In occasione dell’uscita di Non esistono posti lontani, Franco Faggiani ci racconta la genesi del suo nuovo romanzo.
Nel piccolo paese tra le montagne marchigiane dove i mei nonni avevano una grande casa in pietra e dove mia madre mi spediva d’estate, la televisione arrivò all’inizio degli anni ‘60. Fino a quel momento le serate si usava scioglierle lentamente nei piccoli cortili o nei vicoli, le sedie fuori dalle porte, le donne con lo scialle sulle spalle e gli uomini con il cappello di tre quarti e il mezzo toscano tra le labbra.
I racconti erano sempre quelli, da anni: la guerra, certo, ma soprattutto le piccole vendette, le botte a mani nude, le bestie rubate e i morti, più per vecchie ruggini familiari o per incidenti in campagna, gente finita con il carro in un fosso o centrata dal calcio di un mulo. E gli uomini sempre alla macchia, per non stare né con i fascisti né con i partigiani; ma intanto nessuno coltivava più i campi o tagliava i boschi, se non qualche vecchio, temerario o incosciente.
Da ragazzino mi inzuppai con tante di quelle storie locali che credetti per un po’ che la seconda guerra mondiale, in fondo, non era stata altro che una somma di tante guerricciole locali, di paese, anche se i libri di scuola sostenevano ben altro. Mai libri sono spesso un po’ così, mica dicono sempre come stanno davvero le cose, a volte esagerano pure.
Una sera della primavera 2019, tornando da un lavoro in Puglia, ripassai davanti alla casa dei nonni, vuota da decenni. Le pietre sembravano ancora solide, ma gli infissi erano scrostati e cadenti, gli arbusti riempivano il cortile e il lucchetto arrugginito teneva a fatica il cancello, sotto la luce fioca dell’unico lampione nelle vicinanze. Ma dal silenzio dell’abbandono sono sembrate emergere frammenti di frasi, schegge di memoria: “te lo ricordi il poro Ugo, quello che i fascisti buttarono giù dalla cascata?”. “Ah sì, ma almeno morì di colpo. Peggio andò alla Morena, quella vedova che stava al Serrone. Le portarono via le vacche e le pecore dalla stalla e lei e i due figli morirono di stenti”. Cose così, a piccole ondate.
Il giorno dopo, a Milano, svuotando la valigia, tornò alla luce anche il libro che mi ero portato dietro. L’avevo preso per caso, nella pila di quelli acquistati “su consiglio ma senza convinzione”. Invece era stato un libro intrigante, scritto da Francesca Bottari, dal titolo Rodolfo Siviero.
Il protagonista, Siviero appunto, fu un personaggio volitivo, geniale e controverso. Storico dell’arte, fu prima fascista e poi partigiano e successivamente divenne uno 007 abilissimo nella caccia alle opere d’arte trafugate in Italia durante il fascismo e nel periodo bellico. Recuperò diverse centinaia di pezzi preziosi, seguendo come un segugio le labili tracce che ufficiali in fuga, politici e funzionari corrotti, galleristi senza scrupoli, nobili senza più ricchezze, avevano lasciato alle loro spalle. Anche questo, nei miei libri di scuola, non era mai stato raccontato.
Non esistono posti lontani prende spunto da questi due episodi, seppur privi di collegamenti tra loro; se non quello della guerra, insieme di duri conflitti, di massicci bombardamenti, di atroci eccidi. Ma questi sono stati ampiamente raccontati, mentre a me è sembrato più interessante riportare alla luce il passaggio della guerra nei piccoli paesi depredati e dimenticati.
Questa dunque l’idea, ma poi il romanzo s’è quasi ‘costruito’ da solo, con l’assemblaggio delle tante piccole storie raccolte durante un lungo, faticoso ed entusiasmante viaggio da nord a sud dell’Italia, attraverso le strade secondarie degli Appennini. Lo stesso viaggio che poi hanno percorso i due protagonisti del romanzo, ma 75 anni… prima di me. Santino il calderaio, il boscaiolo con i muli, il pastore, i monaci delle abbazie, il capo partigiano di Pontremoli li ho incontrati davvero, strada facendo. Tra le colline reatine e il confine con l’Abruzzo, per esempio, ho girato per un po’ alla ricerca di un paese su misura in cui i protagonisti si sarebbero potuti nascondere con una certa sicurezza. Il posto giusto mi è sembrato Pozzaglia, su un colle circondato dalla vegetazione. Per prima cosa ho attaccato bottone con il barista dell’unico locale aperto, e da lui sono venuto a sapere che proprio lì, a Pozzaglia, s’era nascosto per alcuni giorni Albert Kesserling, il comandante in capo delle forze tedesche, durante la generale ritirata verso Nord, subito dopo la liberazione di Roma.
La rivelazione di questo episodio, che non avevo letto in nessun libro sulla seconda guerra mondiale, è stata davvero sorprendente e ha poi cambiato decisamente la trama nella parte quasi conclusiva del romanzo. Insomma, vecchi ricordi, letture, viaggi nei luoghi dimenticati, incontri casuali, un po’ d’intuito e molta fortuna. Le storie nascono così. Spero che ai lettori del romanzo venga poi voglia di andare a vedere alcuni di questi luoghi descritti, prima che scompaiano del tutto dalla geografia e dalla memoria.
Franco Faggiani