Siamo orgogliosi di presentare al pubblico italiano Elizabeth Jane Howard, la famosa scrittrice inglese matrigna di Martin Amis e compagna di vita di Kingley Amis. Di lei Martin Amis ha detto: «Elizabeth Jane Howard è la scrittrice più interessante della sua generazione. Come Muriel Spark, ha uno sguardo inconsueto e poetico, e un buonsenso penetrante». Il 26 giugno uscirà in libreria uno dei suoi capolavori, Il lungo sguardo, di cui vi proponiamo un estratto.
La situazione tra loro, rifletté lei, doveva essere cambiata in modo costante ma impercettibile fin dal momento in cui si erano sposati. Certamente, quando si erano sposati, lei era soggiogata dall’amore e non poco spaventata; quantomeno si era consegnata a lui, così sentiva, con onestà e con la precisa intenzione di fare la sua parte: gli aveva confessato con sincerità di non sentirsi più infelice, anzi di non sentirsi in nessun modo.
Ricordava bene il suono della propria voce quando aveva detto «in nessun modo», perché poi era stato davvero difficile andare avanti. «Se, malgrado ciò, sei del tutto sicuro di voler… ma tu non sai come puoi diventare!», aveva concluso con un brusco scatto. C’era stato un breve silenzio. «Tu… tu mi piaci», aveva aggiunto poi, e si era sentita arrossire per l’inadeguatezza di quella dichiarazione.
«Bene», era stata la replica di lui; la osservava con intensità. «Bene». Era seguito un secondo breve silenzio durante il quale lei aveva lottato con quella che percepiva come un’intollerabile mancanza di sentimento.
«Mi dispiace di poterti dare così poco».
Lui allora aveva sorriso. «Un poco molto affidabile».
E per la prima volta era rimasta in attesa che lui la baciasse, ma non era successo. Dopo che gli ebbe detto quanta paura avesse di dirlo ai suoi, lui aveva svoltato a sinistra, sulla strada costeggiata dagli essiccatoi di luppolo che portava alla casa dei suoi genitori, ma poi aveva proseguito dritto verso Londra.
«Che stai facendo?».
«Ti rapisco, con le più onorevoli intenzioni. La maggior parte della gente vive la propria vita alla rovescia. Non devi tornare più in quella casa. Da adesso in poi mi occupo io di te».
Si erano sposati con una cerimonia molto discreta, con licenza speciale. «Non spenderemo un soldo per le nozze, ma spenderemo tutto in luna di miele».
«Ma a me servono i miei vestiti!».
«Non ti servono i vestiti. Andiamo a Parigi».
Erano a Parigi da una settimana, e la situazione in effetti era cambiata. Ora, trascorsi sette giorni di quella vita a lei così estranea che ogni suo singolo aspetto rappresentava una novità, si sorprendeva di non avvertire alcuna stanchezza e di avere anche assai meno paura, cosa che la riempiva di gratitudine per lui e di compiacimento per se stessa.
Suo marito aveva preso in affitto un appartamento arredato, col personale fornito dal padrone di casa: una coppia che si presentava ogni mattina per cucinare, pulire e guidare la macchina (Conrad detestava guidare, scoprì, e decise tra sé di imparare a farlo lei). Le aveva detto dell’appartamento solo una volta arrivati a Parigi e lei, chissà perché, si era allarmata a quella prospettiva. «Credo che ti piacerà», l’aveva rassicurata lui. «Non si dovrebbe mai cominciare una vita coniugale in albergo, se lo si può evitare. Si è costretti a estenuanti picchi di intimità alternati a bagni di folla. Ma non dobbiamo andarci per forza, se non ti piace». Poi aveva aggiunto: «Vedo che ti stai sforzando di fartelo piacere». Troppo nervosa per replicare, lei aveva continuato a guardare fuori dal finestrino del taxi le bellissime ed esotiche vie di quella città sconosciuta. Aveva notato le imposte delle case e i castagni, oltre all’ampia, maestosa dirittura delle strade. Era primavera e cadeva una pioggerella lieve, che rendeva più vivido il verde degli alberi e dissolveva le acquose sfumature di grigio di pietre, edifici e manto stradale fino a renderli indistintamente strada, del colore della strada di una città straniera, pensò. Il cielo era chiazzato di bianco e di azzurro e, più in lontananza, di un giallo ambrato, acceso, da tramonto imminente. Le aiuole di tulipani rilucevano rinvigorite dall’acquazzone; tendoni e ombrelli alternavano i loro colori con strisce scure e oleose di pioggia. Attraversarono il fiume percorrendo un ponte che le sembrò decorato con enormi pezzi staccati da un colossale lampadario. «La Rive Gauche», aveva detto lui. Quando arrivarono all’appartamento aveva smesso di piovere; una luce crepuscolare s’insinuava tremante lungo le strade e, mentre usciva dal taxi, le giunse alle narici un aroma di pane caldo appena sfornato.
L’appartamento le era piaciuto moltissimo fin da subito. Aveva un’aria di appartata distinzione. Gli arredi (con l’eccezione di una splendida testa di ragazza di Modigliani) avevano tinte sbiadite ed erano molto semplici. C’era un caminetto a giorno dove il fuoco ardeva costantemente con la stessa impeccabile intensità, e c’era un vaso da fiori che le sembrava contenesse almeno un migliaio di tulipani. «Mi piace eccome!», aveva esclamato: le sembrava di essere ospite di un sontuoso party orchestrato da lui, ed era ansiosa di comunicargli la sua gratitudine. Aveva fatto qualche timido passo per la stanza palesando la propria ammirazione e poi, quando si era accorta che lui la guardava, si era fermata per passarsi una mano tra i capelli. Lui aveva detto subito: «Stavo giusto pensando che dovresti lasciarti crescere i capelli».
Lei era rimasta in attesa: aveva già imparato che, quando faceva simili commenti sul suo aspetto, c’era sempre dietro qualcosa.
«Sì», aveva proseguito Fleming. «Saranno più impegnativi da curare, ma ti renderanno così bella che non te ne importerà».
«Inizierò a farli crescere da subito».
«Bene. Hai tutto il tempo. Ora. Ti andrebbe di fare un bagno mentre cerco qualcosa da bere? Preferisci cenare in casa o uscire?».
«Tu cosa preferisci?».
«Mia cara Antonia, io ho già tutto quello che desidero. Adesso tocca a te scoprire cosa ti piace di più e godertelo. Ti ho portato qui per questo preciso scopo».
«Ma io non lo so, capisci? Proprio non lo so!».
«Dovrò spargere semi di sicurezza nella tua anima finché non lo scoprirai, allora. Preferisci cenare in casa stasera e uscire domani».
«Bene, in tal caso, credo che gradirei anche un bagno».
Ma quando lui era uscito dalla stanza, lei si era seduta sul bordo del letto e aveva guardato la propria mano, che sembrava interamente coperta dalla fede nuziale, e si chiese che cosa le fosse venuto in mente di fare. Non sembrava esserci alcuna valida ragione per cui, dopo le parole tremendamente ben scelte che aveva detto quella mattina presto in circostanze tanto incongrue, lei dovesse ritrovarsi a Parigi, in un appartamento, insieme a un tale che sentiva di non conoscere affatto. Fintanto che erano insieme, riusciva a reprimere i sensi di colpa per non saper eguagliare le granitiche certezze che aveva lui; ma da sola diventava preda di una paura crudele. Immaginava, per esempio, che lui l’avesse sposata solo perché non l’aveva ritenuta capace di accettarlo senza ricambiare il suo amore. Se davvero Conrad covava questo segreto scetticismo, tutto si riduceva a una questione di tempo: che ne sarebbe stato di loro quando alla fine lui avesse scoperto che lei non lo aveva mai amato e non lo amava? “Però io gliel’ho detto, e diverse volte”, pensava, “non può essersi illuso: e poi, immagino di essermi sottomessa alla sua ferrea determinazione. Almeno mi sforzerò di fare la mia parte, di comportarmi come vuole lui, anche se non saprò essere come lui mi vorrebbe”. Quelle conclusioni erano ormai familiari: finiva sempre col concepire propositi la cui drasticità era pari all’ignoranza che vi era sottesa.
Non lo aveva sentito entrare e non era abituata a quel particolare tipo di violazione dell’intimità. Lui lo capì non appena la vide sorridere.
«Scusa. Non sto ancora facendo il bagno».
«Non c’è nessuna fretta». Le si avvicinò e si sedette accanto a lei sul letto. «Credo di sapere a cosa stai pensando».
«Non ci sto pensando più», rispose lei scattando sulla difensiva. Conrad le sfiorò la mano.
«Sono così felice che tu alla fine abbia accettato di sposarmi. Dopo un simile atto di fiducia non pretendo nient’altro da te».
«Ma sei tu che ti sei fidato di me! Mi hai sposata a scatola chiusa».
Le sorrise. «Non a scatola chiusa. Niente affatto».
«Voglio dire… io non ti ho detto niente… niente di niente».
«Oh», la interruppe sbrigativo, «nessuno di noi due sa molto della vita dell’altro».
«Io posso parlartene, se vuoi che lo faccia. E se credi che sia il caso».
Lui ci pensò un momento e poi disse: «Voglio dirti io una cosa, riguardo al dovere: non esiste alcun dovere fintantoché si ha un’alternativa concreta».
«E io non ce l’ho?».
Lui si era reso conto che lei non lo capiva. «Non ancora. Comunque sia, non voglio che tu ti faccia carico di buone intenzioni: sono un terribile deterrente al piacere. Dopo cena discuteremo di come trascorrere il nostro tempo qui». Si alzò. «Quando avrai fatto il bagno troverai una scatola sul letto con dentro quello che con termine volgare e inesatto si definisce un abito da tè. Pensavo che potresti indossarlo per bere dello champagne, piuttosto».
Mentre la moglie camminava verso la porta che supponeva conducesse al bagno, lui la chiamò:
«Antonia!».
Lei si voltò. Conrad era appoggiato allo stipite dell’altra porta, gli occhi chiarissimi e accesi. «Cara Antonia, c’è un’altra cosa. Non ho nessuna intenzione di fare l’amore con te, per adesso. Perciò non preoccuparti nemmeno di questo».
Poi, prima che lei si rendesse conto di essere senza parole, se n’era andato chiudendo la porta.
A cena le presentò un programma allettante e vario, e la invitò a scegliere quello che voleva fare prima. Dopo che ebbe dichiarato a più riprese la propria ignoranza in materia di artisti o correnti artistiche, couturier, luoghi o cibi, lui aveva riso e aveva detto con semplicità: «Non sto cercando di educarti. Volevo solo sollecitare i tuoi sensi, più sensi possibile. Tu devi dirmi solo che non ti piace ascoltare o, in alternativa, che non hai mai ascoltato».
«Non ti sembrerò un caso disperato?».
«Buon Dio, no di certo!».
«Non vorresti una moglie ben informata?».
«Non sono un patito dell’informazione. No, voglio che tu sia informata su ciò che riguarda il tuo piacere. Non mi piacciono quelli che leggono quindici libri scritti da uno che avrebbe fatto meglio a limitarsi a tre».
«Ma se a uno piace leggere, deve rassegnarsi a subire molte delusioni».
«Delusioni, certo. Se però leggi un libro e ne resti delusa, è perché speravi di esserne invece gratificata. Voglio solo che la tua ricerca del piacere prenda più strade possibile. Non voglio che tu mi segua con l’intima convinzione che ciò che andremo a sperimentare non ti piacerà. Se provi questo, dimmelo, e faremo un’altra cosa».
Antonia osservò: «Ti riferisci alle vacanze, immagino». Era stata cresciuta in tutt’altro modo, lei.
«No, no. Alle nostre vite. Le vacanze sono solo una variazione sul tema del piacere».
«Sei stato educato a dare tanta importanza al piacere?».
«No. In materia di piacere, mi sono educato da solo. E anche in materia di soldi», aggiunse in fretta. «Mio padre era un portentoso investitore, a perdere».
«E tu?».
«Oh, io a guadagnare», disse lui. «Ma ora non più. Quando torniamo, voglio trovarmi qualcosa da fare. Per allora spero di aver chiuso con le speculazioni».
Parlava di se stesso con un distacco che rendeva difficile credere che tra i due ci fosse una relazione. La vide alzare gli occhi di colpo dal soufflé e disse: «Non agitarti. Non hai sposato uno che ha deciso di giocarsi tutto quel che ha al tavolo da gioco. Io non gioco: io spendo. Ti ho comprato una casa, sai?».
«Davvero? Non mi sto agitando. Perché dovrei? Dove si trova?».
«Oh, non ho intenzione di dirtelo stasera. Se non ti piace, ne prenderemo un’altra. Ma ancora non l’ho arredata».
«Allora non andremo a starci subito al ritorno?».
«Oh, no. La prima a entrarci sarai tu, poi sceglieremo quello che va bene a te».
«Non deve andar bene anche a te?».
«Io sono un camaleonte», replicò lui ammiccando, garbato e sardonico. «Che ne diresti di bere il caffè davanti al fuoco?».
Molto più tardi, dopo ore di facile e vivace conversazione, Fleming si alzò dalla sedia e disse: «Sei stanca adesso. Parleremo ancora domani».
Si era lasciata assorbire al punto che quell’interruzione la fece sentire tradita, e se n’ebbe a male in modo un po’ puerile.
«Chi ti ha detto che sono stanca?».
Conrad si alzò a guardarla con quel suo peculiare, affettuoso distacco. «Il fatto che sono apparse delle vene azzurre sulle tue palpebre e che hai un piccolo muscolo qui», le toccò il viso con le dita, «che pulsa. Vedi? Sono aspetti eccitanti della tua bellezza… Oh sì», bloccò sul nascere le obiezioni di lei, «sei bella già adesso. Eppure per me quello che più conta è che tu sia destinata con tutta evidenza a diventare sempre più bella negli anni a venire, e che io assisterò a tutto questo».
Lei si sentì arrossire mentre lo fissava.
«Sì», fece lui un attimo dopo, dato che lei non aveva smesso di fissarlo.
«Io… anch’io ti stavo guardando».
Fleming alzò le sopracciglia (un vezzo che, Antonia lo avrebbe scoperto col tempo, significava ansia o imbarazzo) e poi disse con noncuranza: «Come ti sembro?».
Lei lo studiò ancora con gravità, attenta e curiosa. «Sembri», azzardò: era ancora molto insicura, «come se volessi a tutti i costi sembrare una persona di età indefinibile».