In occasione dell’uscita di Cercando Beethoven, Saverio Simonelli racconta la nascita del suo romanzo.
Quando è stata la prima volta che ho incontrato Beethoven? E come è entrato nella mia vita e soprattutto nella mia immaginazione? La mente torna a una sera degli anni ’70: la televisione in bianco e nero, con tanto di manopole e tubo catodico; e lì davanti c’è mio padre, da solo, mentre sullo schermo compare un uomo dal ciuffo bianco, le pose aristocratiche e un aspetto che vagamente ricorda quello del preside della mia scuola elementare. Lui, però, con dei gesti di misurata eleganza e a occhi chiusi sta facendo musica.
La televisione ora lo inquadra, ora scivola su altri uomini con degli strumenti in mano, vestiti come pinguini, ma io non riesco a distogliere lo sguardo da quella bacchetta che, volteggiando nell’aria, ha davvero qualcosa di misterioso. E magico.
Mio padre si volta e mi dice: lo sai? Questa musica parla di un eroe, un grande generale che diventò imperatore: Napoleone. E io dico di sì, davvero, so di chi parli, è che quei suoni invece mi sembrano troppi, non somigliano a una canzone dello Zecchino d’Oro, mutano in continuazione discorso. Colgo un accenno di melodia ed ecco che ne arriva un’altra, improvvisa, rapida, turbinosa quasi. Mi sento confuso, io, ma non lo dico.
E di certo non posso sapere che sto condividendo le sensazioni dei pochi fortunati che una sera d’estate del 1804 ascoltarono per la prima volta quella stessa musica: la sinfonia Eroica di Ludwig van Beethoven.
Uno dei protagonisti del mio romanzo, Andreas Janowsky è lì, a palazzo Lobkowitz, e ascolta i primi commenti alla fine del concerto: «È una musica caotica» «Ci sono troppe note» «Non si capisce perché una sinfonia debba durare così tanto».
Lui però non è d’accordo. Sente che quella musica è qualcosa di nuovo, di inaudito. Nasconde un mistero. Come è possibile che attraverso quelle note io veda davanti a me un uomo, le sue battaglie, le sue conquiste? Come ha fatto Beethoven? Come può una musica svelare le azioni, i pensieri, addirittura i sentimenti di un uomo? Devo scoprirlo, pensa.
Ma i personaggi di una storia non possono svelare l’essenza di un mistero. Neanche la migliore delle storie può farlo. Lo può suggerire, evocare, dirne il contorno visibile. Novalis ha scritto che i romanzi nascono dalle insufficienze della storia. Ma neanche loro sono sufficienti a colmare quell’abisso che è il cuore dell’uomo.
Capire questo, però, capire che è quello con cui si ha a che fare, è il punto di partenza della letteratura. Capire che c’è un’eccedenza, qualcosa che sfugge e dice “più in là”, come nel mondo reale così anche nelle creature alle quali si dà vita. E allora bisogna lasciarle essere, agire davanti ai nostri occhi perché prima o poi un “di più” di umanità sfugge al corpo, esprime l’anima che canta tra gli strappi del suo abito mortale, come scrive Yeats.
E così accade anche per Beethoven. È quell’uomo intrattabile, irascibile, volubile di cui si dice? Possibile? E cos’è quel documento misterioso che tiene nella scrivania? E le sue missioni? Alcuni addirittura pensano che dietro quella musica ci sia un segreto iniziatico… sarà vero? Oppure quell’uomo che da del tu al sublime nasconde una fragilità, un dolore, un desiderio d’altro?
L’hanno ascoltata la sua musica i personaggi di questa storia, hanno provato a eseguirla: da soli, davanti a un maestro, in trio o in altre formazioni. Ma il mistero per il momento resta intatto. E l’incredibile novità della sinfonia Eroica un enigma.
Quelle immagini, quelle storie, quelle passioni della vita di un eroe erano diventate per miracolo musica, si erano comunicate in un altro modo ma altrettanto vero. Non c’era un attore che lo impersonava in teatro, non c’era una pagina scritta che ne tramandava le gesta, no, quella cosa lì accadeva davanti agli occhi e alle orecchie di chi partecipava a questo nuovo rito. L’eroe, per un miracolo laico era stato lì con loro, e il sacerdote musicista aveva fatto sì che quella vita “eroica” riaccadesse. L’unica cosa era capire come questo fosse possibile. Carpire da Beethoven quel segreto. E lui che non credeva nei miracoli voleva una formula, qualcosa di oggettivo. Quello che è ineffabile, non esiste, continuava a dirsi.
Ma una formula ovviamente non c’è. Anzi, più i personaggi procedono nella loro ricerca, più la vicenda si infittisce di eventi e avvenimenti complessi, segni e simboli reali o fuorvianti, veridici o falsi: quel documento misterioso da decifrare, e poi un incarico imprevisto, un concerto che dura fino a notte, e ancora incontri casuali, l’amore che sgorga all’improvviso, pietre misteriose e tarocchi, i palazzi di Vienna coi loro sfarzi, aristocratici solerti o annoiati, registi, impresari, l’esercito di Napoleone alle porte della città, le memorie di Mozart e quelle carte del mercante in Fiera, con le quali il Cigno di Salisburgo amava giocare, lasciate appese al muro di una locanda al cambio dei cavalli a Heiligenstadt, proprio dove Beethoven alloggia quell’estate.
Sono sufficienti questi indizi per “trovare” davvero Beethoven? Apprendere la grammatica di quella “musica nuova”? Decifrare il mistero? Ma ce ne sarà davvero bisogno? O è meglio cambiare radicalmente la domanda, e la ricerca?
Saverio Simonelli