Pubblichiamo un estratto da Per i sentieri dove cresce l’erba, il contrastante e contrastato diario di Knut Hamsun che ripercorre le fasi del procedimento giudiziario subito dal grande artista al termine della seconda guerra mondiale in qualità di accusato di convivenza filonazista. Knut Hamsun visse la follia di una disincantata saggezza; e soprattutto il privilegio, la forza poetica di un’anarchica conoscenza del mondo. Per i sentieri dove cresce l’erba è il suo estremo capolavoro, terminato nel 1948.
Non intendo impegnare a lungo il tempo di questa onorevole corte. Non sono stato io ad annunziare alla stampa già da molto, molto tempo, che ora si sarebbe sgranata la lista dei miei delitti. È stato un uomo del tribunale, forse un sostituto, insieme a un giornalista. Del resto tutto ciò mi si addice. L’avevo già scritto due anni fa in una lettera al Procuratore generale, che volevo rendere conto di tutte le mie azioni. Ora che me ne viene data l’occasione intendo contribuire per parte mia a che il registro dei miei delitti venga svolto in maniera ordinata e morale. Per quanto ho potuto notare negli anni trascorsi, il comportamento corretto durante il processo, la difesa appassionata presso ministri, avvocati e procuratori non è servita. Il giudizio nel suo insieme è stato a malapena influenzato da quel comportamento. Quel che ha contato di più è stata piuttosto la conclusione del Procuratore, e in seguito del Procuratore generale. La cosiddetta conclusione, che per me è rimasta un concetto misterioso, nel quale non riesco a raccapezzarmi. Comunque intendo abdicare alla gentilezza, qui e ora.
A questo proposito devo chiedere perdono per la mia afasia, la quale fa sì che le mie parole, le espressioni che sono costretto a scegliere alla rinfusa, finiscano per risultare gonfiate, o più facilmente ridotte, rispetto alle mie intenzioni.
D’altro canto, per quanto posso ricordare, ho già risposto in anticipo a tutte le domande. In principio, quando era la polizia di Grimstad a portarmi delle carte che io del resto non leggevo. Poi due o tre anni fa, o cinque, venne la fase istruttoria. È passato tanto di quel tempo che non ricordo più nulla, ma allora risposi alle domande. Poi ci fu quel lungo periodo in cui venni rinchiuso in un istituto, a Oslo, dove si trattava di stabilire se ero matto, o forse si trattò piuttosto di decidere che ero matto, e dove fui costretto a rispondere a ogni genere di domande idiote. Perciò non ci si può aspettare che ora io faccia meglio di quanto ho fatto allora, e per tutto il tempo trascorso.
Quel che mi dovrebbe condannare – e mettere con le spalle al muro, sono dunque i miei articoli. Nient’altro può essermi imputato. A questo riguardo il mio rendiconto personale è semplice e retto. Io non ho denunziato nessuno, non ho partecipato a riunioni, non sono stato neppure mai coinvolto in affari di borsa nera.
Non ho dato mai denaro né ai combattenti al fronte, né a qualsiasi altro Nasjonal Samling, del quale si dice che io sia stato un membro. Niente di niente insomma. Non ho fatto parte di NS. Ho cercato di capire cosa fosse, NS, ho provato a inserirmi al suo interno, ma senza alcun risultato. Può anche darsi che mi sia capitato talvolta di esprimermi nello spirito di NS. Non saprei dirlo, poiché non so in che consista lo spirito di NS. Ma può comunque darsi che io l’abbia fatto, che qualcosa abbia potuto filtrare in me dai giornali che leggevo. In ogni caso i miei articoli so- no sotto gli occhi di tutti. Non sto cercando di minimizzarli o di diminuirne l’importanza. Al contrario intendo risponderne ora come allora, come sempre ho fatto.
Prego tuttavia di voler mettere in rilievo che mi trovavo a scrivere in un paese occupato, conquistato da un esercito, e in relazione a ciò mi piacerebbe aggiungere qualche breve informazione su me stesso:
Eravamo stati allettati dalla prospettiva che la Norvegia avrebbe occupato una posizione elevata, predominante nella società mondiale pangermanica che si stava preparando e nella quale tutti credevamo, in misura diversa, ma ci credevamo tutti. Io ci credevo, perciò ho scritto quel che ho scritto. Parlavo della Norvegia e della posizione elevata che avrebbe occupato tra le nazioni germaniche d’Europa. Capire che, in misura corrispondente a quel mio convincimento, dovevo parlare anche delle forze occupanti, sarebbe leale e onesto. Non potevo espormi al rischio di venir sospettato, cosa che tuttavia, paradossalmente, in realtà accadde lo stesso. In casa mia ero circondato di continuo da ufficiali tedeschi e dai loro uomini, perfino durante la notte e anzi molte volte di notte, fino all’alba. Spesso avevo l’impressione di esser spiato da osservatori, gente che aveva il compito di controllare me e la mia vita domestica. Certi tedeschi relativamente altolocati mi fecero notare per due volte (mi torna in mente ora), per due volte dunque, che alcuni rinomati svedesi si davano da fare più di me, ricordandomi poi che la Svezia era un paese neutrale, al contrario della Norvegia! No, non erano granché soddisfatti di me. Era molto di più quello che s’erano aspettati. Essendo queste le circostanze in cui mi trovavo a scrivere, si può intendere come io dovessi in certa misura mantenere l’equilibrio, per quello che ero, per il nome che avevo: dovevo mantenere l’equilibrio tra il mio paese e gli altri. Non dico queste cose per scusarmi o per difendermi. Non mi sto affatto difendendo. Sono solo delle spiegazioni, delle informazioni che io sto destinando a questa onorevole corte.
E nessuno mi disse allora che quanto andavo scrivendo era sbagliato, nessuno, in tutto il Paese. Io sedevo da solo nella mia stanza, rivolto unicamente a me stesso. Non sentivo, ero talmente sordo che non si poteva avere a che fare con me. Picchiavano sul tubo della stufa per avvertirmi di scendere per il pranzo. Quello era un suono che riuscivo a sentire. Scendevo da basso, mangiavo, e poi risalivo a sedermi nella mia stanza. Ho fatto così per mesi e anni. Per tutti questi anni è stato così. E mai che mi arrivasse un cenno, nemmeno piccolo. Eppure non ero un fuggiasco, un disertore. Il mio nome era abbastanza conosciuto nel Paese. Pensavo di avere degli amici in tutti e due i campi, sia nel partito di Quisling sia tra gli Jøssinger. Ma mai che mi sia arrivato il minimo cenno d’avviso, né un piccolo buon consiglio dal mondo esterno. No, il mondo esterno si teneva accuratamente in disparte. E in casa o dalla mia famiglia capitava di rado che potessi ottenere qualche notizia o un po’ d’aiuto. Tutto dovevo regolare da solo, e per iscritto, il che era molto seccante. Ma tant’era. In tali circostanze non mi restava che tenermi ai miei due giornali, l’«Aftenpost» e il «Fritt Folk», e quei giornali non dicevano affatto che quanto io scrivevo fosse sbagliato, al contrario.
E non era sbagliato, infatti. Non quando io lo scrivevo. In quel momento era giusto, ed era giusto che lo scrivessi. Cercherò di spiegarmi. Che cosa scrivevo? Scrivevo per impedire che i norvegesi, gli uomini e la gioventù norvegese, passassero per sciocchi e provocatori agli occhi della potenza occupante. In pura perdita, soltanto per la loro distruzione e morte. Questo io scrivevo, solo questo con innumerevoli variazioni.
Coloro che oggi godono della mia umiliazione, poiché hanno vinto, hanno vinto esteriormente, in superficie: costoro non hanno mai avuto, com’è capitato a me, la visita delle famiglie, di tutte le condizioni sociali ed economiche, in lacrime, per i padri, i figli, i fratelli che giacevano rinchiusi dietro al filo spinato di qualche lager, e che ora erano stati condannati a morte. Sì, a morte. Bene, io non avevo alcun potere, ma era da me che venivano. Non avevo alcun potere, ma scrivevo, telegrafavo, mi rivolgevo a Hitler o a Terboven. Seguivo anche vie traverse, come quando passai per un uomo di nome Müller, che aveva fama d’essere un’eminenza grigia del potere. Dovrà ben esserci un archivio o un luogo qualunque dove i miei telegrammi si trovino conservati. Ne ho scritti molti. Andavo avanti a telegrafare giorno e notte quando il tempo stringeva, o quando si trattava della vita o della morte dei miei connazionali. Dato che non potevo farlo da solo, convinsi la moglie del mio fattore a trasmetterli al telefono per me. E furono per l’appunto tutti questi telegrammi a rendermi infine sospetto in qualche misura agli occhi dei tedeschi. Presero a considerarmi come un negoziatore, un intermediario vagamente inaffidabile, che conveniva tenere d’occhio. Hitler stesso respingeva le mie richieste, verso la fine. Se n’era stancato, e mi rimandò a Terboven. Ma Terboven non rispondeva. In che misura quei miei telegrammi fossero d’aiuto è una cosa che ignoro. Minima, di certo. Del pari i miei articoli, che erano nati con quella intenzione, ottenevano un effetto deterrente sui miei compatrioti. Invece di accanirmi in quella vana attività avrei forse fatto meglio a nascondermi. Potevo tentare di filarmela in Svezia, come hanno fatto in tanti. Non me la sarei passata male laggiù. Non mi sarebbe capitato niente. Ho molti amici, e c’è anche il mio grande e potente editore. E avrei potuto provare a trasferirmi in Inghilterra, un’altra cosa che hanno fatto in tanti, che poi son tornati da eroi avendo abbandonato il proprio paese, avendo disertato. Non ho fatto niente del genere, io, non mi è mai passato per la mente di muovermi. Pensavo che avrei servito la mia patria nel modo migliore rimanendo dov’ero, a coltivare la mia terra meglio che potevo, in quei tempi duri, quando al paese mancava tutto, e inoltre usando la mia penna per la Norvegia, che avrebbe occupato una posizione di primo piano tra le nazioni germaniche d’Europa. Fin dall’inizio mi sentii attratto da quel pensiero. Di più: esso mi entusiasmava, ne ero posseduto. Non so se esso mi abbandonò anche solo per un momento, in tutto quel tempo trascorso in solitudine. Mi sembrava che fosse un grande pensiero per la Norvegia, una grande idea per la quale lavorare e combattere: la Norvegia, un paese ai margini dell’Europa, indipendente e sfolgorante di luce propria. Avevo i miei santi in paradiso, sia in Germania sia in Russia, e questi santi tenevano la mano sul mio capo e non avrebbero respinto le mie richieste.
Ma ogni mia azione finì in rovina, tutto andò male. Ben presto mi trovai disorientato, e il colmo del disorientamento venne quando il re e il suo governo lasciarono il Paese di propria volontà e abdicando alle loro funzioni. Quel fatto mi fece tremare il terreno sotto i piedi. Mi sentivo sospeso fra terra e cielo. Non avendo più nulla di saldo a cui tenermi scrivevo, telegrafavo e riflettevo. La riflessione era il mio stato normale in quel tempo. Riflettevo su tutto. Avrei potuto rammentare a me stesso che tutti i grandi nomi che abbiamo avuto in Norvegia erano dovuti passare attraverso la Germania per diventare grandi nel mondo. E non avevo torto a pensarlo. Ma questo mi portò a sbagliare. Anche in questo sbagliai, benché sia una verità chiara come il sole nella nostra storia, nella nostra storia recente.
Ma niente mi portò un vantaggio, no, al contrario fece sì che agli occhi e nel cuore di tutti io stessi tradendo la Norvegia, la Norvegia che volevo esaltare. Io la tradivo. Bene, sia pure. Sia pure tutto ciò di cui quegli occhi e quei cuori vogliono imputarmi, sia. Sono io che ho perso, e devo subire. Fra cent’anni sarà tutto dimenticato. A quell’epoca anche questa onorevole corte sarà dimenticata, totalmente dimenticata. I nomi di tutti quanti siamo qui oggi, saranno spazzati via dalla faccia della terra, né saranno ricordati, né nominati ancora. I nostri destini saranno cancellati.
Quando sedevo a scrivere come meglio potevo, quando telegrafavo notte e giorno, ebbene in quei momenti io tradivo il mio Paese, dicono. Ero un traditore della patria, dicono. Sia. Ma io non mi sentivo tale, e tale non mi sento nemmeno oggi. Sono in pace perfetta con me stesso, ho la coscienza più pura del mondo.
Tengo abbastanza in conto l’opinione comune. Tengo in conto ben maggiore questa onorevole corte di Norvegia, ma non quanto io tenga in conto la mia propria consapevolezza del bene e del male, di ciò che è giusto o sbagliato. Sono abbastanza vecchio da possedere una mia linea di condotta, ed è questa.
Nella mia vita oramai piuttosto lunga, in tutti i Paesi che ho conosciuto, e tra tutti i popoli con cui mi sono mescolato, ho sempre ed eternamente venerato e custodito nel cuore la mia patria. Ed è nel mio cuore che intendo conservarla anche adesso, mentre attendo il verdetto finale.
E ora ringrazio l’onorevole corte.
Desideravo solo pronunciare poche e semplici parole in questa occasione, per evitare di restar tanto muto quanto mi trovo a esser sordo. Non pretendeva d’essere un discorso di difesa. Se lo poteva sembrare, ciò è dovuto solo all’argomento, e ai fatti che sono stato costretto a citare. Ma non intendevo pronunciare una difesa, per questo non ho nemmeno accennato ai miei testimoni, dall’esame dei quali verosimilmente mi sarei potuto aspettare dei vantaggi. E neanche ho voluto nominare tutto il resto della mia documentazione, che pure mi sarebbe stata utile. Son cose che possono essere rimandate. Possono aspettare fino a un’altra occasione, a tempi migliori forse, e a una corte diversa da questa. Verrà pure un altro giorno anche domani, e io posso aspettare. Ho tanto tempo davanti a me. Da vivo o da morto fa lo stesso, e soprattutto è sovranamente indifferente per il mondo conoscere la sorte di un singolo individuo, che in questo caso sono io. Posso aspettare. Troverò bene qualcosa da fare.