Il viaggio prosegue: tradurre «Il giorno dello scorpione» di Paul Scott

•   Il blog di Fazi Editore - Parola ai traduttori
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In occasione dell’uscita de Il giorno dello scorpione, Stefano Bortolussi racconta la sua esperienza con la traduzione del secondo volume di The Raj Quartet di Paul Scott.

 

Chiunque si sia cimentato nella lettura (non facile, ma di estrema, profonda soddisfazione come si conviene a un classico del Novecento) de Il gioiello della corona, primo volume del Raj Quartet che l’autore britannico Paul Scott scrisse tra gli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, e ne abbia apprezzato la statura di grandioso affresco storico/politico/psicologico (in poche parole, narrativo) sulla fine dell’Impero britannico in India, non può non essersi interrogato sulle destinazioni finali e sui percorsi di alcune delle diramazioni di quel romanzo-fiume (per riprendere l’immagine già introdotta nel mio primo contributo in merito allo stesso Gioiello e alla totalità dell’opera-mondo di cui fa parte).

Ebbene, il secondo volume del Quartetto, Il giorno dello scorpione, riesce nella brillante impresa di schivare metodicamente tali interrogativi e aggiungerne altri, accrescendo l’universo affabulatorio dell’opera di ulteriori emissari del corso principale e popolando ulteriormente l’affresco generale, senza d’altra parte dimenticare quelli disegnati nel primo volume della saga.

La magia di Scott, oltre a quella speciale dote mimetica della scrittura già evidenziata nel primo romanzo che gli consente – per la dolce disperazione del traduttore – di adottare diversi registri a seconda delle esigenze della narrazione, si manifesta in questo caso con il più semplice dei trucchi, per spiegare il quale mi piace tornare all’universo cinematografico che ebbi già modo di chiamare in causa, citando Rashomon di Kurosawa come possibile punto di riferimento per la scelta scottiana di raccontare la medesima storia da diversi punti di vista: una semplice regolazione della messa a fuoco adottata per girare una scena che consente, mantenendo la stessa inquadratura, di mettere in evidenza personaggi diversi. L’“inquadratura” generale del romanzo non cambia, e l’occhio dell’autore non abbandona il “campo lungo” del primo romanzo (quello dell’irreversibile crisi dell’Impero britannico in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale) né il “campo medio” della vicenda presa a esempio delle profonde contraddizioni create dalla dominazione inglese e dalla sudditanza indiana (la violenza carnale subìta dalla giovane inglese Miss Manners, la successiva incarcerazione del suo amante indiano Hari Kumar e il ruolo in esso svolto dal crudele, frustrato, vendicativo poliziotto Ronald Merrick). A cambiare sono, per mantenere la metafora filmica, i “primi piani” dei protagonisti collaterali della vicenda, che nel secondo romanzo diventano centrali (quali l’ex politico indiano Kasim, il figlio Kalim e il mentore di quest’ultimo, l’ambiguo e astuto conte Bronowskij) e dei nuovi arrivati nell’affresco quali i membri della famiglia Layton, in particolare le sorelle Susan e Sarah – quest’ultima vera e propria coscienza del libro, osservatrice lucida ma dolente e partecipe delle miserie e nobiltà degli espatriati britannici in India.

E così, pur in una narrazione appassionante che chiama in causa altri drammi, altre scelte e altre conseguenze, al centro della storia rimane quell’increscioso episodio, così simbolico quando si parla di dominazione britannica in India (di sicuro Scott, pensando allo stupro di Miss Manners, non doveva aver dimenticato quello, ben più aleatorio ma non per questo meno profondamente significativo, al centro del Passaggio in India di E.M. Forster); e la sua importanza è tale da far decidere all’autore di dedicare, nel bel mezzo delle altre vicende che si snodano intorno ai Layton e alle loro conoscenze, un numero consistente di pagine all’interrogatorio di Hari Kumar, ormai detenuto da mesi sulla base di accuse assurde e infondate – una mossa da prestigiatore, poiché ci consente finalmente di chiarire cosa è davvero successo nel primo romanzo tra Kumar e il suo grande accusatore/persecutore Merrick.

E proprio questo gioco di rimandi, situato al centro del romanzo, ci fa capire quanto Scott considerasse il suo Quartetto come un’opera unica e in qualche modo indivisibile, sebbene ciascuno dei suoi tomi possa essere letto come un’opera in sé conclusa e in grado di procurare dosi equivalenti di piacere (per la storia che racconta) e sofferenza (per la Storia che inquadra).

 

Stefano Bortolussi

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