Tradurre «Oggi è già domani» di Jarett Kobek

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Kobek

In occasione dell’uscita di Oggi è già domani, Enrica Budetta ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Jarett Kobek.

 

La traduzione di Oggi è già domani ha rappresentato il mio secondo incontro con la prosa pirotecnica di Jarett Kobek, del quale nel 2018 avevo tradotto il romanzo d’esordio, Io odio Internet. Il libro che esce adesso è una sorta di prequel dell’altro, giacché è ambientato a New York nel decennio 1986-1996, mentre il primo si svolge a San Francisco negli anni dieci del Duemila. Io odio Internet è un testo molto particolare, a metà tra un saggio dagli accenti violentemente polemici e satirici contro la cultura tech della Bay Area e gli effetti che quest’ultima ha avuto sulla città e il resto del mondo, e un romanzo convenzionale, uno che ha per protagonista un’autrice di fumetti quarantacinquenne di nome Adeline. Apparentemente Oggi è già domani ha un impianto più classico, poiché racconta gli anni della formazione della stessa Adeline, una ragazzina ricca cresciuta a Los Angeles con una famiglia molto problematica alle spalle e approdata a New York per frequentare la Parsons School of Design. In un palazzo occupato dove è appena stata piantata dal tizio che frequenta, Adeline incontra Baby, un ragazzo gay arrivato a New York da una minuscola cittadina del Wisconsin, un posto dimenticato da Dio e dagli uomini dove ha vissuto represso sotto ogni punto di vista. Tra i due nasce un’amicizia intensa e complicata, un legame che sopravvive al passare del tempo e ai cambiamenti delle loro identità in costruzione.

A ben vedere, però, la visione retrospettiva è molto più di un mero strumento per continuare la storia di due personaggi interessanti. Oggi è già domani è infatti soprattutto il racconto di una città e di un’epoca, così vivido da sembrare un memoir (anche se naturalmente non lo è, visto che negli anni ottanta Kobek era solo un bambino), condotto con precisione maniacale e riferimenti puntualissimi a luoghi, persone, avvenimenti: nelle pagine del libro rivive la New York sporca e cattiva di quegli anni, prima di Giuliani e della gentrificazione, e le strade dei protagonisti incrociano quelle di artisti e scrittori famosi, come Norman Mailer o Bret Easton Ellis, oltre a quelle di celebrità che all’epoca dominavano la scena dei locali notturni e che hanno contribuito a forgiare l’identità della città, come il promoter Michael Alig insieme ai suoi club kid.

I due libri di Kobek, nonostante le molte apparenti differenze, sono però caratterizzati da una salda coerenza concettuale e uniti da un filo rosso che va ben oltre la mera presenza degli stessi protagonisti colti in epoche diverse delle loro vite, perché secondo Kobek in quell’era di transizione si sono manifestati per la prima volta molti fenomeni che caratterizzano la nostra epoca. Tra questi spiccano il dramma della gentrificazione, che ha colpito la Manhattan di allora (in particolare l’East Village e le zone limitrofe) così come la San Francisco di oggi, sospingendo ancor più ai margini i poveri, ma anche gli artisti, le queen e i freak in generale, cioè quelli che rendevano interessante la città; l’ascesa della società dell’immagine, con la clubland dominata da un personaggio diabolico come Michael Alig, reso onnipotente dall’adorazione cieca delle masse; gli effetti corrosivi della celebrità; l’impoverimento del dibattito pubblico, che è diventato ancora più evidente nella nostra società iperconnessa… Di tutto questo ho avuto conferma quando ho avuto la possibilità – non scontata per un traduttore – di conoscere di persona Kobek e mi ha detto esplicitamente ciò che dalla lettura delle sue opere si intuisce e cioè che Oggi è già domani è un prequel solo dal punto di vista formale, visto che lui era partito dal principio per scrivere la storia di Baby e Adeline, dagli anni della loro giovinezza appunto, salvo poi interrompersi per buttare giù di getto Io odio Internet in seguito a una profonda crisi personale legata al suo trasferimento in una San Francisco stravolta dallo tsunami dell’industria tech e delle start up.

La complessità del progetto di Kobek mi è stata ancor più chiara quando ho dovuto ricostruire l’enorme attività di documentazione che ha svolto e condurla a mia volta per cercare di cogliere e rendere al meglio tutti i riferimenti a situazioni, opere letterarie, film, canzoni, che sono spesso astrusi e celati. O ancora quando ho dovuto lavorare sulla caratterizzazione del registro linguistico dei personaggi, con uno dei due narratori, Adeline, che ha una serie di tic e sfoggia un accento “artificiale”, affettato e volutamente irritante, il cosiddetto “accento transatlantico”, salvo tornare al suo accento californiano naturale quando parla con la madre, o adottare per un periodo il jive talk, uno slang sviluppatosi ad Harlem negli anni Quaranta, dopo essere entrata in possesso di un glossario dell’epoca; mentre l’altro, Baby, ha a che fare con i vezzi linguistici di drag queen eroinomani, club kid fatti di ketamina e “party monsters” dalle inusitate perversioni sessuali.

 

Enrica Budetta

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