In occasione dell’uscita di L’albero della vergogna, pubblichiamo l’articolo di Francesca Lazzarato apparso sul manifesto il giorno dopo la morte dell’autore, il 24 ottobre 2014, e sul blog dell’autrice.
Il nome di Ramiro Pinilla, morto il 23 ottobre a novantuno anni, non è familiare ai lettori italiani, e tuttavia vale la pena di farlo presente anche a quanti non lo hanno mai sentito nominare, perché Pinilla non è stato solo l’autore di romanzi memorabili, paragonato in patria a Faulkner e a García Márquez, ma anche un uomo dalla storia insolita, capace di compiere scelte tenacemente diverse da quelle della compagnia di giro che oggi vediamo promuovere sino allo sfinimento i propri prodotti, rimbalzando da una Fiera del libro a Twitter, da un festival a un reading.
Pinilla, basco di famiglia spagnola immigrata a Bilbao (quindi un maketo, secondo la definizione spregiativa usata dai baschi “puri”), era un autodidatta, prima macchinista sulle navi mercantili, poi impiegato nell’azienda comunale del gas, quindi confezionatore di testi per una casa editrice specializzata in figurine e autore di biografie scritte su commissione, ma anche scrittore clandestino che riempiva fogli su fogli con una vecchia stilografica, approfittando dei momenti rubati alla famiglia e alle fatiche delle sopravvivenza.
Solo nel 1960 questo lavoro silenzioso ha dato i suoi frutti, con l’assegnazione del premio Nadal al suo romanzo Las ciegas hormigas, subito pubblicato dalla Editorial Destino e accolto con grande favore dalla critica: un libro duro, denso, dalla scrittura trasparente e netta, in cui lo scrittore ha gettato le basi di un cosmo paesano allo stesso tempo reale e fittizio, quello di Getxo, la cittadina sulle coste del golfo di Biscaglia dove ha trascorso quasi tutta la vita e ambientato l’intera sua opera.
Il suo rapporto con un’industria editoriale pronta a mangiarsi in un boccone un outsider provinciale e dignitosamente ingenuo, però, è stato assai difficile: orgoglioso quanto incapace di adattarsi alle ragioni del marketing e alle leggi del mundillo letterario, Pinilla ha optato quasi subito per una volontaria esclusione (“pubblicare sì, ma non a qualsiasi costo e tradendo se stesso”, racconterà molti anni dopo), ritirandosi in una piccola casa circondata da un grande orto, chiamata Walden in omaggio al suo libro prediletto, “Walden ovvero vita nei boschi” di Thoreau. Là, rimasto solo con tre bambini, li ha cresciuti “come una madre” e con immensa gioia, inventandosi un giornale locale poi distrutto dalle bombe incendiarie dell’ETA, allevando polli e vendendo uova, e infine creando una sorta di laboratorio, El taller: non una scuola di scrittura, ma un semplice luogo di condivisione e di ascolto. A Walden, inoltre, Pinilla ha continuato a vivere la sua “altra vita”, scrivendo e autopubblicandosi attraverso Libropueblo, micro casa editrice fondata con un amico e fallita dopo qualche anno, che vendeva a prezzo di costo libri distribuiti solo nella provincia di Bilbao (molto spesso erano gli editori stessi a proporli nei mercatini), comperati da pochi e letti da pochissimi.
Più solitario che mai, senza un editore né una prospettiva di pubblicazione, Pinilla ha impiegato vent’anni per completare quello che Ricardo Senabre ha definito “l’impresa narrativa più considerevole sorta tra noi negli ultimi decenni… Un romanzo fondamentale”, e cioè Verdes valles, collinas rojas, una trilogia di duemilacinquecento pagine abitata da oltre cinquanta personaggi, che, intrecciando le vicende di due famiglie di Getxo dalla fine del diciannovesimo secolo sino all’epoca della guerra civile, disegna la storia dell’intero paese basco e delle sue contraddizioni. Tre romanzi il cui solido realismo si fonda sulla vocazione libertaria e sull’interesse per le questioni sociali dell’autore, sulla sua visione critica del nazionalismo, sul suo culto per la memoria, componendo un mosaico complicato eppure leggibile, fatto di migliaia di tessere, ognuna delle quali è un piccolo romanzo a sé.
Proposta dallo scrittore basco Fernando Aramburu all’editore Tusquets (il cui editor Juan Cerezo ha saputo stabilire un rapporto rispettoso e cordiale con Pinilla), la trilogia è stata pubblicata nel 2004, quando l’autore aveva compiuto gli ottant’anni, ed è immediatamente diventata un caso letterario, vincendo il Premio Nacional de Narrativa e raggiungendo migliaia di lettori, mentre critica e pubblico scoprivano l’esistenza di uno scrittore straordinario cui si doveva uno dei migliori romanzi spagnoli del nuovo secolo. Da allora, tutta l’opera di Pinilla viene ripubblicata da Tusquets insieme a titoli nuovi e spesso notevoli, come La higuera (L’albero della vergogna), che ha preceduto i più recenti divertissement polizieschi (una trilogia il cui protagonista è un eccentrico libraio-detective), ispirati da un’intensa frequentazione del cinema e della letteratura gialla. All’ultimo romanzo, quello per il quale stava ancora cercando il finale giusto, l’autore ha continuato a pensare anche durante il suo ricovero in ospedale: perché Pinilla non ha mai smesso di scrivere, fino all’ultimo giorno, e chissà che per i lettori italiani non sia arrivato il momento di conoscerlo e, finalmente, di leggerlo.
Francesca Lazzarato