Renato Zatti, traduttore di L’erede e Il villaggio perduto, racconta la sua esperienza di traduzione del nuovo romanzo di Camilla Sten.
Prosopagnosia. Già nella prima pagina del romanzo appare questo termine scientifico che indica la difficoltà patologica a riconoscere i volti. A soffrirne è Eleanor, la protagonista del libro, che ha visto in faccia l’assassino della nonna, ma a causa di questo disturbo non è in grado di fornire alcuna indicazione alla polizia. La ragazza, anche quando incontra dei cari amici, riesce a riconoscerli soltanto memorizzando una serie di tratti distintivi che li caratterizzano. Anche un semplice cambio di acconciatura può far sì che non riconosca la sua migliore amica.
Camilla Sten ha sfruttato con grande abilità questo espediente, rendendo L’erede un thriller teso e intrigante. È la seconda volta che affronto un romanzo di quest’autrice, dopo Il villaggio perduto, sempre pubblicato da Fazi Editore (curiosamente in passato ho tradotto anche un libro della madre di Camilla, Viveca Sten, l’autrice della serie sui Misteri di Sandhamn). Dalla cittadina mineraria fantasma nell’estremo Nord della Svezia, tra sparizioni misteriose sullo sfondo di fanatismi religiosi, stavolta l’azione si sposta in una tenuta sperduta a nord di Stoccolma che la protagonista ha ereditato dalla nonna; peccato che la giovane nulla sapesse dell’esistenza di questo luogo misterioso, che cela un oscuro segreto di famiglia. A dispetto delle evidenti differenze di trama, tra i due romanzi esistono comunque dei punti in comune: la protagonista è una ragazza con qualche problema psicologico che si ritrova in compagnia di un piccolo gruppo di persone in una località isolata che nasconde un mistero da svelare. In entrambi i romanzi, inoltre, l’azione si svolge in due epoche diverse e il passato viene ricostruito nel primo caso attraverso le lettere della nonna della protagonista e nel nostro libro attraverso la traduzione di un diario scritto in polacco, rinvenuto casualmente nella casa che Eleanor eredita dall’enigmatica nonna Vivianne.
Dal punto di vista strettamente linguistico, non si può affermare che i romanzi di Sten siano una sfida severa per il traduttore. La lingua è piana e piuttosto semplice, sia nei dialoghi sia nelle descrizioni. Il pubblico a cui si rivolge l’autrice è quello vasto che negli ultimi lustri ha fatto sì che una letteratura di nicchia come quella svedese diventasse un fenomeno di proporzioni inimmaginabili fino a vent’anni fa. Sicuramente Camilla Sten dedica più tempo alla preparazione dell’intreccio che alla ricerca linguistica. Con L’erede è riuscita a creare un plot solido che tiene avvinto il lettore fino al sorprendente finale. La tradizione a cui si aggancia l’autrice non è quella del giallo nordico “politico-sociale” (Sjöwall & Wahlöö, Leif GW Persson, Henning Mankell, per citare solo alcuni degli esponenti più importanti del filone), bensì quella americana (pensiamo all’evidente influenza del film The Blair Witch Project, del 1999, sull’idea alla base di Il villaggio perduto). Più che rivelarci qualcosa sulla Svezia, l’autrice preferisce scavare nei reconditi anfratti dell’animo umano. Sten ha senz’altro un debole per gli intrighi di famiglia e sa tratteggiare delle figure femminili di un certo spessore, sovente opposte a maschi deboli e indecisi. Sebastian, il compagno di Eleanor in L’erede, ne è un ottimo esempio: dovrebbe supportarla dopo il trauma conseguente all’omicidio della nonna, ma non ne è in grado. E non è certo un caso che anche l’altra figura chiave del romanzo, la nonna Vivianne, sia una donna estremamente forte e decisa, ai limiti dell’intrattabilità, ma ci fermiamo qui, perché rivelare altri dettagli su questo personaggio rischierebbe di rovinare la sorpresa ai lettori.
Renato Zatti