Guida turistica per apprendisti maghi – Prima puntata: la Garfagnana pericolosa

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Garfagnana

In occasione dell’uscita di Per chi è la notte, l’autore Aldo Simeone ci racconta la magia della Garfagnana, in cui si svolgono gli eventi del suo romanzo.

 

La Rocca ariostesca, a Castelnuovo Garfagnana

Nel 1522 Ludovico Ariosto fu nominato da Alfonso I d’Este governatore della Garfagnana. Che ci facesse un poeta nella regione più pericolosa e più illetterata del ducato se lo chiese lo stesso autore dell’Orlando furioso. La risposta fu: sfiga.
Sottrattosi alle grinfie del cardinale Ippolito, che poco aveva gradito le sue «corbellerie» poetiche, Ariosto invocava solo la pace di un’altra «servitù», sì, ma «di minor disagio». Ricevette invece la sgradita promozione a pedina sacrificabile.
Asserragliato nella rocca di Castelnuovo che ora porta il suo nome, si racconta che ne sia uscito appena sei volte in tre anni. Una di queste, cadde in un’imboscata (quando si dice la sfiga…). Mentre i briganti lo ripulivano di tutti i suoi averi, il capobanda, un tal Pacchione, udendo pronunciare il suo nome, esclamò: «Dov’è? Dov’è messer Ariosto?».
«Sono io», rispose il governatore.
«Che non sia torto un capello al grande poeta!», ordinò Pacchione. La refurtiva fu subito restituita tra mille scuse, e il brigante aggiunse, con un inchino: «Messere, anche i banditi della Garfagnana, che voi sferzate nelle vostre satire, vi stimano e vi rispettano».
Ariosto aveva finalmente trovato chi sapesse apprezzare la sua poesia.

Questo aneddoto, reale o immaginario che sia, svela una verità sulla Garfagnana: non è Toscana né Emilia; è Appennino. In altre parole è terra di nessuno, «ultima regione dell’universo», con suoi dialetti, costumi, tradizioni, persino un suo modo di stare al mondo.
Ariosto, che nell’Orlando furioso aveva pianto il tramonto dell’etica dei cavalieri, non si aspettava certo di trovarne uno in Pacchione, brigante di San Pellegrino. Eppure era naturale: qui, dove ogni spostamento è lento e pericoloso, anche la storia arriva in ritardo.
A stento sono arrivati l’acqua corrente, il gas, la luce, il telefono. Della fibra non se ne parla ancora. Ma c’è qualcosa che non ha bisogno di strade asfaltate per inerpicarsi nei pendii più scoscesi: le storie. Dove arriva un uomo a piedi, arrivano anche loro. Anzi, dove ne arrivano almeno due. È il numero minimo per incontrarsi. E incontrarsi è parlare. Condividere. Narrare.
Perciò, apprendisti streghe e stregoni, se cercate mostri e incantesimi, prodigi e creature fantastiche, è qui che dovete venire: fra questi boschi e campanili nessuno si è ancora accorto che la magia è passata di moda; che il resto del mondo le ha preferito l’elettricità.

Il Ponte del Diavolo, a Borgo a Mozzano

Ora, per entrare in un luogo magico che si rispetti, è necessario un portale. Non può mancarne uno all’ingresso della Garfagnana. Si trova a Borgo a Mozzano, dove il Serchio china la testa sotto il Ponte del Diavolo, che la leggenda vuole fatto costruire intorno all’anno Mille nientemeno che da Matilde di Canossa (la grancontessa dell’«umiliazione» di Enrico IV). Lungo 90 metri, «a schiena d’asino» e quattro arcate diseguali, di cui quella centrale supera in altezza i 18 metri, si racconta che il ponte fu costruito in una sola notte, grazie a un patto siglato fra il capomastro e il diavolo. Al primo erano stati imposti tempi strettissimi per il completamento dell’opera (ma Matilde non era donna di trattativa?); il secondo – si sa – è sempre ingordo di anime. I due si accordarono in questo modo: il cantiere si sarebbe chiuso in tempi record, ma la moneta di scambio sarebbe stata l’anima del primo mortale che avesse attraversato il ponte.
Il diavolo fu di parola; il capomastro no. Con l’aiuto del vescovo, ordì questo stratagemma: fece «collaudare» la costruzione a… un maiale. Il beffato, per la rabbia, si buttò nel Serchio.
A riprova della natura prodigiosa del ponte, basti un dato storico: è sopravvissuto indenne all’arrivo (e alla dipartita) dei nazisti, che pure lo avevano minato da cima a fondo.
Il giorno migliore per visitarlo? La notte, ovviamente. Quella di Halloween, quando a Borgo a Mozzano convergono mostri, morti e orrori per una delle più grandi feste spettrali d’Italia.

Una marmitta dei giganti

Ultima tappa imperdibile di questo primo giorno d’esplorazione per apprendisti maghi sono le «marmitte dei giganti», sparse in un’area che ha il suo centro ad Arni. Là dove scorre il torrente invisibile detto Tùrrite Secca (nomen omen), vicino al suggestivo bosco del Fatonero (forse da «fatto nero», un delitto efferato), si trovano queste profonde cavità circolari, piene d’acqua o di echi – a seconda della stagione. Gli scienziati sostengono che siano depressioni a forma di pozzo scavate nella roccia per l’erosione fluviale. Ma tutti i garfagnini sanno benissimo che sono le impronte lasciate dai giganti, un tempo numerosi nell’Appennino tosco-emiliano, e chissà: forse ancora presenti ma schivi.
Francesco, nel romanzo, spiega a Tommaso che nelle marmitte le fate fanno il bucato. Sembra infatti che quelle magiche creature non facciano altro dalla mattina alla sera che dedicarsi alla biancheria. Abilissime tessitrici, vivono rintanate nelle caverne e ogni tanto ne escono per lusingare i bei giovanotti donando loro certi tessuti pregiatissimi. Il beneficiato deve ringraziare e non vantarsi con nessuno dell’attenzione ricevuta, altrimenti le fate s’indispettiscono e possono essere vendicative.
Secondo gli antropologi (gente scettica), questo mito, popolarissimo in tutta la Garfagnana, sarebbe da spiegare con la grande quantità di caverne presenti sul territorio, nella preistoria abitate dall’uomo e ora da animali non sempre socievoli. Per scoraggiare i bambini dal ficcare il naso in antri pericolosi, gli adulti avrebbero dunque inventato lo spauracchio delle fate. Ma che spauracchio sono? Belle, gentili, solo un po’ dispettose. E d’altronde, se anche fossero mostri e streghe orribili, poco cambierebbe. Le paure, da piccoli, bisogna andarsele a cercare.

 

Aldo Simeone

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