Wolf Hall, l’erudizione nascosta di Hilary Mantel

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In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Hilary Mantel, La storia segreta della rivoluzione, pubblichiamo la recensione di Alessandro Baricco su Wolf Hall apparsa su la Repubblica il 22 luglio 2012.

 

Ti nasconde tutta la sua erudizione perché Hilary Mantel è una vera scrittrice.

Il romanzo storico di qualità è un raro animale anfibio che nella catena genetica del raccontare sta in un interstizio nascosto tra il fumettone indegno e il capolavoro letterario alla Memorie d’Adriano. Dato che il rischio del capolavoro letterario è privilegio di pochi, la tendenza più abituale è scivolare indietro nel fumettone, parola che mi farebbe comodo non stare nemmeno a spiegare e che invece eccomi qui a spiegare: è quando scrivono in quella lingua così priva di ambizioni, o incapace di sottigliezze, da rendere impossibile al lettore di gusto superare la ventesima pagina senza la mesta impressione di essere lì a mangiare fois gras direttamente dalla scatoletta. Spesso si tratta di raccontatori eccellenti, ma va anche capito che se uno viene da buone letture, e magari da qualche Shakespeare, la pretesa di vedersi la tavola almeno un po’ imbandita non è un’arrogante snobberia, è giusto la cosa più naturale del mondo. Va anche detto che il romanzo storico impone, nella sua apparente semplicità, tutta una serie di prodezze tecnico-stilistiche che lo rendono di una perfida difficoltà: se mai dovesse accadervi di scriverne uno sappiate che vi troverete nella necessità di mettere in bocca delle battute a Carlo Magno, o di fare andare a letto Abelardo ed Eloisa, o di sedervi a tavola a una cena da Madame de Pompadour: tanti auguri. Io trovo incredibile come tanti narratori si infilino in simili scalate da sesto grado superiore con un equipaggiamento stilistico che supera di rado l’infradito. Mi verrebbe da chiedermi come mai non c’è qualcuno che li ferma in tempo, ma poi mi ricordo quante copie vendono e allora la domanda mi sembra un tantino meno urgente. (Niente da dire, peraltro, contro quel tipo di pubblico: anche io sono così quando, ad esempio, compro una bicicletta: semplicemente non ho passato abbastanza tempo a pedalare per capire certe differenze, o aspettarmi molto di più che un funzionamento sereno e felice: è solo questione di gesti che non si è fatti a lungo, o molte volte: si hanno gusti semplici, non scemi, semplici. Quindi, amici come prima). Riassumendo: contro ogni logica matematica, se ami la Storia e adori i romanzi avrai i tuoi bei problemi a trovare un romanzo storico che ti piaccia. Io l’ho trovato quando certi amici mi hanno rifilato questo Wolf Hall, insistendo sui fatto che non era affatto quello che pensavo e portandomi all’incredibile risultato di spararmi settecento pagine su un Cromwell che poi, oltretutto, non era nemmeno quel Cromwell.

holbein

Holbein: sketch for Thomas Cromwell

Questo, di nome, fa Thomas, Thomas Cromwell, e sui libri di storia non c’è, o quasi, perché fu sì un uomo dal potere immenso, ma declinato in modo inappariscente e sordo. Privo di funamboliche acrobazie fu il suo destino. Holbein il Giovane ne fece un ritratto che io trovo splendido: Cromwell vi compare diafano, sfuggente e illeggibile: tuttavia è chiaro che se c’è qualcuno che non vorresti mai trovarti contro è quell’uomo. Abilissimo negli affari, era venuto su dal niente scalando l’Inghilterra di Enrico VIII con due sole capacità, ma esercitate a livelli straordinari: la fermezza e la capacità di risolvere problemi. Aveva forse una sua deontologia professionale, uno spiccato senso dell’onore, e un’istintiva grandezza d’ animo: tuttavia il gioco del potere era piuttosto duro, ai tempi, e di tali virtù fece usa molto misurato e sapiente. Veniva dal nulla, ebbe quasi tutto e morì all’età di 55 anni in un modo che, visto il genere di lavoro che faceva, va considerato banale: un boia gli staccò la testa (pare fallendo il primo colpo e quindi complicando un po’ la faccenda).
Poiché inappariscente, Thomas Cromwell non parrebbe l’eroe ideale per un romanzo storico, e qui sta la prima mossa di talento della Mantel: l’averlo scelto – cosa che in un istante la mette a spiare la Storia da dietro, dagli occhi di un personaggio di seconda fila. È un bel trucco perché i re, i papi, le Marie Stuarde sono in questo modo personaggi che sfilano mai troppo vicini, sempre riflessi in uno specchio, spesso rimbalzati da voci altrui: leggermente sfocati, risultano improvvisamente più raccontabili. A questa accortezza la Mantel ha fatto seguire almeno due altre mosse di cui le sono stato grato. La prima è che scrive bene e non ha ritenuto opportuno dimenticarsene. Non scrive neanche tanto semplice, e questa, per il lettore che ha pedalato molto, è di infinito sollievo perché lo porta a quel minimo di fatica che lo fa sentire rispettato. Potrei dire che addirittura ha uno stile, e non sbaglierei di molto. È una scrittrice, ecco, non solo una narratrice. E infine, ha lavorato su un patrimonio di erudizione sterminato, ma non sta a ricordartelo in continuazione. Ha studiato molto, ma non si sente. Questa è una cosa su cui, negli anni, sono diventato intollerante: non perdono a nessuno scrittore di farmi intravedere le ore passate in biblioteca, o a informarsi sul terreno, o a intervistare la gente: mi piace che quelle fatiche scompaiano nel gorgo del testo, fuse in maniera invisibile con la storia, questo sì. Ma quelli che non hanno la pazienza, o la capacità, di fare questa fusione, non li sopporto. Lasciare sulla superficie di un libro le tracce di quanto hai studiato è una cosa penosa come poche altre: oserei dire che siamo ai livelli delle spalline del reggiseno in plastica trasparente. (Non potrei giurare che la Mantel non le abbia mai messe, ma so che in questo libro non le mette mai. Thank you, madam).

Alessandro Baricco

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