In occasione dell’uscita di L’albero della vergogna, Raul Schenardi ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Ramiro Pinilla.
Quando mi è stato proposto di tradurre La higuera (Il fico), di Ramiro Pinilla conoscevo solo Aquella edad inolvidable, storia di una promessa del calcio costretta ad abbandonare la carriera, che conserva però fino alla fine una grande dignità. Il libro era un regalo di un’amica e collega, grande estimatrice dell’autore, che da tempo me ne raccomandava la lettura. Confesso che il numero di pagine di quello che è considerato il suo capolavoro, la trilogia di Verdes valles, colinas rojas, mi aveva spaventato, ma la curiosità era rimasta, anche perché – afflitto come sono da una concezione romantica della letteratura – provo un’immediata simpatia per gli scrittori che nella vita hanno fatto vari mestieri, che scrivono per autentica vocazione e non per rispettare scadenze, in perfetta solitudine, indifferenti ai maneggi delle conventicole editoriali. E Pinilla rientra a pieno titolo in questa schiera. Infatti ha lavorato come macchinista su una nave, poi in una fabbrica di gas e infine come redattore presso una casa editrice, mentre scriveva di nascosto e nello scarso tempo libero che gli lasciavano gli impegni familiari. Il che rende ancora più ammirevole la sua vasta opera: oltre venti romanzi e due raccolte di racconti.
Ramiro Pinilla (1923-2014) è nato a Bilbao, nei Paesi Baschi, e tutto ciò che ha scritto (in spagnolo) è ambientato nella sua terra, in particolare nel municipio di Gexto; e sì, nella decisione di esaminare questo microcosmo con la lente del realismo – fino a farlo entrare in una dimensione leggendaria – ha influito la lezione di Faulkner e della sua Yoknapatawpha.
La lingua basca, com’è noto, ha origini sconosciute e non ha legami di parentela con nessun’altra, e i nomi propri e la toponomastica dei luoghi mi hanno provocato un leggero spaesamento al primo impatto con il testo: Azkorra, per esempio, è il cognome di una delle due voci narranti del romanzo, che si apre e si chiude con la testimonianza di questa maestra di scuola. Poi abbiamo Asier Altube, Manuel Goenaga… e il soprannome di Rogelio – il falangista protagonista dell’Albero della vergogna il cui racconto in prima persona occupa la lunga parte centrale – è Txominbedarra (come si pronuncerà?). Il basco inoltre fa capolino nei dialoghi di Cipriana, la popolana antifranchista responsabile della trasformazione di Rogelio in un santone con ampio seguito di beghine. La lingua basca è stata proibita e criminalizzata nei quarant’anni della dittatura, e i baschi, da subito schierati con i repubblicani, subirono un trattamento durissimo durante la guerra civile. E al centro del romanzo c’è proprio un episodio della sanguinosa repressione che si scatenò dopo la vittoria di Franco contro chiunque fosse sospettato di simpatizzare con i repubblicani e gli autonomisti baschi.
Così il dramma psicologico dostoevskiano di Rogelio, provocato inizialmente dalla paura che gli provoca lo sguardo tagliente di un bambino – l’altro grande protagonista muto del romanzo –, trasforma a poco a poco un miliziano falangista in un uomo devastato da una profonda crisi di coscienza, sullo sfondo di un affresco in cui trovano posto la conquista di Bilbao, il crollo del sistema difensivo repubblicano e la conseguente disfatta delle forze antifranchiste.
Naturalmente il lavoro di traduzione ha comportato un approfondimento della cornice storica in cui si situa la vicenda, anche per approntare alcune note al testo necessarie per un lettore italiano all’oscuro dei fatti e del contesto (non tutti conoscono José Antonio Primo de Rivera, o il generale Mola, o sanno chi fossero i requetés, o i Flechas y Pelayos).
Il romanzo si basa sulle terribili esperienze vissute dall’autore nell’adolescenza: «Decenni dopo, si ricordava ancora di quei falangisti del primo dopoguerra che rastrellavano le case di Gexto e dei dintorni in cerca di carne da mettere al muro», ha scritto Fernando Aramburu in occasione della morte dell’amico, e «credeva in quella sinistra internazionalista che propugnava la fratellanza fra i popoli e i diritti dei lavoratori». Pinilla dunque ci dà un ritratto spietato del gruppetto di falangisti cui appartiene Rogelio. Fra questi emerge la figura del capo, Pedro Alberto degli Echebarri, una delle famiglie più in vista del paese, il quale, oltre che dal furore ideologico, è spinto dalla volontà di vendicare il padre, ucciso per rappresaglia mentre era detenuto su una nave-prigione (Pinilla non tace questo vergognoso episodio di cui furono responsabili le forze antifranchiste). Ma tutti i personaggi che compaiono via via nel romanzo e che ruotano intorno al misterioso fico – Cipriana e il marito sindaco, lo spione convinto che sotto l’albero si nasconda un tesoro, il vescovo reazionario alleato dei falangisti, la ex fidanzata di Rogelio – sono tratteggiati con sapienza dall’autore, che non rinuncia, pur raccontando vicende tragiche, a fare uso di quell’«umorismo sotterraneo» segnalato da Aramburu, «il cui scopo originario non è provocare le risate, ma conficcare nell’interlocutore, come senza volerlo, un pungiglione di sottile ironia».
Ma è verosimile che un uomo rimanga per trent’anni a sorvegliare la crescita di un fico, vivendo all’addiaccio come un eremita, prima per paura, poi per scontare una colpa? Non si direbbe, eppure Pinilla riesce a convincere il lettore, e un romanzo realista che indaga la psicologia del personaggio principale, parlandoci di memoria, di vendetta e di perdono, assume anche una forte carica simbolica.
Raul Schenardi