Giuseppe Marano racconta l’esperienza di traduzione della serie di thriller psicologici di Michael Robotham.
Quando si ha a che fare con una serialità narrativa è inevitabile stabilire un certo rapporto con la grammatica dell’autore e i suoi personaggi e, come in ogni rapporto umano, si può oscillare tra un’ampia gamma di sentimenti (dall’adorazione incondizionata all’insofferenza più profonda).
Nel caso del prolifico giallista australiano, dal punto di vista del traduttore, approcciarsi a ogni suo nuovo romanzo è un’esperienza indubbiamente piacevolissima. Perché la scrittura senza orpelli e lo stile asciutto di Robotham non presentano particolari difficoltà, non ci sono costruzioni spericolate, slang impenetrabili o espressioni astruse, e tutto è funzionale allo svolgimento della trama. E come se non bastasse, il nostro autore ha la straordinaria capacità di saper delineare i personaggi e gli ambienti con pochi tratti, appena entrano in scena. Descrizioni essenziali, dettagli, accenni: ogni particolare a suo modo è eloquente e rivelatorio. Un tatuaggio, una fabbrica abbandonata, una sputacchiera appesa al collo.
Giunti al terzo capitolo di questa serie incentrata (formalmente) sullo psicologo forense Cyrus Haven, a ogni modo, posso confessare che misurarsi con l’opera di Robotham è stato per me soprattutto fonte di grande divertimento, perché l’autore ha creato un personaggio irresistibile a cui dare voce come traduttore: Evie Cormac.
L’amabile e insopportabile Evie, protagonista assoluta di ogni episodio, creatura bifronte e bipolare, sospesa tra il candore di un’infanzia deturpata e la strafottenza ribelle e fragile di un’adolescenza segnata. A partire da Brava ragazza, cattiva ragazza, con lei la sfida è sempre stata quella di trovare un punto di equilibrio tra i due registri che si alternano senza soluzione di continuità tra le pagine dei romanzi: quello sboccato, diretto e aggressivo della teenager riottosa e quello più delicato, a tratti lirico, degli spaventosi ricordi che ne squarciano il buio del passato. Ma in questo Robotham si rivela un maestro e agevola il compito, stemperando la violenta durezza del lato oscuro con i suoi dialoghi incalzanti e le battute fulminanti. («Non voglio una carriera». «E che hai intenzione di fare nella vita?». «La nichilista professionista». O anche: «Otello era un deficiente con le pietre nel cervello». Segue esilarante dibattito politicamente scorretto sull’opera di Shakespeare).
Quanto al resto, c’è da dire che il nostro autore non lesina giochi di parole, allusioni e citazioni assortite, che spetta poi al traduttore andare a recuperare nei meandri della cultura pop. Un buon esempio a titolo di curiosità per gli appassionati del genere: la «vagigina» (“vajayjay” in originale) nel capitolo 4 è una citazione da un celebre monologo di Grey’s Anatomy, stagione 5, episodio 4 (“Il nuovo mondo”). Tra gli omaggi più o meno espliciti, dopo Joyce Carol Oates e Philip Roth nei precedenti volumi, in Inseparabili spunta un tributo al più noto giallista italiano contemporaneo, nelle sembianze femminili dell’avvocato Giana Camilleri e di una certa famiglia di baristi siciliani.
Chiudo questi brevi appunti sparsi con altre piccole minuzie per addetti ai lavori.
Verso la fine del romanzo, viene declamata la formula di rito pronunciata durante gli interrogatori della polizia britannica: «You do not have to say anything, but it may harm your defence if you do not mention now something that you later rely upon in court. Anything you do say may be given in evidence». Mi sono chiesto se ne esistesse una versione più o meno standard in lingua italiana, ma ovviamente così non è, e allora ho cercato di operare una sintesi delle varie traduzioni reperibili, spero efficace.
E a questo proposito, come qualcuno ha notato, nei tre romanzi della serie ho deciso di adattare i gradi della polizia britannica a quelli della Polizia di Stato italiana, avvalendomi di un prezioso dizionario terminologico comparato del Ministero dell’Interno. Una scelta forse opinabile, ma che nasce da un’insoddisfazione personale nel trovare spesso “sergenti”, “commissari” e “sovrintendenti” laddove in Italia andrebbero più correttamente identificati come “sovrintendenti”, “questori” e “commissari” (altrimenti sarebbe come dire che un “brigadier” è un brigadiere, e non un generale di brigata).
Un piccolo rammarico, tornando ai giochi linguistici, sta invece nel non aver trovato un valido equivalente per l’abc dell’investigatore (Assume nothing. Believe no one. Check everything). Dopo tanto scervellarmi, ho optato per la resa… e per una resa letterale.
«Non dare niente per scontato. Non credere a nessuno. Verificare tutto».
E siccome non si finisce mai di imparare, grazie a Inseparabili ho scoperto l’esistenza dell’achoo, o sindrome dello starnuto riflesso fotico. Che in inglese sembra un’onomatopea, ma sta per Autosomal Dominant Compelling Helioophtalmic Outburst.
Verificato.
Giuseppe Marano