilievo del duomo di Palermo). Lo scrittore confeziona il tutto con il ritmo di un best seller e conclude con un delizioso elogio del sogno, “che ci restituisce con generosità quello che la vita ci nega avidamente”. E se dilegua veloce senza lasciar traccia, la realtà non é da meno: compito dello scrittore é fissare e ripercorrere ogni ricordo, ogni particolare, perché niente vada perduto. Soprattutto quello che abbiamo solamente immaginato.

 

Michele Mari, CORRIERE DELLA SERA

“La neve di S. Pietro” di Perutz

Partita a scacchi nella magica Praga

 

Chi é Leo Perutz? Uno dei più bravi scrittori del Novecento europeo, verrebbe da rispondere immediatamente. E solo secondariamente: un matematico praghese vissuto dal 1884 al 1957, impiegato nel ramo assicurativo (sinistri e incendi), appassionato di enigmistica e autore di uno dei manuali di bridge più diffusi negli anni ‘30, campione di scacchi e botanico dilettante, collezionista di ogni cosa collezionabile, poliglotta, suonatore di violino e di tromba, uomo solitario e speciale, costretto dal lavoro a lasciare ancor giovane la diletta Praga (come Rilke) per Vienna, costretto dall’Anschluss a lasciare Vienna per Tel Aviv senza per questo lasciare il tedesco (ha scritto Marino Freschi: “A tel Aviv Perutz continua a parlare la lingua dei nemici, a indossare sempre, d’inverno e d’esate, la cravatta quale simbolo discreto della Mitteleuropa, e a portare un anello con inciso un pesce con la scritta Contra currentem); Ecco, quest’uomo puntiglioso e maniaco, quest’omarino preciso, ha scritto alcuni dei libri più folli e geniali di questo secolo. Merito di Praga forse, della profonda amicizia con Kafka, dell’ammirazione per quel maestro dell’esoterismo praghese che fu Gustav Meyrink, delle suggestioni cabalistiche dell’ebraismo: merito suo perbacco, se non vogliamo cadere in un determinismo etnico-genealogico, e merito suo soprattutto perché, a differenza di tutti gli altri grandi poeti dell’ebraismo mitteleuropeo, Perutz seppe essere anche positivo, anche logico o iperlogico, anche geometrico, anche (quindi) intensamente laico se non laico-ludico. Nasce qui, all’intersezione della ripelliniana “Praga magica” con l’enigmistica, la mitologia di Perutz “ossimoro vivente”, conosciuto nell’ Europa degli anni ‘20 – ‘40 come autore di romanzi polizieschi ( come tale lo consideravano Walter Benjamin e un giovanissimo Ian Fleming) e invece in Sudamerica – grazie a Borges – come maestro fantastico, celebrato da Hermann Broch per la sua “logica del meraviglioso” e per “la meraviglia della sua logica”, visto insomma come il centauro in cui si ibridano nature letterarie apparentemente incompatibili, come più di altri ha voluto sottolineare Friedrich Torberg definendo Perutz “il risultato di un faux pas di Agatha Christie con Franz Kafka”. Di Perutz erano stati pubblicati da Adelphi due fra i suoi libri più belli, il marchese di Bolibar, ambientato in Spagna durante la campagna napoleonica del 1811 – 12, e il “settecentesco” Cavaliere svedese ( cui si é aggiunto più di recente, presso lo stesso editore, il meno convincente Tempo di spettri), mentre altre proposte sono venute negli ultimi anni dalle edizioni e/o (Di notte sotto il ponte di pietra), Studio Tesi (La nascita dell’Anticristo) e Fazi (Il giuda di Leonardo): ora proprio Fazi, con una scelta che lascia sperare in un prossimo recupero dei molti libri di Perutz che ancora mancano all’appello, manda in libreria La neve di San Pietro, romanzo fra i più fantastici e al tempo stesso fra i più storicamente premonitori. Scritto nel 1933 e ambientato nella Germania del 1932, La neve di San Pietro é un divertimento storico ( alla maniera che sraà poi del Morselli di Contrapassato prossimo) in cui non possiamo non sentire un grido d’allarme nei confronti del nazismo, se è vero che il lucido – folle protagonista, il barone Von Malchin, vuole sì riportare la fede in Europa grazie ai poteri psicotropi di un fungo parassita dei cereali (appunto la “neve” del titolo, causa occulta di tutti i grandi movimenti religiosi della Storia), ma solo al fine di ripristinare quella devozione legittimista necessaria a sua volta alla riedificazione del sacro Romano Impero: e in effetti la fede verrà, ma sarà il culto sanguinario di Moloch. I personaggi demoniaci caratterizzano del resto tutte le storie di Perutz, da quel marchese di Bolibar che sembra uscito dal Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, al mugnaio morto che recluta disperati per le infernali fonderie del vescovo nel Cavaliere svedese ( “aveva una faccia come di cuoio spagnuolo, giallognola e vizza e piena di rughe, e gli occhi confitti nella testa come due gusci di noce svuotati”), all’imperatore Rodolfo II e al Rabbi Low in Di notte sotto il ponte di pietra. Ereditato dal Golem di Meyrink, che l’aveva raccolto dalla tradizione del cabalismo ebraico, il Rabbi é il personaggio tipico di Perutz, quello in cui la sua fantasia prometeica e la sua poetica borgesiana ( il “dicitore” come Creatore) si incarnano, con una violenza e insieme una grazia irreperibili in altre rivisitazioni novecentesche del tema: penso ad esmpio al pur pregevole La vie eternelle di Jacques Attali. Furore e ricamo, angoscia e calligrafia, ossessione e divertimento: c’è in Perutz qualcosa della “doppiezza” di Goya, di Wells, di Manganelli, di Gombrowitz, poichè i molti golem dei suoi molti Rabbi sono emblemi araldici, figure di tarocchi o funzioni algebriche, e sono insieme l’urlo di Munch, le Lacrymae rerum dell’ebraismo: “ Su questo muro, con la sua forza, dalla luce lunare e dalla muffa, dalla fuliggine e dalla pioggia, dal muschio e dalla malta il rabbino fece sorgere un’immagine. Era un Ecce homo. Ma non era il Salvatore, non era Cristo. Era il popolo ebraico, perseguitato e schernito per secoli, che ha manifestato il suo dolore in quell’immagine”. Capiamo così perché questo giocoliere, tacitamente estromesso dal canone di una tradizione così attenta a salvaguardare il mito aristocratico della propria malinconia, questo picaro che ha ambientato i suoi romanzi in tutti i secoli e in tutti i paesi, abbia confidato prima di morire:” Per tutta la vita non mi sono liberato della Praga della mia giovinezza. Ho inseguito sempre il fantasma del ghetto praghese cercandolo dappertutto”.

La neve di San Pietro - RASSEGNA STAMPA

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