In occasione dell’uscita di Avviso di chiamata, abbiamo chiesto a Enrica Budetta di raccontarci la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Delia Ephron.
Di tutte le banalità che si possono dire di un libro la più trita è che sia di gran lunga migliore del film che ne è stato tratto. Nonostante ciò, per Avviso di chiamata di Delia Ephron credo che valga la pena correre il rischio di mettere nero su bianco quest’ovvietà, perché il ricordo dell’omonimo film del 2000 che aveva per protagoniste Diane Keaton (che ne era anche la regista), Lisa Kudrow e l’immancabile Meg Ryan, insieme a Walter Matthau, alla sua ultima apparizione cinematografica, potrebbe far nascere un pregiudizio a proposito del romanzo, proprio com’è successo a me la prima volta che l’ho tenuto tra le mani. In realtà il caso di Avviso di chiamata dimostra in modo nitidissimo, quasi da manuale, come la stessa storia possa essere raccontata con esiti completamente diversi e suscitare emozioni di segno addirittura opposto.
La vicenda ha per protagonista un’organizzatrice di eventi quarantaquattrenne che vive a Los Angeles, Eve Mozell, la cui caotica vita professionale e personale è travolta da un vero e proprio tsunami quando il padre ottantunenne, ex sceneggiatore dalla personalità ingombrante, mostra i segni sempre più evidenti di una grave forma di demenza senile. Eve deve farsi carico di questa situazione, visto che le sue due sorelle sono troppo impegnate per intervenire in prima persona: la maggiore, Georgia, è infatti la dispotica e pedante direttrice dell’importante rivista che ha fondato e vive a New York, mentre la minore, Maddy, è un’attrice stralunata e fricchettona, alle prese con una gravidanza imprevista e il conseguente licenziamento dalla soap-opera in cui recita da anni un ruolo secondario. Oltre alle difficoltà pratiche, Eve deve gestire anche i sentimenti ambivalenti che prova nei confronti di un padre a cui vuole molto bene, ma che le ha reso la vita impossibile fin da quando era solo una ragazzina, con il suo ego spropositato, la sua passione per lo scotch, il suo disturbo bipolare e i suoi vari tentativi di suicidio, che lo hanno portato a entrare e uscire continuamente dagli ospedali psichiatrici.
Al netto di qualche inevitabile piccola discrepanza, questa stessa trama è stata in grado, come dicevo, di dare vita sullo schermo a un melodramma superficiale e sdolcinato, infarcito di dialoghi – soprattutto telefonici – striduli e isterici, e invece sulla carta a un’esplorazione profondissima di dinamiche umane e familiari in cui è facile riconoscersi, raccontate con sensibilità, onestà e con quell’ironia fulminante e spesso anche amara che della Ephron è il marchio di fabbrica. La scrittrice ha il dono di rappresentare in modo molto preciso la contraddittorietà dei comportamenti e dei sentimenti umani: si può essere a tratti un bravo papà e donare saggi consigli e dimostrazioni di affetto alle proprie figlie anche se si è un “pazzoide egoista”; si può attendere con sollievo e con senso di liberazione la morte di un genitore che ha fatto cose imperdonabili ma, al tempo stesso, rifiutarsi ostinatamente di vederlo andare via per sempre; si può ammirare una sorella, considerarla il proprio punto di riferimento, e sentirsi da tutta la vita in competizione con lei, ma essere anche perennemente infastidita da certi suoi atteggiamenti. Tutto questo la Ephron riesce a farcelo capire senza sprecare parole, scegliendole con precisione chirurgica e raggiungendo un equilibrio perfetto tra il detto e il taciuto: due sorelline in fuga dai genitori ubriachi in lite tra di loro che per farsi coraggio ululano come lupi; una donna adulta che vede entrare l’elegantissima sorella maggiore in un ristorante e misura istintivamente la circonferenza della sua vita paragonandola alla propria, riuscendo a definire e a capire se stessa solo in confronto all’altra; una figlia che non si trattiene dall’appoggiare rabbiosamente la mano su quella del vecchio padre malato, come se potesse davvero farla smettere di tremare per sempre.
Da traduttrice ho avuto il consueto privilegio di poter smontare e rimontare questo meccanismo, rendendomi così conto di dove risieda la sua magia; da conoscitrice della biografia delle sorelle Ephron non ho potuto fare a meno di cogliere in tutto ciò che viene raccontato una forte impronta realistica e personale. Credo che Avviso di chiamata sia l’applicazione pratica più evidente della frase che la madre di Delia e Nora, sceneggiatrice a sua volta (e con gravi problemi di alcolismo come il marito, proprio come i genitori delle sorelle Mozell nel romanzo), ripeteva come un mantra alle sue figlie quando erano piccole: «Everything is copy», ovvero qualunque cosa ti capiti nella vita, bella o brutta che sia, è materiale narrativo, buono per finire in un libro o in un film. Di quella frase le Ephron hanno fatto tesoro, mescolando realtà e finzione, usando esperienze vissute in prima persona, tra cui divorzi, tradimenti, malattie, rughe e nevrosi varie (o, come in questo caso, il rapporto a tratti drammatico con un genitore e l’odio e l’amore per le proprie sorelle), come i mattoni e la malta delle loro opere, facendoci ridere e piangere nello stesso momento, esattamente come capita alle sorelle Mozell al capezzale del loro insopportabile e amatissimo papà.
Enrica Budetta