Vi proponiamo la recensione che Elizabeth Jane Howard scrisse su Harpers & Queen al libro di Lyndall Gordon, «Charlotte Brontë. Una vita appassionata».
«La letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna, non deve esserlo», fu la raggelante replica di Robert Southey alla ventunenne Charlotte Brontë che gli aveva inviato alcune poesie. Come sappiamo, riuscì – contro ogni intimidazione – a dimostrargli che aveva torto.
Uno dei molti pregi di questa biografia è il suo esporre chiaramente tutto ciò contro cui Charlotte si oppose. Le donne erano autorizzate a scrivere romanzi, a patto che evitassero di suggerire l’esistenza di una natura passionale nei personaggi femminili – una Giulietta o una Anna Karenina sarebbero state fuori questione. Questo atteggiamento, prevalente nel Diciannovesimo secolo, fu opprimente anche per gli scrittori uomini, poiché l’idea di passione era comunemente utilizzata per alludere alla materia sessuale, e dalle lettrici donne ci si aspettava che non sapessero – o che non volessero sapere – nulla del sesso (basta guardare ai convenzionali personaggi femminili di Dickens).
Charlotte Brontë scrisse romanzi pervasi di passione. E sebbene la ritrasse nel suo senso più vasto e interessante, fu per questo condannata. Proprio in ragione di un affettuoso desiderio di proteggere Charlotte dall’accusa di “volgarità”, la Vita di Elizabeth Gaskell (scritta poco dopo la morte della Brontë) inaugurò la leggenda della coscienziosa figlia vittoriana, segnata dal lutto e dal dolore e spacciata a causa della tubercolosi; da allora, molti libri dedicati alle Brontë hanno ripreso questo primo ritratto.
Ma Gordon ci racconta un’altra storia e mostra come, a dispetto di una vita segnata da privazioni e perdite soverchianti, Charlotte mantenne intatta la propria passione creativa e riuscì a tramutare le sue esperienze tragiche e dolorose in opere romanzesche. «Ce ne vuole per abbattermi», affermò dopo la pubblicazione di Jane Eyre. Come sottolinea Gordon, nonostante il fato avverso, Charlotte fu «una sopravvissuta con la determinazione di una pellegrina» e la scelta di sposarsi quando era all’apice della carriera – conosceva gli effetti del matrimonio sulle mogli vittoriane – non fu né prevedibile né ordinaria. Incarnò, nelle parole di Gordon, il raro caso del genio che rinuncia all’arte in favore della vita.
Questo è di gran lunga il più interessante ritratto di Charlotte che mi sia mai capitato tra le mani: chi sa poco delle Brontë lo troverà affascinante, ed è irresistibile per chi già le conosce. In entrambi i casi farà tornare i lettori di volata ai romanzi, con rinnovato amore e accresciuta ammirazione per la loro autrice.
Traduzione di Nicola Vincenzoni