In attesa della pubblicazione di Elmet di Fiona Mozley, in uscita il 27 settembre, abbiamo tradotto la recensione del New York Times al libro.
Il poeta Ted Hughes sul panorama dell’Inghilterra del Nord, vicino a dove era nato, scrisse così: «L’agonia del ghiacciaio/allargò la lunga gola del Calder/Giù fin dove il suo cadavere svanì».
C’è un bel po’ di agonia – e pure un cadavere, se non due o più – nel romanzo d’esordio della ventinovenne Fiona Mozley, un’opera che unisce lirismo e mito, entrata nella shortlist del Man Booker Prize di quest’anno. Mozley è cresciuta nella zona di York, come Hughes, e il suo romanzo è ambientato nella campagna dello Yorkshire, che molto tempo fa era il regno celtico di Elmet.
Buona parte della sua potenza, Elmet la trae dalla dicotomia tra il suo personaggio principale – un gigante taciturno di nome John, che combatte a mani nude in incontri clandestini facendo della propria imbattibilità un modo per guadagnarsi da vivere – e il suo narratore, il sensibile figlio quattordicenne di John, Daniel.
Daniel e la sorella quindicenne Cathy, più intrepida e industriosa, vivono in un bosco isolato nel Nord dell’Inghilterra, in una casa costruita da John. Il trasferimento è stata la diretta conseguenza del rimprovero ricevuto a scuola da Cathy per aver reagito alle provocazioni dei bulli. «Voleva tenerci separati, per conto nostro, isolati dal mondo», dice Daniel, e così i due fratelli vengono cresciuti in questo «strano, altro mondo silvestre» dove si costruiscono i propri archi e frecce. Cathy si gira le sue sigarette. Mangiano colombe, cervi e allodole.
Questa vita grezza la conducono però in una terra «fatta di miti» come la descrive Daniel. Mozley sta conseguendo un Ph.D in Storia medievale, e le radici del suo racconto, tanto per le vicende quanto per i toni, affondano in un suolo antico. I riferimenti, all’inizio, alle auto e ai set televisivi lasciano sorpresi, primi indizi del fatto che siamo in un imprecisato periodo storico successivo al, diciamo, dodicesimo secolo. La perfetta riuscita di questa audace strategia, raccontare una storia ambientata ai giorni nostri come se fosse accaduta in qualunque momento della storia umana, è solo uno degli indizi dell’aspirazione e della capacità di Mozley.
Per i personaggi del romanzo le occasioni lavorative sono ben poche: i lavori hanno abbandonato la regione «vent’anni fa o anche di più». I proprietari delle fattorie sfruttano i lavoratori stagionali e quelli locali si sentono sempre più alienati. «Pago per vivere in una terra», si lamenta una donna «che un tempo era nostra, di tutti noi».
John ha costruito la casa per la propria famiglia sulla terra il cui proprietario è Price, colui che controlla gran parte dell’area circostante. Si scopre che lui e John hanno un trascorso burrascoso. Nel tentativo di colpire Price, John aiuta diversi lavoratori e affittuari a organizzarsi per lottare per avere salari migliori e affitti più bassi. Affiorano i temi steinbeckiani del collettivismo. Il carburante drammaturgico del romanzo diventa proprio sapere se Price lascerà che John viva serenamente sulla terra che ha reclamato per sé.
Dov’è la madre dei bambini? «Non parliamo quasi mai di lei», dice Daniel, e John «la nominava così di rado che non sapevamo se interpretarlo come un invito o un avvertimento».
John manda i bambini a trascorrere alcuni giorni vicino casa, da un’amica di famiglia di nome Vivien, un influsso stabilizzante e educativo. Vivien è una donna di mondo e dà a Daniel insegnamenti sull’arte e sui viaggi, mentre Cathy corre per i campi e i boschi. («Io avevo una mente rivolta verso l’interno. Lei verso l’esterno»). Inoltre, in uno dei molti brani fulminanti di Mozley sul mondo naturale, Vivien insegna a Daniel come pensare alle inclinazioni del padre, paragonando l’esigenza di violenza di John a una balena che salta fuori dall’acqua.
Daniel, pallido, rachitico e con i capelli lunghi, è per molti aspetti all’opposto del padre e della sorella, la cui forza è spesso mal giudicata da chi la provoca. «Dovete capire che non mi sono mai considerato un uomo», spiega a un certo punto, in un passaggio commovente e misurato, riguardo alla sua identificazione sessuale ancora in corso.
Il linguaggio di Mozley è sempre sottile, ma non il suo protagonista. Fisicamente, John potrebbe essere benissimo Jack Reacher, l’invincibile hulk che si aggira nella serie di thriller bestseller di Lee Child. Daniel descrive il padre con la parola «gigantesco», stacca di 30 centimetri addirittura gli uomini più minacciosi della zona; «un suo braccio era grosso come due dei loro». Filosoficamente, non sarebbe fuori posto in un romanzo di Ayn Rand, data la sua aderenza al culto dell’autosufficienza. «Non lavorerò mai più sotto qualcun altro», dice. «Il mio corpo è solo mio. È tutto quello che ho di mio». (Con la sua convinzione che tutto ciò che gli serva è essere lasciato da solo, John mostra con chiarezza il punto in cui il Superuomo di Rand si sovrappone alla mentalità da frontiera degli eroi meno presuntuosi di Laura Ingalls; dove la modestia incontra la megalomania).
I romanzi d’esordio in particolare tradiscono talvolta in modo troppo palese i loro debiti, ma Elmet è un incantevole mosaico di influenze tenuto assieme dalla ben distinguibile voce di Mozley. Comincia con la nebulosa rievocazione, scritta in corsivo, della scena di un incendio, che si conclude con «Sotto i miei piedi giacciono i resti di Elmet». Così come risuona Hughes («Resti di Elmet» è il titolo della poesia citata sopra), si sente il sussurrio di Daphne du Maurier, e il modo in cui all’inizio del suo classico gotico «Rebecca» ricorda Manderley. Mozley ha dichiarato che «Meridiano di sangue» di Cormac McCarthy è il suo romanzo preferito, e sebbene non provi a sostenere il tono pieno e robusto di McCarthy – una tentazione disastrosa alla quale alcuni scrittori soccombono –, talvolta Mozley si ispira alla sua intensa infatuazione per la natura: «L’alba spuntò da un bocciolo di penombra color malva e fiorì insanguinata quando mi svegliai».
Le tracce e il passo di Elmet promettono un regolamento di conti, ed è quello che ci viene dato. La scena madre è una baraonda. Ed è surreale come un cartone. Qualcuno potrebbe sottrarsi alla sua stravaganza, o sentirsi a disagio di fronte a una scena di violenza così lucida e lunga, ma sa catturare l’attenzione e fa in modo che nessun fuoco d’artificio rimanga inesploso.
I personaggi di Mozley talvolta dicono cose che non direbbero mai: la perfidia di Price è troppo netta; l’efficace semplificazione che la storia fa delle complessità politiche relative alla proprietà e al lavoro è esagerata. Ma, nonostante la frequente attenzione del libro ai dettagli realistici, va tuttavia collocato senza dubbio nel terreno del fiabesco, e l’assoluta fiducia di Mozley nell’arte della narrazione conduce il lettore oltre ogni intoppo.
Traduzione di Simone Traversa