In occasione dell’uscita di Eredità di Vigdis Hjorth, vi proponiamo l’approfondimento sul romanzo di Alessia Ragno.
L’eredità a cui allude il titolo del romanzo di Vigdis Hjorth, best seller della letteratura norvegese e finalista al National Book Award for Translate Literature nel 2019, sono due case al mare che due anziani genitori destinano solo a due dei loro quattro figli, creando scompiglio in dinamiche familiari già precarie. Al culmine della disputa, almeno quella apparente, la madre ottantenne viene portata d’urgenza in ospedale a seguito di un’overdose di pillole. Quello che sembrerà l’inizio di un cammino verso la riconciliazione e la comprensione diventa, invece, un calvario per Bergljot, la voce narrante, che porta a galla tutto quello che era rimasto in sospeso nel rapporto a lungo interrotto con la famiglia.
Il filone letterario a cui appartiene Eredità è quello della “reality literature”, come è stata chiamata in inglese, “virkelighetslitteratur” in norvegese, ovvero una categoria di romanzi che attingono esplicitamente dalla vita personale dei propri autori. Pur dopo le specifiche che Hjorth stessa ha fatto, sottolineando che si tratta di fiction, è impossibile negare che nelle crepe della famiglia di Eredità si nascondono i dolori privati dell’autrice. Molti i dettagli che si sovrappongono, in primis il passato oscuro di un padre e gli abusi commessi che rendono la vicenda spaventosamente autentica. Quello che Hjorth si chiede implicitamente, con il romanzo, è se la voce delle vittime di abusi sa essere ascoltata, soprattutto nella famiglia, e in che misura il tabù prevale sulla verità. Quello che ne risulta è un romanzo “mentale” di poche azioni e tanto rimuginare, riflettere e autoanalizzarsi di una donna che, ormai adulta, si ritrova a ricordare e a denunciare contro un imponente muro di gomma. Non siamo di fronte solo al precipitare di una famiglia disfunzionale, con quel puzzle di disgrazie che ricorda Le correzioni di Franzen, pur in un contesto storico e geografico differente, ma ci si immerge a capofitto nel treno di pensieri di una donna che deve gestire le conseguenze di un abuso, quello subito da bambina, e l’incapacità manifesta dei suoi genitori: anaffettivi, irragionevoli, a pezzi. Hjorth ricorre a ripetizioni ipnotiche di emozioni e ragionamenti, sembra non spostarsi mai dal luogo della pura consapevolezza e l’inerzia del dolore, ma quello che costruisce fino a fine romanzo è la spirale di pensieri e ragionamenti che infesta una vita danneggiata irreparabilmente da una famiglia incrinata. Un tema antico, quello della famiglia disfunzionale, ma che in Eredità assume una sfumatura tutta incentrata sugli effetti sul singolo e non sui fatti. La violenza e l’abuso non si esauriscono con il gesto in sé, che nemmeno conosciamo nei dettagli, ma perdurano nelle vittime, infestano la mente e ne traviano i pensieri.
Bergljot è subito consapevole del potere distruttivo delle dinamiche familiari, «[…] se volevo sopravvivere, se non volevo sprofondare o annegare, dovevo tenermi alla larga», e si costruisce una vita di contatti sporadici con i genitori, il fratello e le sorelle. Ma poi sono gli eventi a rimetterla faccia a faccia con quello che ha lasciato, scontrandosi anche anni dopo, con “la facciata perfetta” che i suoi volevano a tutti i costi preservare. Anche la famiglia disfunzionale di Bergljot ha i suoi riti, le sue apparenze, le sue sordità verso i bisogni del singolo e il risultato è concentrato nella protagonista: una donna scossa che si giudica duramente, si vergogna di quello che vorrebbe essere ma non è, che ha tre figli a sua volta con gli stessi suoi problemi relazionali. Bergljot si definisce “traditrice”, “scroccona”, “inquieta”, una vittima sacrificale dei “sensi di colpa irrazionali” che la travolgono quando la madre e il padre pretendono la sua vicinanza, ma solo perché è ciò che una famiglia deve fare ad ogni costo.
[…] avevo provato un tale senso di vergogna per colpa della mia rabbia, della mia aggressività, dei miei sentimenti troppo forti, incontrollabili e puerili.
L’io giudicante di Bergljot è severo specchio di quella madre bellissima, tormentata e vulnerabile che anche a 80 anni “risplendeva in tutta la sua angoscia”. Quanti danni emotivi scaturiscono da una madre infelice e un padre problematico, e quanto ci vuole per ricomporre un pensiero compassionevole verso sé stessi. «[…] ero costantemente in stato di allerta», o ancora «ero soffocata dai sensi di colpa», fino alla realizzazione della verità essenziale:
Poi ricordai a me stessa che il padre per cui provavo compassione non era mio padre, ma l’idea di padre, il suo archetipo, il mito di padre, il mio padre perduto.
Eredità è un romanzo sull’incomunicabilità delle ragioni e dei sentimenti del singolo quando il sistema famiglia è irrimediabilmente distrutto, un lungo e faticoso tentativo di mantenersi in equilibrio nonostante la perdita, il dolore, le scenate di una madre “melodrammatica” e le parole di un padre crudele. Vigdis Hjorth esplora, così, il rifiuto della famiglia, in un panorama lunare e freddo come quello dicembrino norvegese.
Quando muoiono le persone per cui abbiamo conformato la nostra esistenza allo scopo di compiacerle e ricevere il loro consenso, non avvertiamo forse un vuoto improvviso?
Ed è questo vuoto, a quanto pare, l’eredità a cui è condannata Bergljot, vittima sacrificale, ma anche fenice che risorge dalle ceneri dei suoi fallimenti emotivi indotti, una sopravvissuta che impugna il suo trauma e si riprende la libertà.
Alessia Ragno