Gianfranco Fini

L’Europa che verrà

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Il destino del continente e il ruolo dell'Italia

Collana:
Numero collana:
62
Pagine:
133
Codice ISBN:
9788881124848
Prezzo cartaceo:
€ 13,00
Codice ISBN ePub:
9788876254826
Prezzo eBook:
€ 4.99
Data pubblicazione:
07-11-2003

A cura di Carlo Fusi
Prefazione di Giuliano Amato

All’inizio dei lavori della Convenzione Europea, Gianfranco Fini, rappresentante del governo italiano, veniva studiato con curiosità se non con timore, come possibile portatore di istanze “antiunitarie” e nazionaliste. Invece, il suo contributo alla stesura della bozza di Costituzione europea si è rivelato – con sorpresa di molti – ispirato a un convinto europeismo. In questo libro, raccontando la sua esperienza di convenzionale, il vicepresidente del Consiglio esprime con chiarezza e decisione le sue opinioni su molti argomenti di cruciale importanza, fra cui: i rapporti tra la nuova Europa e gli Stati Uniti, visti nel segno di un nuovo “multilateralismo cooperativo”; il significato e la portata del recente allargamento ai paesi dell’Est; le relazioni fra UE e NATO; la necessità che l’UE giunga presto a parlare con una voce unica in politica estera e di difesa; il rapporto fra il nazionalismo tradizionalmente attribuito alla destra italiana e l’impegno comunitario del suo attuale leader; la dibattuta questione del riconoscimento costituzionale delle radici cristiane dell’Europa; la regolazione dell’immigrazione a livello nazionale e comunitario. Completano il libro una prefazione di Giuliano Amato – che mette in evidenza le impreviste e significative sintonie fra i convenzionali italiani – e una postfazione del curatore e intervistatore Carlo Fusi, che illumina gli aspetti principali del futuro assetto istituzionale dell’Unione.

L’EUROPA CHE VERRÀ – RECENSIONI

 

Giuliano Amato, CORRIERE DELLA SERA
– 06/11/2003

 

L’Italia che verrà secondo Fini l’europeista

 

Anticipiamo un brano della prefazione di Giuliano Amato al libro-intervista di Gianfranco Fini “L’Europa che verrà”, in uscita domani dall’editore Fazi (pagine 144, euro 13). Il libro, curato dal giornalista politico-parlamentare Carlo Fusi, viene presentato oggi a Montecitorio (sala della Lupa, ore 17). All’incontro, coordinato da Bruno Vespa, intervengono Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Carlo Fusi. Nel volume il vicepresidente del Consiglio racconta la sua esperienza di rappresentante del governo all’interno della Convenzione Europea esprimendo anche le sue opinioni su alcuni temi chiave come i rapporti tra la nuova Europa e gli Stati Uniti, il significato del recente allargamento ai Paesi dell’Est, le relazioni tra Ue e Nato, il rapporto tra il nazionalismo tradizionalmente attribuito alla destra italiana e l’impegno comunitario, la regolazione dell’immigrazione a livello nazionale ed europeo.

Diversamente dalla vecchia guardia del suo partito, Gianfranco Fini è troppo giovane per aver vissuto il fascismo e quindi per portarne una qualunque responsabilità diretta. È certo però che, avendo militato nel Movimento Sociale e avendo assunto in esso posizioni di vertice, egli ha condiviso valori, giudizi e prospettive che al fascismo innegabilmente si legavano. Perché lo ricordo? Perché solo ricordandolo si può apprezzare in tutta la sua portata il cammino che Fini è venuto facendo e del quale la sua esperienza alla Convenzione Europea è la (non unica) testimonianza. Di sicuro non ne ha fatto di meno di coloro che alle responsabilità democratiche sono giunti, venendo – come fu detto – da lontano; e forse ne ha fatto di più di alcuni dei suoi attuali alleati che, venendo invece da troppo vicino, dimostrano assai meno di lui sensibilità e comprensione per la storia e per i suoi delicati processi di interazione con la politica corrente.
In questo libro-intervista Carlo Fusi non nasconde il dubbio che, nell’accelerare il passo, Fini si sia fatto guidare da ragioni di pur sano opportunismo: concorrere alla Costituzione europea – dice Fusi – è certo un modo per legittimarsi, addirittura per vendicarsi dell’esclusione della sua originaria parte politica dall’arco costituzionale interno. Ma se anche fosse così – e devo dire onestamente che non basta l’opportunismo a spiegare gli accenti di Fini sull’Europa e soprattutto le sue prese di posizione sul campo – conta comunque in politica ciò che si semina e da cui si è poi vincolati. E Fini da mesi sta seminando idee e indirizzi che lo collocano ormai nel mainstream dell’europeismo italiano.
C’è anzi di più per il lettore di queste pagine, e sono proprio le osservazioni che aprono il libro, sulla differenza fra nazionalismo e valorizzazione dell’identità nazionale. Cogliendo nel primo una inammissibile presunzione di superiorità e nella seconda invece il legittimo senso di appartenenza a una comunità nazionale, cosicché “l’identità nazionale è un valore, il nazionalismo è un disvalore”, Fini fa suoi concetti e distinzioni che sono propri della migliore cultura democratica, a partire da Norberto Bobbio. In questo contesto, caso mai, Fini potrebbe riflettere sulla sua perdurante simpatia per l’Europa delle patrie a suo tempo propugnata dal generale e presidente de Gaulle; un’Europa che è a dir poco a cavallo fra le due nozioni e che, storicamente, si è sempre rivelata (e in parte si sta ancora rivelando) un ostacolo a quel comune impegno europeo in politica estera per il quale lo stesso Fini si sta efficacemente spendendo.
Il grosso del libro è dedicato alla Convenzione Europea, a ciò che essa è stata, al ruolo che hanno svolto in essa gli italiani, ai risultati infine del suo lavoro. E su ciascuno dei tre punti posso solo convalidare ciò che dice l’intervistato (a parte gli apprezzamenti che esprime su di me, che certo non tocca a me convalidare). Fini coglie bene i vantaggi e i benefici del “metodo” della Convenzione, tanto più evidenti oggi, quando chiunque li può confrontare con il lavoro della Conferenza Intergovernativa. Il metodo della segretezza, che ha sempre caratterizzato e continua a caratterizzare le Conferenze Intergovernative (salvo le notizie non verificabili che sapientemente o inavvertitamente si fanno filtrare), ha come argomento principale a sua difesa la maggiore facilità che esso consentirebbe nel raggiungere compromessi difficili: parlando sotto gli occhi del pubblico – si osserva – i capi di Stato e di governo sarebbero indotti a dire solo ciò che più aggrada alle rispettive opinioni pubbliche e sarebbero perciò meno aperti all’intesa in caso di dissidio. Ho più volte difeso io stesso questo argomento, ma anche se continuo a pensare che in qualche caso la confidenzialità serva, devo dire che il confronto con la Convenzione mi ha fatto ricredere. Mi ha fatto ricredere per la semplicissima ragione che nel dialogo aperto e trasparente della Convenzione – dialogo pubblico fra rappresentanti dei governi, della Commissione, dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo – è in concreto accaduto che chiunque dicesse un no si trovava costretto a motivarlo e se i suoi argomenti non risultavano persuasivi diventava inevitabile, sotto gli occhi di tutti, accettare la posizione altrui. È stato anche per questo che la Convenzione ha potuto fare dei passi innanzi (dall’abolizione dei cosiddetti pilastri alla semplificazione e gerarchia degli atti giuridici) che in precedenti Conferenze erano risultati impossibili. Per converso, non appena i governi o i loro rappresentanti si trovano da soli (da soli nel senso che non ci sono rappresentanti dei Parlamenti e non c’è né stampa né pubblico) fra di loro emerge quello che io ho scherzosamente chiamato il “niet sovrano”: se uno dice no, il no non si discute, è no punto e basta, perché chi lo pronuncia è il rappresentante di un ente sovrano e quel che conta è ciò che vuole, non perché lo vuole. Chiunque, in queste settimane, è in grado di apprezzare la differenza e di trarne le conclusioni che crede.
Anche sul ruolo degli italiani Fini ha ragione nel constatare che, al di là delle differenze che possono esserci state su questo o quel punto, eravamo tutti legati dalla matrice europeista comune, in realtà, alla quasi totalità dei nostri concittadini, con il risultato che alla fine siamo stati percepiti come un’autentica squadra. Ed è stato, in questo senso, un vero e proprio crescendo: un crescendo di Fini, che aveva iniziato portando con sé e illustrando emendamenti talora espressivi delle punte più euroscettiche della sua maggioranza, che aveva proseguito portandoseli dietro ma non illustrandoli più e che aveva po concluso dicendo quello che aveva dentro e facendosi applaudire con calore, quando aveva invitato il Presidio ad avere più coraggio nel superare l’unanimità in politica estera; un crescendo dei nostri parlamentari, nazionali ed europei, con Dini in testa, che nella fase finale dei lavori hanno tutti spinto per la medesima soluzione di punti controversi, non sempre confortati dal successo, ma meritori nella chiarezza degli indirizzi espressi, si trattasse di ridurre le eccezioni al potere legislativo del Parlamento europeo o di disegnare con più coraggio il futuro della presidenza dell’Unione; un crescendo infine dello stesso supplente di Fini, il leghista Speroni, che aveva iniziato mettendo in dubbio l’utilità per il futuro della Commissione Europea e che poi è meglio entrato nel clima della Convenzione, ponendo questioni sempre pertinenti e fondate (come quella sulla necessità di mettersi d’accordo su chi riteniamo incluso nella popolazione di ciascun Paese – se anche i cittadini all’estero e gli immigrati residenti – una volta che la popolazione diventa il criterio su cui si pesa il voto in Consiglio di ciascuno Stato).
L’ultimo tema del libro che mi piace sottolineare è l’architettura istituzionale su cui si è raggiunto l’accordo finale. Il lettore troverà, in tutta la loro sostanza, i problemi che abbiamo dovuto affrontare, i pregi e i limiti delle nostre soluzioni, ma anche il futuro che esse potrebbero aprire: e quindi i santuari dell’unanimità, che investono materie diverse in Paesi diversi; le sensibilità dei nuovi Paesi membri, per i quali sembra al momento impensabile essere in Europa senza avere a Bruxelles un commissario; il difficile equilibrio fra eguaglianza degli Stati ed eguaglianza dei cittadini; il difficile equilibrio fra Commissione e Consiglio in una fase in cui il Consiglio sembrava essere il vero malato d’Europa e lo si doveva dunque rafforzare senza però indebolire la Commissione; la necessità di andare oltre quello che era possibile fare oggi, sino a prefigurare, per il domani, un presidente unico dell’Unione, che superi il necessitato dualismo attuale fra presidente del Consiglio e presidente della Commissione (si noti: il più importante fra i temi su cui si è registrata quella finale unanimità italiana di cui prima parlavo).
Insomma, si capisce da queste mie pagine che c’è stata, e quindi c’è, una rilevante sintonia tra Fini e me sui temi europei e si capisce inoltre che io ne sono contento. È così: non soltanto per la qualità dei rapporti personali che ciò ha consentito di sviluppare, ma anche per ragioni piuù generali, che investono le prospettive della tribolata vicenda politica del nostro Paese. Fini e io apparteniamo alle due contrapposte coalizioni di un sistema bipolare nel quale vecchi e nuovi solchi contribuiscono a rendere ardua, con la legittimazione reciproca, quella consapevole accettazione di valori e di principi comuni che è una premessa essenziale perché un tale sistema dia non il peggio, ma il meglio di sé. È dunque ragione di speranza che su temi cruciali come quello dell’Europa, che deve appartenere a quel tessuto comune, vi sia proprio con lui un’intesa di fondo. Se avrà con sé il suo partito, se rafforzerà grazie a questo l’insieme delle componenti del centrodestra che la pensano allo stesso modo, ne uscirà un confronto politico meno gladiatorio, più utile al Paese e più utile allo stesso centrosinistra, dentro il quale chi si ferma alle pregiudiziali apparirà sempre più indietro, mentre sempre più essenziale apparirà il pungolo riformista. Le differenze e le divergenze resteranno, ma potranno essere di qualità tale che l’Italia, anziché esserne avvelenata e alla fin fine paralizzata, potrà trarne tutti i vantaggi che ci aspettiamo da una sana concorrenza politica.
Lo so, tutto questo può sembrare oggi sfrenatamente ottimista. Ma io, non diversamente da Fini, amo guardare lontano, sulla premessa che nulla del presente è eterno e che il futuro è anche quello che noi sappiamo preparare. E lontano c’è, non come certezza, ma come possibilità, questo auspicabile futuro.

 

Luca Telese, IL GIORNALE
– 06/11/2003

 

Fini: non voglio poltrone ma una verifica

 

Dopo il voto agli immigrati un altro strappo, che non potrà non suscitare dibattito: la condanna esplicita del “nazionalismo”, come “disvalore”, “degenerazione”, politica che può provocare “espansionismo, presunzione, senso di superiorità”. Approfitta del libro scritto a quattro mani con l’editorialista de Il Messaggero Carlo Fusi, Gianfranco Fini L’Europa che verrà per ridefinire ulteriormente il profilo identitario di Alleanza Nazionale. E per cesellare una affermazione che darà alla base e al gruppo dirigente del partito, nuovi spunti di discussione, con una condanna inequivocabile. Spiega il leader di An: “La distinzione è chiara: il nazionalismo è tendenzialmente egoista, il patriottismo presuppone il reciproco rispetto, nega che in quanto italiano, francese o tedesco, un popolo sia in qualche modo superiore o migliore rispetto a un altro”. Poi, ancora più netto: “Avere coscienza della propria identità ed esserne tutori – osserva Fini – significa innanzitutto rispettare le identità altrui e quindi, ovviamente, rigettare ogni politica xenofoba, discriminatoria e razzista”.
Insomma, inquadrata nel contesto del suo libro sull’edificazione comune europea, la nuova riflessione di Fini sul nazionalismo in qualche modo spiega e completa la svolta programmatica del presidente di An sul voto agli immigrati, che aveva suscitato tanto scandalo il mese scorso. Il patriottismo, spiega Fini, è un valore. Segna l’ennesima discontinuità con il patrimonio ideologico del Ventennio. Il nazionalismo, spiega Fini, è un disvalore, il punto di origine dell’intolleranza etnica e del razzismo. La destra moderna rifiuta questo principio, quella arretrata e intollerante ne fa la propria bandiera. Ecco il passaggio testuale: “Avere coscienza della propria identità ed esserne tutori significa innanzitutto rispettare le identità altrui e quindi, ovviamente, rigettare ogni politica xenofoba, discriminatoria e razzista. Questa bussola – spiega Fini – consente di capire ciò che accade in quei Paesi europei dove una certa destra è ascesa agli onori delle cronache con una forte impennata elettorale: penso al Belgio e all’Olanda o anche ad alcune posizioni haideriane”. L’analisi del presidente di An è impietosa: “Che cosa accade a queste destre? Che partendo dall’identità nazionale fortemente sottolineata si dà poi corso ad una politica che spesso non è rispettosa dell’altrui identità, ma al contrario la nega e quindi, in qualche modo, finisce per essere, soprattutto sul tema dell’immigrazione, se non razzista, certamente xenofoba e intollerante”. Fini spiega il percorso che lo ha portato all’ultima revisione: “Il nazionalismo è una politica che partendo da una più o meno reale identità nazionale presuppone, nelle sue fasi storiche, espansionismo, e può determinare imperialismo, presunzione e superiorità. Quindi non c’è dubbio che il nazionalismo è la degenerazione di un valore: quello dell’identità nazionale, in quanto senso di appartenenza a una comunità. L’identità nazionale è un valore – conclude Fini – il nazionalismo è un disvalore”. Non meno interessante il capitolo sui limiti del mercato, in cui il presidente di An apre la strada al pensiero “no global” di destra spiegando: “Dobbiamo ragionare sul cosiddetto antiglobalismo, un fenomeno che per molti aspetti è davvero trasversale in termini politici e andrebbe esaminato senza le solite strumentalizzazioni di parte”. E poi: “Il no global di destra esiste se è basato sulla difesa dell’identità di un popolo. Ma, al tempo stesso, ha ben chiaro che la globalizzazione non è un male”. Sui no global di sinistra, invece, il presidente di An ricorre al sarcasmo: “Un caso paradossale: Manu Chao. È diventato il cantante mito dei no global, ha venduto milioni di dischi. Incisi però dalla Virgin che è una grande multinazionale americana della musica. Bella contraddizione, no?”.

L’Europa che verrà - RASSEGNA STAMPA

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