NON MANDO OMBRA. IL FUMO INDUGIA ALLE MIE SPALLE, SOFFOCANDO LA LUCE DEL GIORNO. (…) SENTO ANCORA ODORE DI BRACI. IL PROFILO ANNERITO DI UNA SINUOSA ROVINA. SENTO DI NUOVO QUELLE VOCI: GLI UOMINI, E LA RAGAZZA. LA RABBIA. LA PAURA. LA RISOLUTEZZA. POI LE CATASTROFICHE VIBRAZIONI CHE SI PROPAGANO ATTRAVERSO IL LEGNO. E LE LINGUE DI FUOCO. IL CREPITIO CALDO E SECCO. LA SORELLA CON IL SANGUE SULLA PELLE E QUELLA TERRA DEVASTATA.
È di un potente lirismo tragico l’incipit di Elmet, romanzo d’esordio della trentenne ricercatrice in Storia medievale Fiona Mozley. Un’opera che, accolta in modo entusiastico da pubblico e critica anglosassoni e uscita in Italia il 27 settembre per Fazi Editore, nella traduzione di Silvia Castoldi, mantiene pienamente le aspettative suscitate dall’incipit.
Elmet è ambientato nel profondo nord dell’Inghilterra, la campagna dello Yorkshire che un tempo ospitava l’ultimo regno celtico indipendente da cui Mozley ha mutuato il titolo, presumibilmente esteso ad ampi territori dell’attuale Contea di West Riding. Uno sfondo silvestre e fascinosamente antico che immerge la tragicità delle vicende narrate in un’incantata atmosfera senza tempo, tra leggenda nordica e favola nera.
La trama è giocata su due diversi assi temporali, un presente di attesa e un vivido passato il cui intersecarsi, alternando le atmosfere poeticamente sospese sul filo della memoria del primo al realismo del secondo, a tratti bucolico a tratti feroce, contribuisce a rendere il respiro dell’opera evocativo e struggente.
La quindicenne Cathy e il fratello minore, nonché io narrante Daniel, abbandonati dall’instabile madre, smettono di andare a scuola in seguito ad atti di bullismo di cui è ritenuta responsabile la ragazza, malgrado ne sia la vittima, e si allontanano dalla città con colui che ritengono il loro padre, il pugile di strada John Smythe, per andare a vivere in una casa costruita da lui stesso in mezzo a un bosco. Tra tagli di legna e tiri con l’arco, incantevoli scorci naturali e combattimenti clandestini, i tre conducono una vita solitaria e frugale ma serena, perché i rapporti tra loro sono basati su un profondo affetto, rispetto e mutuo istinto protettivo. L’unica frequentazione è costituita per i due fratelli dalla vicina di casa Vivien, cui John ha chiesto di dar loro un insegnamento sostitutivo di quello scolastico. Ma il “padrone della città” Price, che mal sopporta John Smythe, apparentemente perché si è costruito la casa in un bosco legalmente di sua proprietà – in realtà per ragioni che affondano le loro radici in un oscuro passato – cerca di ricattarlo, per indurlo a rientrare nella sua squadra di tirapiedi di cui un tempo faceva parte. Il rifiuto di John che cerca di coalizzare intorno a sé un gruppo di persone desiderose di ribellarsi alla tirannia di Price e degli altri proprietari terrieri, alimenta la vendicativa ira del possidente, che raggiunge il diapason dopo l’assassinio del figlio Charlie. Quando gli sgherri di Price arrivano a casa di John, non trovandolo gli sequestrano i figli, in un trascinante diapason di tensione drammatica. Nell’epilogo tutti i protagonisti sembrano mccarthyanamente condannati a un’atroce fine senza speranza di salvezza e la violenza, salve rare eccezioni sino a quel momento trattenuta, esplode in una tarantiniana ferocia sanguinaria. Mentre Cathy consuma la sua metamorfosi senza ritorno, la corsa verso la salvezza del fratello, che ricorda quelle di altri celebri ragazzini innocenti, a cominciare da Oliver Twist, segna anche per lui l’ingresso nella vita adulta (ero stato reso nuovo mentre camminavo, e avevo guardato la terra come se fosse nuova anche lei). Una vita dedicata all’attesa di poter ricomporre i frammenti di ciò che è stata la sua famiglia, perché esistono legami che nessuna violenza può spezzare.
L’aspetto più toccante del romanzo è proprio l’amorosa solidarietà che unisce i membri della famiglia protagonista, coi salvifici insegnamenti di Cathy interiorizzati e usati da Daniel, prima che per se stesso come vorrebbe la sorella, per aiutare lei.( La vergogna è solo negli occhi di chi guarda. E se io la guardavo senza vergogna, allora lei poteva starmi di fronte, nuda, senza vergogna, e il suo essere nuda non avrebbe avuto alcun potere su di lei). Grazie a tale aspetto si può leggere Elmet, oltre che come romanzo di formazione, come parabola sull’irresistibile forza dei legami affettivi. I suoi protagonisti, al pari della famiglia Aubrey di Rebecca West, sono poveri, ma ricchi di un fortissimo sentimento che permette loro di condividere tutto, il dolore come la gioia di piccoli avvenimenti, magicamente trasformati in eventi straordinari.
Ma Elmet è molto altro.
Pur sullo sfondo di un malinconico disincanto dal sapore “gattopardesco”, s’inserisce nel solco dei grandi romanzi di critica politico/sociale dell’800 e del 900, da Dickens a Steinbeck, ponendosi come riflessione/parabola sul senso di concetti come legalità e giustizia in una società ferocemente sessista e classista, abbandonata a se stessa dalle istituzioni che dovrebbero tutelarla. John, sebbene “definito dalla violenza”, è un gigante dall’animo gentile, rispettoso di tutte le creature viventi e molto protettivo verso i figli – per quanto in un suo modo personale e “primitivo” – che educa a trattare con riguardo la natura e ad essere solidali con gli altri, ma anche a vivere al riparo dal mondo, le cui brutture teme non siano in grado di affrontare.
La colta e apatica Vivien è lo strumento attraverso cui i due fratelli prendono coscienza che esiste un mondo “altro” oltre a quello offerto loro dal padre. Ma mentre Cathy se ne ritrae inorridita, perché è una consapevolezza devastante per ciò che vuole e sente di essere, e cioè la fotocopia in divenire di John, il mite Daniel dall’identità sessuale ancora incerta vi si ritrova, scoprendo, grazie alle lezioni della donna, la sua “diversa” personalità; una scoperta grazie alla quale diventa cosciente della propria distanza da Cathy, senza per ciò amarla meno.
Più giovane, ingenuo e debole di lei, Daniel se ne differenzia anche perché riesce a sentirsi felice con poco e a godere più pienamente delle gioie della natura, con cui avverte un’intima fusione (che ha spinto alcuni a parlare di “idillio pastorale”), descritta con vividezza intrisa di meraviglia.
i miei occhi erano (…)pieni della luce maculata che aveva brillato per tutto il giorno attraverso il tremolio delle foglie; e dei colori del bosco, e dell’immagine di mio padre che si curvava e si rialzava abbattendo i rami che dovevamo raccogliere.
La madre, sparita un giorno senza fare più ritorno, è l’emblema di una sofferenza in eterna fuga da se stessa e dagli altri, presente nella tragica forza della sua assenza, tanto che Daniel realizza di ricordarne bene solo l’odore della pelle, imparato grazie ai vestiti sporchi che le lavava.
Spirito libero e indomito, Cathy è la figura più “forte” del romanzo. “Fedele alla propria storia”, figlia adorante e sorella amorevole, è volitiva e coraggiosa come Jane Eyre ma anche capace di reazioni che l’accomunano ad eroine come Lisbeth Salander. Oggetto sin da piccola di molestie a sfondo sessuale, vive un dilaniante conflitto tra il suo essere una ragazzina e l’urgenza di sentirsi un’adulta cui nulla è precluso, a iniziare dalla possibilità di combattere le ingiustizie con la sola forza fisica come il padre, suo modello di riferimento.
qualche volta le sembrava di andare in pezzi. (…) era come se si trovasse ferma con i piedi piantati per terra, e nello stesso tempo una parte di lei stesse correndo in avanti verso un fuoco che ruggiva.
La povertà, la mancanza di una rete protettiva e l’assoluta incapacità di sottomettersi al maschilismo imperante ne fanno l’emblema della “predestinazione femminile” a essere oggetto di violenze. La consapevolezza di ciò rende Cathy furiosa e la spinge a combattere gli abusi con ogni mezzo, in un trascinante alternarsi del ruolo carnefice/vittima che legittima una lettura del romanzo come parabola sui devastanti effetti della violenza di genere. Una violenza che, più ancora che dalle sue manifestazioni estreme, emerge dalla inquietante “normalità” di quotidiane modalità relazionali, basate su un linguaggio discriminatorio, un disprezzo e un rifiuto spesso già presenti nei contesti scolastici (basti pensare ai compagni-bambini che non vogliono far giocare con loro Cathy, poi la bullizzano e le addossano le loro colpe) e fa da filo conduttore all’intera narrazione. Una “normalità” che culmina nella riflessione/grido di ribellione di Cathy, portavoce dell’angoscia di tutte le donne:
Non voglio avere paura. Continuavo a pensare solo a Jessica Harman, buttata in quel canale, e a tutte quelle altre donne alla tivù, sui giornali, trovate nude, coperte di fango, coperte di sangue, blu, con gli arti scomposti; trovate nei boschi, trovate nei fossi, mai più trovate. Qualche volta non riesco a smettere di pensarci. (…) che sto diventando una di loro.
Da più parti ricondotto al “ceppo gotico”, di cui mostra varie contaminazioni – dagli inquietanti scenari sanguinari al topos gotico romantico del vagabondo e del fuorilegge/ribelle che reagisce contro una società ingiusta – sebbene la molteplicità dei suoi registri e livelli di lettura ne faccia apparire limitativa l’etichettatura all’interno di uno specifico genere, Elmet risente di molti illustri influssi. Oltre alla già citata tensione etico/sociale steinbeckiana si avvertono tracce del realismo nero di McCarthy, di quello “mitologico” di Faulkner e della visionarietà di William Kennedy.
Mentre superavo la casa bruciata (…) fui tormentato da un balenio di scintille, i fantasmi mordaci di un grande inferno ridotto a brandelli. Mi turbinavano intorno come gabbiani vicino a un peschereccio. Ero il loro ultimo avanzo, l’ultimo assaggio di tessuti vivi.
Il talento singolarmente maturo dell’autrice, malgrado la giovane età, emerge dalla sua capacità di assemblare tutte le influenze in un originale unicum di straordinario impatto emotivo e visivo/cromatico.
ELMET di Fiona Mozley: la resistenza alle ingiustizie di un’insolita famiglia, tra mito rurale, vivido noir e ancestrale epopea femminile.
Giorgia Rovere