In occasione dell’uscita di Tornare a casa, Teresa Ciuffoletti ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Dörte Hansen.
Se non fosse per il corso di filologia germanica frequentato almeno dieci anni or sono alla facoltà di lingue e letterature straniere, dubito che avrei saputo collocare la Frisia settentrionale su una cartina. Questa lacuna andrebbe certamente ricondotta alla mia vasta ignoranza in materia di geografia amministrativa al di fuori dell’Italia. Mi si potrebbe allora rimproverare che in Italia non ci vivo da un pezzo. Io però abito a Berlino, l’ombelico della Germania che si sente ombelico d’Europa, e che pur trovandosi molto a Nord – decisamente più vicino a Kiel che a Monaco, in linea d’aria – è quanto mai distante dalla realtà illustrata in Tornare a casa.
La Frisia settentrionale è l’estrema punta nord-occidentale della Germania, un circondario ai margini della Repubblica federale, appena sotto la Danimarca. Come Berlino è prevalentemente pianeggiante, ma a differenza della capitale tedesca si affaccia sul Mare del Nord, il che si traduce in inverni piovosi e sferzati dal vento. Se Berlino ha la fama di metropoli che si reinventa di continuo, avamposto della storia, questa regione si presenta come una landa desolata, sopravvissuta a secoli di intemperie, la cui cruda e inospitale durezza sembra quasi sminuire le vicende umane. O almeno così appare agli occhi del protagonista del romanzo, di ritorno al suo paesino natale per prendersi cura dei suoi parenti e della loro ormai decrepita locanda.
Ingwer Feddersen ha sempre avuto la passione per gli scavi e i reperti, incoraggiata dalle lezioni del maestro Steensen alla scuola di paese e sfociata poi in una carriera di ricercatore e professore di archeologia in città. Così nel testo ricorrono cenni alla morfologia del territorio, nonché termini specifici di archeologia, geologia e paleontologia. Queste tracce del passato evocano una prospettiva temporale ampia, che si estende fino ai primi insediamenti umani e ancora più indietro, fino alle ere glaciali. Una distesa di milioni di anni, dove a regnare è il soffio inesorabile del vento e il suo assiduo lavoro di erosione l’unica costante.
Ingwer non è il solo in famiglia ad avere la mania dei reperti: anche Marret Feddersen, la pazza del villaggio, colleziona pietre, piante e animali morti. Se ne riempie le tasche mentre vaga per le campagne, li custodisce in una vecchia credenza nella stalla o tra le pagine di un atlante, per poi ritrarli e catalogarli accuratamente nel suo quaderno. E anche Dörte Hansen, intessendo sapientemente dettagli paesaggistici nella trama narrativa, svolge un’operazione simile a beneficio del lettore: ci mostra i massi erratici, le pietre focaie e le belemniti, i ciuffi d’erica, gli ippocastani e i pioppi bianchi in fiore, ci fa sentire il cinguettio concitato delle allodole e il crocidare petulante delle gazze, ci segnala l’arrivo delle rondini in primavera e delle cicogne in estate.
Tutti questi particolari, oltre ad avere una valenza descrittiva e affettiva, sono i riferimenti di senso di una comunità rurale radicata nel territorio e ormai giunta al tramonto. Perché un altro grande protagonista del romanzo è proprio il villaggio con la sua ultima generazione di locals, progressivamente rimpiazzata da famiglie di pendolari e alternativi in fuga dalla città. Una generazione che si esprime con un linguaggio un po’ sgrammaticato, usando termini desueti o dialettali (anch’essi in via d’estinzione), cosicché tornare a casa per Ingwer significa ritrovare parole dimenticate e vecchi modi di socializzare.
Tradurre questo romanzo ha comportato quindi una ricerca intorno a termini e usanze spesso ignoti e impenetrabili persino alla maggior parte dei tedeschi, nonché lo sforzo di ricreare in maniera fedele all’ambientazione e accessibile al lettore italiano l’affresco della vita di paese, con i suoi personaggi scaltri e ingenui, burloni e strampalati, comici e tragici. Per farlo ho dovuto cercare il giusto equilibrio tra colorito locale ed esperienza diffusa, comune a tante realtà rurali nel mondo.
In Tornare a casa la dimensione corale e vignettistica del paese si intreccia con quella psicologica dei personaggi principali. Il risultato è un romanzo a tre tempi: quello più lento e ciclico delle stagioni, che una volta scandivano il lavoro nei campi e le feste di paese; quello della storia che sempre avanza, calata nelle sue innumerevoli declinazioni individuali; e infine, sullo sfondo di tutto, quello immenso delle ere geologiche, talmente dilatato da sembrare eterno. Con questa stratificazione Dörte Hansen ha voluto forse suggerirci che non c’è una prospettiva più valida dell’altra: allargando o restringendo il campo si possono cogliere spunti diversi ma ugualmente preziosi per riflettere sul senso dell’esistenza, sulla responsabilità individuale, sulla continuità e lo scarto irriducibile tra locale e generale, soggettivo e collettivo.
Teresa Ciuffoletti