In occasione dell’uscita di Nel profondo, Stefano Tummolini ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Daisy Johnson.
«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone.»
Natalia Ginzburg
Tutti ci portiamo dietro un lessico famigliare, fatto di parole inventate, modi di dire, nomignoli, che ci rimandano al tempo dell’infanzia o a persone care, a momenti e rapporti indimenticati. Il lessico di Gretel, la protagonista di Nel profondo, è legato a una madre “terribile e meravigliosa” e agli anni trascorsi insieme a lei in una chiatta sul fiume, ai margini della società. Una madre-mostro, vagabonda, egoista, sporcacciona, che beve, fuma, bestemmia e si fa fare la treccia da sirena per rimorchiare gli uomini. È stata lei a farle da maestra, prima che iniziasse a andare a scuola.
Dicevi: Il lago Baikal è il lago più profondo del mondo. Contiene più del 20 per cento delle riserve d’acqua dolce del mondo, esclusi i ghiacciai. La balenottera azzurra è l’animale più grande che sia mai esistito. Il cuore di una balenottera azzurra pesa 700 chili. Un’eclissi è un oscuramento totale o parziale di un astro dovuto all’interposizione di un altro corpo celeste.
Gretel l’ascoltava piena d’ammirazione, imparando a parlare la sua lingua, e a guardare il mondo con i suoi occhi. Poi, però, Sarah l’ha abbandonata, lasciandola da sola con tutte quelle parole in testa.
Era la lingua – la nostra lingua – a crearmi problemi a scuola. (…) In tutti quegli anni, non mi avevi mai detto che stavi inventando una lingua che non esisteva, e che poteva funzionare solo in quel momento, solo tra noi. Non mi avevi mai avvertita. Dopo un po’, gli altri studenti cominciarono a accorgersi che usavo delle parole che non conoscevano. Le ripetevano per prendermi in giro, storpiandole, urlandole nei corridoi oppure in classe. Cominciarono a chiamarmi “la straniera” o “l’inventrice”: è troppo intelligente per parlare la nostra lingua, la sa talmente bene che se la inventa.
Gretel non ha mai smesso di cercarla. Forse per questo è diventata una lessicografa, e compila le voci del dizionario. Ma quando finalmente la ritrova, non può più chiederle spiegazioni – perché Sarah soffre di Alzheimer, e quelle parole non le ricorda più. La sorprende con in mano il suo Oxford Dictionary, intenta a a cercarne una, egaratise.
Significa, scrive Johnson, “sparire, liberarsi dal passato”.
È una parola inventata, che non esiste sul dizionario di inglese: e che io, inventando a mia volta, ho tradotto con sgarattare. Tradurre questa, come molte altre parole del romanzo, ha comportato uno sforzo d’immaginazione.
Qualche esempio:
– Il fiume sfancula a valle (the river is effing along)
Ho usato una parolaccia italiana, visto che eff è usato a volte come abbreviazione per fuck.
– Attimo di svaccamento (sheesh time)
Qui sono ricorso al mio lessico personale, perché sheesh in realtà è un’interiezione usata per esprimere insofferenza, quando si è stanchi di qualcuno o qualcosa.
– Scornacchiata, in originale harpiedoodle, neologismo nato dall’unione di harpie (arpia) e doodle (scarabocchio). La crasi non mi è venuta, quindi ho cercato almeno di mantenere la lunghezza.
In genere ho evitato di ricorrere a sporcature dialettali. Del resto, a quale dei nostri dialetti avrei potuto fare riferimento? Daisy Johnson è nata a Paignton, una cittadina di mare nel Devonshire, ed è cresciuta a Saffron Walden, nell’Essex. Ha ambientato la storia tra le campagne e i canali nei dintorni di Oxford, dove ha conseguito un master in scrittura creativa. Inutile cercare un equivalente in italiano.
Non so se e quanto sono riuscito nell’impresa. Quello che ho cercato di restituire, comunque, è quella sensazione di familiarità, di appartenenza, anche di nostalgia, che proviamo quando certe parole ci ritornano dal profondo. Anche le parolacce, naturalmente. È proprio grazie a queste che, in una delle scene più commoventi del romanzo, madre e figlia si ritrovano – oltre le incomprensioni, i rancori e la malattia.
Cessa puttana rotta in culo.
Tu scoppi a ridere di botto. E’ quasi un grido.
Stronza cogliona testa di cazzo, continuo, sempre più forte. Aspetto.
Zoccola, mi fai.
Troia.
Zoccola.
Rincoglionita figlia di puttana.
Scorreggiona.
Ormai ridiamo così forte che non riusciamo più a andare avanti. Tu sei piegata in due e ti premi i pugni sulla pancia. Per sbaglio rovescio una bottiglietta di shampoo dal bordo della vasca, e questo ci dà un attimo di tregua. Quando raddrizzo la schiena e ti guardo, hai smesso di ridere e mi stai fissando. (…)
Scherzavo, mi fai, e scoppi di nuovo a ridere fino alle lacrime. Ti getto le braccia al collo. Ti getto le braccia al collo e stringo più forte che posso.
Stefano Tummolini