In occasione dell’arrivo in Italia di Daisy Johnson, che parteciperà alla fiera Più libri più liberi sabato 7 dicembre, vi proponiamo la traduzione della recensione di Nel profondo di Jeff VanderMeer per il Guardian.
Finalista al Man Booker Prize, questa complessa storia su una problematica relazione madre-figlia crea una nuova strana mitologia.
Sono venuto a conoscenza di Daisy Johnson tramite la sua orma già classica raccolta di racconti, Fen, una collezione audace e spietata a metà strada tra Angela Carter e Deborah Levy. Lo stile potente e la poesia schietta delle sue storie di donne spesso costrette a combattere con uomini difficili utilizzavano il fantastico in modi brillantemente corporei. Nel suo primo romanzo, in lista per il Man Booker Prize, Johnson mescola la sua comprensione dell’animo umano con il suo stile sofisticato per esaminare una travagliata relazione madre-figlia. Il risultato mi ricorda Iris Murdoch – quell’interiorità intransigente del personaggio – e opere più recenti come Stagno di Claire-Louise Bennett.
La narratrice, Gretel Whiting, scrive all’inizio del romanzo che «gli inizi sono più dei finali in grado di contenerli»: una lezione cruciale sulla vita e sulla memoria che ci indica come leggere questo romanzo complesso e senza compromessi. Fino all’età di tredici anni, Gretel viveva su una barca in un canale con sua madre, Sarah. Ma non la vede da sedici anni e la sua ricerca di sua madre ha finito per travolgere tutto: passato, presente, futuro. Influisce anche sul suo lavoro a Oxford, dove aggiorna le voci dei dizionari. Rimane bloccata sulla parola “pausa”, ritrovandosi a confrontare i suoi ricordi di Sarah con il difficile compito di definire le parole strane. Controlla compulsivamente gli obitori e rivisita un appartamento che un tempo condivideva con sua madre.
La memoria di Sarah è tanto mutevole quanto un’altra creatura liminale: l’essere conosciuto come Bonak, o il “ladro di canali”, a cui si riferiscono i pescatori lungo il fiume quando dicono che «le cose di notte scompaiono». Gretel ha sentito la presenza del Bonak, così come la sua identità mutevole, per tutta la sua vita; a un certo punto afferma di pensare che la madre l’abbia ucciso, poi si rivolge di scatto a un’amica: «È qualunque cosa… L’estate scorsa era uno stupido cane».
Parte del motivo per cui il Bonak può rimanere ambiguo e perché Nel profondo può spostarsi tra così tante storie e rimanere coerente, è il fatto che il senso del luogo del romanzo è così organico e dettagliato. Come in Fen, l’affinità di Johnson per il mondo naturale è straordinaria, anche quando questo è oscuro e inquietante. Scrive del «fango sui bordi delle sponde del fiume, dei conigli nelle loro tane cavernose, delle gallinelle d’acqua che dormivano sui rami bassi». Gli insetti non si limitano a strisciare: «il terreno prudeva di pidocchi del legno, di millepiedi».
Il Bonak esiste davvero? Sarah esiste ancora? L’eccentrica relazione madre-figlia è il cuore del romanzo, intorno alla quale si muovono uomini animati dalla propria crudeltà, minaccia o incertezza. Cadono e ritornano più o meno allo stesso modo del Bonak. Alcuni vengono assassinati.
Gretel non ricorda molto di «quell’ultimo mese» che trascorse sul fiume con sua madre, solo l’arrivo di Marcus, che rimase un po’ di tempo con loro, e che forse un tempo si chiamava Margot. (Il romanzo esplora anche i ruoli di genere e la fluidità di genere). «L’oblio è, penso, una forma di protezione», scrive Gretel. Ma dimenticare non può fornire una soluzione, così Gretel, ormai adulta, decide di rintracciare Marcus, solo per scoprire una ex amica, Fiona. Fiona potrebbe essere l’unica persona in grado di risolvere il mistero del perché Gretel ha lasciato il fiume e perché si è separata da sua madre.
Tendo a rifiutare le opere che fanno un uso troppo ovvio dei simboli. Ma in Nel profondo, qualunque cosa resti di Hansel e Gretel dei fratelli Grimm, o del mito greco, è stata ridotta come il legno marcio di una barca a remi rimasta affondata per in un decennio nel fango. Sembra più un’allusione o un’impalcatura innocua: qualcosa che il narratore usa en passant. E ciò che rimane forma una mitologia unica e strana che emana dalla verità di questi personaggi e dei paesaggi in cui vivono, sia interni che esterni, come se ad ogni passo in avanti e ad ogni passo indietro nel passato, la loro reinvenzione rinnovi anche il folklore.
Questo è importante, perché parte della natura della comprensione è accettare il suo disordine, il fatto che richiede di tornare indietro e anche di ammettere le proprie sconfitte. C’è un’altra sfida nel modo in cui Gretel usa la seconda persona per rivolgersi direttamente a sua madre. Sarah è sempre lì per Gretel, e il tempo diventa sfocato, come se tutti i momenti avessero luogo allo stesso tempo e nello stesso posto, dominato dal flusso del fiume. È una scommessa ambiziosa, ma ciò che potrebbe risultare confuso e ingarbugliato è in realtà reso con sorprendente chiarezza.
Dopo aver ricevuto una telefonata che potrebbe provenire da Sarah, Gretel tornerà nel luogo in cui una volta viveva. Il Bonak verrà cacciato. E con esso il senso e la morte. Come scrive Johnson: «Cosa rimarrà di quel fiume perduto nel tempo? … Cosa abbiamo invocato?». Non ci sarà alcuna soluzione facile, ma ci saranno sorprese e caute riconciliazioni. Il mistero viene messo a fuoco e, anche se non viene completamente risolto, vedere i suoi contorni chiari è una sorta di vittoria per Gretel. Alcune cose rimarranno perse per sempre. In qualche modo siamo tornati all’inizio, dopo aver ripercorso i nostri passi, ma ora siamo diversi, cambiati per sempre dal viaggio.
Traduzione di Thomas Fazi