«Favola di New York»: una storia d’amore newyorkese che sovverte il “vissero tutti felici e contenti”

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LaValle

Aspettando l’uscita, il 6 giugno, di Favola di New York di Victor LaValle, vi proponiamo la traduzione della recensione al romanzo di Terrence Rafferty, per il New York Times.

 

«Penso di odiare quelle fiabe», dichiara un anziano malvagio nello strano e meraviglioso romanzo di Victor LaValle, Favola di New York. «Non i racconti in sé, ma come finiscono. Quelle sei parole che rovinano tutto. “E vissero tutti felice e contenti”». Oggigiorno tutti sono dei critici letterari, specialmente a New York, dove vive quest’uomo arcigno e dove praticamente ha luogo tutta la storia di LaValle – che, tra l’altro, è una fiaba. (L’azione urbana è interrotta solo da un paio di incursioni nervose nella terra incognita della contea di Nassau). A New York, come sanno bene i suoi abitanti, non c’è nulla di eterno, men che meno la felicità: tutto cambia, di continuo, e il massimo che possiamo fare è piantare i nostri piedi a terra e tenere forte, mentre cerchiamo di mantenere l’equilibrio sul treno del destino. Quelle parole sono pronunciate nell’ultima pagina di Favola di New York, ma sono subito riviste da LaValle, che è un newyorkese, cresciuto nel Queens. Sa bene che la felicità non è qualcosa che si conquista per sempre; è un appartamento il cui affitto sale e scende di continuo.

Va detto che Favola di New York è un tipo di fiaba molto particolare: è una fiaba «vecchio stile», nelle parole del narratore onnisciente, «quando queste storie erano pensate per gli adulti, non per i bambini». Le fiabe che “c’erano una volta”, insomma. LaValle inizia la sua storia nel lontano 1968, durante quella breve parentesi felice del sindaco John Lindsay, in un momento che però faceva presagire i giorni bui che avrebbe vissuto la città negli anni Settanta: è in corso uno sciopero dei netturbini, e le strade di tutti e cinque i distretti si stanno rapidamente riempiendo di spazzatura. In questa atmosfera fetida, due residenti del Queens si incontrano: «Lillian Kagwa è emigrata dall’Uganda», ci dice il narratore, in un tono magico-realista, «mentre Brian West è arrivato dal territorio di Syracuse, non molto meno estraneo». È amore a prima vista per Brian, un agente di custodia che sta tenendo d’occhio il capo di Lillian, in libertà vigilata, ma non per lei. Ha avuto una vita più dura; è sul chi va là. Ma Brian persiste e alla fine viene ricompensato. Si sposano e hanno un figlio, che chiamano Apollo. «E vissero felici e contenti», dice il narratore. «Almeno per qualche anno». Il paragrafo successivo: «Al quarto compleanno di Apollo, Brian West non c’era più». Stiamo parlando di quel tipo di fiaba.

Poi, dopo aver risvegliato bruscamente il suo pubblico da una felice rêverie, LaValle ci sfida a sognarne un’altra, se possibile, questa volta una storia di formazione in cui il giovane Apollo cresce fino a diventare un mercante di libri rari e usati, trova il vero amore nella forma di una bibliotecaria forte e simpatica di nome Emma. Hanno un figlio, che chiamano Brian, in memoria del padre scomparso. Nonostante gli avvertimenti, la voce calma e rilassante del narratore riempie ancora una volta la nostra infantile immaginazione con la speranza che questa volta le cose andranno diversamente. Ed è così: ciò che accade ad Apollo, ad Emma e al piccolo Brian è molto più terribile.

Il titolo del libro allude alla natura della catastrofe, ma non ne trasmette pienamente la forza, lo shock gutturale che LaValle consegna ai suoi fidati lettori. Come ha dimostrato solo un anno fa con il suo romanzo lovecraftiano La ballata di Black Tom, LaValle non si fa scrupoli a evocare l’orrore o a descrivere le emozioni che esso suscita nelle sue sfortunate vittime. L’orrore di LaValle fa male, e continua a far male per un bel po’, anche dopo che il peggio sembra finito. Apollo, nei mesi successivi all’apparente fine della sua felicità, si ritrova a rivivere i terribili eventi e a correre per la città – per lo più usando i mezzi pubblici – nel disperato tentativo di dare un senso a ciò che gli è successo. È come un cavaliere alle prese con una ricerca malinconica e mezza folle, che lo porta in una comunità segreta di donne su un’isola abbandonata nell’East River, e da lì in un cimitero a Long Island, dove sente di aver raggiunto «il punto più lontano su questa nuova mappa dei territori spettrali. La Ultima Thule del dolore». E invece dovrà farne ancora di strada, fin nelle viscere di Forest Park, nel Queens, dove vive qualcosa di inquietante (e di spaventosamente grande). Sopravvivere a New York è una sfida nel migliore dei casi, per tutti, ma le prove di fede a cui viene sottoposto il nostro eroe – a base di acqua, fuoco e social media – sono più severe di quanto avrebbero potuto immaginare anche i folli monaci dell’Inquisizione. Sono peggio di uno sciopero dei netturbini.

Quello che Apollo Kagwa affronta in Favola di New York è, volutamente, una rilettura delle avventure paurose che una ragazzina di nome Ida affronta nel fantastico libro illustrato di Maurice Sendak del 1981, Outside Over There, una cui copia il nostro eroe trova in una misteriosa scatola lasciata dal padre scomparso. «Quando papà era via in mare»: inizia così la terribile storia di Sendak, introducendo una storia alla Fratelli Grimm in cui un bambino viene rubato da alcuni folletti e rimpiazzato da un facsimile inumano. Questo è il genere di cose che accade quando papà è lontano da casa e la mamma è, come suggeriscono le meravigliose illustrazioni, persa in se stessa, pazza. Come spiega l’affascinante libro di Jonathan Cott, There’s a Mystery There: The Primal Vision di Maurice Sendak, Outside Over There è stato un lavoro particolarmente personale per il suo autore, che ha impiegato anni per produrlo: questa fiaba esprime, in parole e immagini, i sentimenti di Sendak sulla lontananza dei suoi genitori durante la sua infanzia newyorkese, oltre a molte altre cose. Questo è ciò che dovrebbe fare questo genere di storia. Come una strega di nome Callisto dice ad Apollo: «Una brutta fiaba ha sempre qualche maledetta morale. Una grande fiaba dice semplicemente la verità».

In Favola di New York LaValle di verità ce ne mette in abbondanza, sulle ansie e le ambivalenze dell’essere genitori al giorno d’oggi, sul valore psicologico delle storie che raccontiamo a noi stessi e ai nostri figli, e sulla difficoltà di sopravvivere nell’America urbana. La maggior parte dei personaggi della sua raccapricciante epopea fiabesca – sia buoni che cattivi, e tutti discendenti da immigrati – pagano un prezzo tremendamente alto per avere un senso di sicurezza in questo paese, questa città, o forse l’hanno pagato i loro antenati, decenni e secoli fa. «Nessuno vuole imparare la propria storia», dice il vecchio cattivo (una variante agghiacciante dell’uomo della folla di Poe) ad Apollo. «Non tutta». Questo romanzo non cerca di mettercela tutta dentro, ma senz’altro c’è molto della storia ambigua di questa metropoli del Nuovo Mondo che fa da sfondo al romanzo.

W.B. Yeats in gioventù ha scritto una poesia intitolata The Stolen Child, il cui ritornello è «Poiché il mondo è più gravido di lacrime di quanto tu possa capire». Tradotto nel linguaggio newyorkese, significa più o meno che «L’affitto è troppo fottutamente alto». Il popolo di Favola di New York paga profumatamente per i propri fugaci momenti di felicità, poi piange, poi paga di nuovo, e nel mentre racconta a se stesso le storia di cui ha bisogno per andare avanti. A New York ci sono mostri (ed eroi) ad ogni angolo. È una città fantastica.

 

Traduzione di Thomas Fazi

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