John Gray
Al Qaeda e il significato della modernità
Traduzione di Lorenzo Greco
Postfazione di Sebastiano Maffettone
In questo breve ma intenso libro John Gray attacca una delle convinzioni oggi più diffuse: quella secondo cui, con il progredire della conoscenza, il genere umano sarebbe destinato a diventare inevitabilmente “moderno”, vale a dire sempre più ragionevole, pacifico e uniforme. Dopo gli attentati alle Torri Gemelle, ciò si è rivelato nient’altro che un’illusione: con l’11 settembre la rassicurante fede nell’idea che la modernità sia una condizione unica, corrispondente alla condivisione da parte di tutto il mondo dei nostri valori – i valori dell’illuminismo – è inevitabilmente venuta meno. Lungi dall’essere il residuo di un passato medievale ormai superato, Al Qaeda è un prodotto degli stessi ideali, moderni e occidentali, che essa pretende di abbattere. Gray analizza, con precisione e allo stesso tempo con pungente ironia, le origini e gli sviluppi del “mito dominante dell’Occidente” a partire dal positivismo, la corrente di pensiero che ha fatto della scienza l’oggetto di una vera e propria fede, ponendola a fondamento della “religione dell’umanità”. Egli mostra come gli ideali positivisti abbiano avuto un influsso fondamentale su tutti i progetti che, in forme diverse, sono stati elaborati nel tentativo di rimodellare la condizione umana per mezzo della tecnologia e della politica: tanto le utopie totalitarie marxista e nazista nel ventesimo secolo, quanto le teorizzazioni dei profeti del libero mercato globale oggi. Attraverso l’esame dettagliato delle conseguenze geopolitiche, militari, economiche e sociali della globalizzazione, Gray considera quindi il fenomeno dell’esplosione dell’Islam radicale e gli errori commessi dagli Stati Uniti nel loro ruolo di nuova potenza imperiale.
«Il libro di John Gray è la più lucida analisi della crisi che stiamo vivendo che io abbia mai letto. Gray sostiene che l’idea che si possano creare mondi nuovi per mezzo del terrore e dell’omicidio di massa è un concetto proprio della modernità. Al Qaeda dunque deve molto meno a una teologia medievale che alle ideologie nazista, sovietica e maoista e alla loro ossessione per la salvezza ad ogni costo».
Ian McEwan
«Al Qaeda e il significato della modernità è per me il libro più importante dell’anno».
Susan Sontag, «Times Literary Supplement»
– 23/10/2008
Washington non è più il centro del mondo
– 11/07/2004
Islam e modernità
Il professor John Gray, docente di filosofia alla prestigiosa London School of Economics, uno di quelli che possono affermare: “Io ve l’aveva detto”. Il professore l’aveva detto, nelle sue lezioni e nei suoi interventi pubblici che la guerra in Iraq sarebbe finita male, che Al Qaeda ne sarebbe uscita rafforzata anziché indebolita, che l’America avrebbe subito una sconfitta peggiore del Vietnam. Vedere ora che il suo pessimismo è stato confermato dai fatti, non lo consola, tranne che per un motivo: “Le conseguenze del disastro iracheno saranno catastrofiche per la superpotenza americana, e per la situazione internazionale, per molti anni a venire. L’unico vantaggio è che molto probabilmente l’Iraq segna la fine dell’imperialismo liberale. Un fallimento di questa scala dovrebbe avere dimostrato una volta per tutte quanto sia folle lanciare una guerra in nome di una presunta crociata liberale nell’illusione di esportare ai quattro angoli della terra l’idea occidentale di modernità e democrazia”.
E’ questo il tema centrale di Al Qaeda e cosa significa essere moderni (pubblicato in questi giorni anche in Italia, da Fazi Editore), sua ultima opera. Un libro che piacerà ai no global e ai partigiani dell’antiamericanismo a oltranza, perché condanna la globalizzazione, respinge l’idea che la democrazia capitalista sia il migliore dei sistemi possibile, rifiuta il presupposto che certi valori della nostra società occidentale possano essere universali. Piacerà meno a chi vorrebbe trovare una soluzione, sia pure diversa da quella di Bush, la mancanza di libertà e diritti umani del mondo arabo: Gray non offre risposte in proposito, limitandosi a sostenere che non si può fare di tutta l’erba un fascio, poiché certi paesi arabi, per esempio l’Egitto, non sono poi così antidemocratici. Ciononostante, il suo pamphlet è uno stimolante contributo al dibattito sulla guerra in Iraq, alla discussione “sul potere e la vanagloria”, come ha scritto un giornale inglese parafrasando Graham Greene, in una recensione del libro.
Lei scrive che Al Qaeda è “il sintomo della malattia di cui pretende di essere la cura”. Intende dire che la malattia è la modernizzazione?
“Intendo che la modernizzazione non è infallibile, anch’essa può creare problemi, mostruosità, malanni. Quello a cui mi riferisco nello specifico è l’ambizione di produrre una perfetta condizione umana, valida ovunque per tutti gli abitanti della terra. E un altro aspetto morboso, malato, della modernizzazione, è che nel suo nome, da secoli, abbiamo assistito a un patologico uso della violenza con la presunzione di migliorare la società. Penso al terrore di Robespierre, al bolscevismo in Russia, al nazismo, a Mao e al Pot Pot. L’idea che, usando la violenza, la condizione umana possa progredire enormemente”.
Qualche volta però la violenza è necessaria: o il mondo avrebbe dovuto arrendersi a Hitler?
“Non sono un pacifista. La violenza, la forza, la guerra sono un mezzo legittimo quando servono come ultimo, disperato tentativo di fermare il Male, e la seconda guerra mondiale è un esempio appropriato. Ma ricorrere alla guerra per trasformare tutte le società a immagine e somiglianza di quella americana, per esportare lo stesso modello di democrazia liberale, mi sembra una sciocchezza colossale”.
Torniamo alla modernizzazione: vede alternative?
“Non esiste una sola forma di modernità. Ce ne sono varie, alcune benigne, altre nefaste. Prendiamo la Russia. In era sovietica, la modernizzazione di Stalin ha portato, come si dice, quel paese dall’aratro all’atomica: ma al prezzo di almeno venti milioni di morti e di spietate repressioni. Oppure prendiamo la Russia odierna: in apparenza ha adottato il modello di democrazia liberale occidentale, ma molti specialisti ritengono che Putin stia sviluppando l’esatto contrario della democrazia. O la Cina: ha scelto l’economia di mercato, si sta liberalizzando. E’ un bene? Certo. Ma ancora non sappiamo se la modernizzazione cinese avrà un risultato davvero positivo per la maggioranza dei cinesi”.
La moderna democrazia di stampo occidentale è cresciuta in Giappone, in India, In Brasile. Perché non dovrebbe essere possibile farla crescere anche in Russia, in Cina e in Medio Oriente?
“Non escludo che sia possibile. Ritengo tuttavia che non dovrebbero essere gli americani o gli europei a deciderlo, ma eventualmente i russi, i cinesi, gli arabi. Si può incoraggiarli, senza dubbio. Ma non si può trasformare dalla mattina alla sera, o da un anno all’altro, un’area del mondo, diciamo il Medio Oriente con la guerra. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai”.
Come giudica la nota teoria del politologo americano Samuel Huntington sullo “scontro tra civiltà”? Il conflitto tra la civiltà giudeo-cristiana e quella islamica ha sostituito il conflitto est-ovest tra capitalismo e comunismo?
“La teoria di Huntington non ha riscontri nella Storia. Le più terribili guerre del passato, basta una scorsa al ventesimo secolo per accorgersene, sono state guerre all’interno di una civiltà, non fra una civiltà e l’altra. Anche il conflitto est-ovest tra capitalismo e comunismo era in sostanza contenuto all’interno di una medesima civiltà. E se guardiamo al mondo islamico, è impossibile generalizzare. Al suo interno ci sono democrazie e teocrazia, diversi gradi di autoritarismo, tendenze contrapposte. Non si può dichiarare guerra a una civiltà così composita”.
Eppure il mondo arabo è la regione in cui il progresso e la democrazia stentano a svilupparsi più che in ogni altra.
“Non sono d’accordo. Non accetto simili generalizzazioni. Il mondo arabo è una realtà troppo complessa per etichettarla con una sola definizione. L’Egitto per fare un esempio, non è un paese antidemocratico”.
Come renderlo, allora, più democratico?
“Non ho la risposta esatta, ma credo di sapere quale sia quella sbagliata: non certo con la guerra, non con un’invasione militare”.
La globalizzazione ha avuto effetti positivi per molti paesi.
“E negativi per altri, o per certe fasce della popolazione all’interno degli stessi paesi che ne hanno in parte beneficiato. A me sembra che l’unico vero aspetto globale del mondo d’oggi sia la capacità di far comunicare istantaneamente tutti con tutti: un sasso gettato in un punto della terra crea immediatamente ondate in ogni altro punto. Per il resto, non mi pare che il mondo sia complessivamente più pacifico, stabile, civilizzato, grazie alla globalizzazione dell’economia”.
Nel suo libro sostiene che Al Qaeda è una reazione alla modernizzazione.
“La modernizzazione ha reso alcune società più vulnerabili. E ha prodotto una reazione contraria: il fanatismo anti-occidentale, l’integralismo religioso. In passato c’erano tanti terrorismi nazionali. Oggi, paradossalmente, Al Qaeda è il primo terrorismo globale”.
L’11 settembre 2001 al Qaeda. ha attaccato l’America. Come doveva reagire l’America? Invertendo la globalizzazione e le lancette della storia?
“Poteva reagire in tanti modi. Ma ha reagito affidandosi a un pensiero integralista che è l’altra faccia di Al Qaeda: l’ideologia dei neoconservatori che stanno attorno a George W. Bush. Il risultato sarà una sconfitta peggiore del Vietnam, perché il Vietnam non aveva petrolio ma l’Iraq ce l’ha, perché il Vietnam non produsse il temuto effetto ‘domino’ mentre l’Iraq potrebbe provocare un terremoto in tutto il Medio Oriente. Agli occhi degli arabi, le immagini delle torture dei prigionieri iracheni dimostrano la depravazione dell’America, lasciando una macchia che non sarà facile cancellare sulla coscienza dell’Occidente. Ma ai nostri occhi dovrebbero essere la prova finale di quanto sia folle e insensato scatenare una crociata morale per cambiare il mondo. Il mondo
non si cambia, e certamente non si fa progredire verso un futuro migliore, con la guerra”.
– 30/05/2004
Altroché Medioevo, Al Qaeda è figlia della modernità
ROMA – Al Qaeda non è, come si pensa comunemente, un regresso al Medioevo, ma un prodotto degli stessi ideali, moderni e occidentali, un effetto collaterale della globalizzazione, che il terrorismo islamico vuole abbattere.
Questa la tesi di Al Qaeda e il significato della modernità (Fazi, pp. 155, euro 17,00) di John Gray, fra i maggiori pensatori inglesi viventi, docente alla London School of Economics. La concezione che Al Qaeda sia una reliquia del passato è, secondo Gray, semplicemente sbagliata. “Come il comunismo e il nazismo – sostiene l’autore – l’Islam radicale è moderno. Sebbene pretenda di essere antioccidentale, è formato tanto dall’ideologia occidentale quanto dalle tradizioni islamiche. Allo stesso modo dei marxisti e dei neoliberisti, anche gli islamici radicali concepiscono la storia come il preludio a un mondo nuovo. Tutti sono convinti di poter riformare la condizione umana. Se esiste un solo mito moderno è questo”.
Insomma, secondo Gray, “il mondo nuovo immaginato da Al Qaeda non è diverso dalle fantasie elaborate da Marx e Bakunin, da Lenin e Mao, e dagli evangelizzatori neoliberisti che di recente hanno annunciato la fine della storia. Come questi moderni movimenti occidentali, Al Qaeda si arenerà sui persistenti bisogni umani”.
L’attacco dell’11 settembre è il punto ideale da dove Gray parte per un excursus sulla globalizzazione alla luce della situazione spirituale del nostro tempo: “L’ideologia di Al Qaeda – sostiene Gray – è un tipico ibrido moderno. Sebbene affermino dì essere i rappresentanti di una tradizione indigena, i suoi fondatori hanno reinterpretato l’Islam alla luce del pensiero occidentale contemporaneo”.
Dal punto di vista storico le origini di Al Qaeda (“1a base”) sono nella guerra fredda. Il movimento terrorista si è ingrandito nei tardi anni Ottanta durante la lotta contro l’invasione sovietica in Afghanistan, lotta organizzata da Stati Uniti, Arabia Saudita e governi europei. Insomma, una volta di più, è stato l’occidente, non solo ideologicamente, ma anche storicamente, a nutrire Al Qaeda.
Gray, analizzando le origini e gli sviluppi del “mito dominante dell’Occidente”, mostra come gli ideali positivisti abbiano avuto un influsso fondamentale su tutti i progetti che, in forme diverse, sono stati elaborati nel tentativo di rimodellare la condizione umana per mezzo della tecnologia e della politica, tanto le utopie totalitarie marxista e nazista nel XX Secolo, quanto le teorizzazioni dei profeti del libero mercato globale oggi.
Al Qaeda è, insomma. un altro figlio malato del positivismo, nutrito dagli errori commessi dagli Stati Uniti nel suo ruolo di nuova potenza imperiale.
– 30/05/2004
Al Qaida? è figlia dell’ Occidente
Al Qaida non è, come si pensa comunemente, un regresso al Medioevo, ma anzi è un prodotto degli stessi ideali, moderni e occidentali, un effetto collaterale della globalizzazione, che il terrotismo islamico vuole abbattere. Queta la tesi di “Al Qaida e il significato della modernità” (Fazi, pp.155, euro17,00) di Jhon Gray, fra i maggiori pensatori inglesi vivemti, docente alla London School of Economics. La concezione che Al Qaida sia una reliqiuia del passato è, secondo Gray, semplicemente sbagliata. Come il comunismo e il nazismo sostiene l’autore, fra l’altro, di “Il mito del capitalismo globale e il suo fallimento”. L’Islam radicale è moderno. Sebbene pretenda di essere antioccidentale, è formato tanto dall’ideologia occidentale quanto dalle tradizioni islamiche. Allo stesso modo dei marxisti e dei neoliberisti, anche gli islamici radicali concepiscono la storia come il preludio a un mondo nuovo. Tutti sono convinti di poter riformare la condizione umana. Se esiste un solo mito moderno è questo. Insomma, secondo Gray, il mondo nuovo immaginato da Al Qaida non è diverso dalle fantasie elaborate da Marx e Bakunin, da Lenin e Mao, e dagli evangelizzatori neoliberisti che di recente hanno annunciato la fine della storia. Come questi moderni movimenti occidentali, Al Qaida si arenerà sui persistenti bisogni umani. L’attacco dell’11 settembre è il punto ideale da dove Gray parte per un excursus sulla globalizzazione alla luce della situazione spirituale del nostro tempo. L’ideologia di Al Qaida sostiene Gray è un tipico ibrido moderno. Sebbene affermino di essere i rappresentanti di una tradizione indigena., i suoi fondadori hanno reinterpretato l’islam alla luce del pensiero occidentale contemporaneo. Dal punto di vista storico le origini di Al Qaida (la base) sono nella guerra fredda. IL movimento terrorista si è ingrandito nei tardi anni Ottanta durante la lotta contro l’invasione sovietica in Afghanistan, lotta organizzata da Stati Uniti, Arabia Saudita e governi europei. Insomma, una volta di più, è stato l’occidente, non soloideologicamente, ma anche storicamente, a nutrire Al Qaida. Gray, analizzando le origini e gli sviluppi del mito dominante dell’occidente, mostra come gli ideali positivisti abbiano avuto un influsso fondamentale su tutti i progetti che, in forme diverse, sono stati elaborati nel tentativo di rimodellare la condizione umana per mezzo della tecnologia e della politica: tanto le utopie totalitarie marxista e nazista nel ventesimo secolo, quanto le teorizzazioni dei profeti del libero mercato globale oggi. Al Qaida è insomma un altro figlio malato del positivismo, nutrito dagli errori commessi dagli Stati Uniti nel suo ruolo di nuova potenza imperiale.
– 21/07/2004
Noi e Al Qaeda, la stessa malattia
LE TESI DEL FILOSOFO LIBERALE INGLESE JOHN GRAY
SULLE RAGIONI DEL CONFLITTO CON L’ISLAM RADICALE
Noi e Al Qaeda, la stessa malattia
Uniti dalla fiducia, tutta occidentale, nel potere della tecnica
Per l’Islam radicale, vale ciò che Karl Kraus disse della psicoanalisi: esso non è nient’altro che «un sintomo della malattia di cui pretende di essere la cura». Nel suo ultimo libro (Al Qaeda e il significato della modernità, trad. it. di L. Greco, postfazione di S. Maffettone, Fazi, pp. 155, 17 euro) John Gray – filosofo liberale, allievo di Isaiah Berlin – prende posizione nel vasto dibattito sulle ragioni del conflitto che ha spento l’illusione occidentale di un mondo destinato ad avviarsi verso un’epoca di pace e di democrazia. La malattia a cui Gray fa riferimento ha un nome ben preciso: tecnica. Un vincolo indissolubile lega l’Occidente laico e secolarizzato, figlio dello sviluppo scientifico, alla violenza e al terrore dei fondamentalisti islamici, che si servono della tecnica come strumento di lotta, come forma organizzativa, come categoria politica.
La tecnica come arma. Tecnica e globalizzazione hanno prodotto un cambiamento nelle modalità del conflitto. La tecnica ha amplificato il potere di distruzione delle armi e, soprattutto, ha reso tale potere alla portata di tutti. La globalizzazione ha indebolito lo Stato. Il risultato è la fine del monopolio statale della violenza: il terrorismo è una guerra di tipo nuovo, non prevista da Clausewitz e Weber. Una guerra che viene combattuta utilizzando la tecnologia anche sotto il profilo simbolico: la scelta di colpire gli Stati Uniti nel cuore del loro impero economico e finanziario, con gli attentati alle Torri Gemelle, è la dimostrazione del fatto che Al Qaeda ha compreso come le guerre del XXI secolo siano diventate scontri spettacolari, in cui è centrale, dal punto di vista strategico, lo sfruttamento delle immagini diffuse dai media.
La tecnica come forma organizzativa. Al Qaeda ricava buona parte del proprio finanziamento dal traffico di droghe illegali e dall’economia criminale, utilizzando gli strumenti finanziari, e la conseguente libertà di spostamento dei capitali, messi a disposizione dalla globalizzazione. Di qui la sua struttura organizzativa non centralizzata, ma reticolare, che le conferisce un vero e proprio carattere di «multinazionale globale» e la rende simile «alle strutture a nido d’ape dei cartelli della droga e alle reti diffuse delle corporazione d’affari globali».
La tecnica come categoria politica. «L’ideologia di Al Qaeda è un tipico ibrido moderno, in cui l’Islam viene reinterpretato alla luce del pensiero occidentale contemporaneo». Gray legge il fenomeno terroristico alla luce della categoria di totalitarismo: ciò che rese possibile, nel secondo dopoguerra, la «scandalosa» equiparazione tra nazismo e stalinismo fu l’idea che la specificità dei movimenti totalitari rinviasse a un’identica forma politica, nascosta dietro ideologie talvolta contrapposte. Analogamente, la nota caratteristica del terrorismo islamico non è il fondamentalismo, ma la fiducia, del tutto occidentale, nel potere della tecnica. Per mezzo della tecnologia, il modernismo nazista intendeva assumere il controllo dell’evoluzione, creando un nuovo tipo di essere umano. L’ideale comunista era quello di potenziare lo sviluppo dei mezzi industriali allo scopo di sconfiggere la scarsità di risorse naturali. Anche Al Qaeda sogna un mondo nuovo, privo di potere e di conflitto e, come i movimenti rivoluzionari europei di tardo ‘800, sogna di farlo nascere attraverso atti di terrore. Il totalitarismo è fede nella tecnica. La nozione che permette di tenere assieme fenomeni apparentemente differenti è quella di religione secolare, resa famosa da Raymond Aron. L’origine delle religioni secolari è la fiducia nella capacità della conoscenza scientifica di promuovere l’emancipazione dell’uomo, una fiducia di matrice illuministica, ma che raggiunge la propria espressione più elevata nell’800, con il positivismo. I movimenti totalitari sono religioni secolari perché si fondano sull’idea di poter riformare in maniera radicale, per mezzo di una tecnica politica, la condizione umana. L’ideale a cui si ispirano è una secolarizzazione dell’antica fede cristiana in un Dio di salvezza: essi promettono la redenzione del genere umano, una redenzione che va realizzata con i mezzi della politica e che rende legittimi l’uso della violenza e il terrore.
Le conclusioni che Gray trae dalla parentela di tecnica e totalitarismo sono simili a quelle di altri pensatori liberali (si pensi al recente Occidentalism di I. Buruma e A. Margalit): «la violenza millenaristica dell’islam radicale non è il prodotto di nessuno “scontro delle civiltà”». Al Qaeda non è il sintomo di un regresso al Medioevo, ma un’espressione della modernità. Allo schema reso celebre da Huntington va contrapposta l’idea di un dissidio che mina dall’interno le radici della cultura occidentale. Il vero conflitto è liberalismo contro totalitarismo e non uno scontro di civiltà: Occidente contro Occidente, secondo la felice sintesi di André Glucksmann.
La posizione di Gray non va però interpretata alla stregua di un rifiuto della modernizzazione: ciò che il filosofo inglese intende mettere in discussione non è lo sviluppo tecnologico e scientifico di per sé, quanto una falsa concezione della tecnica. «Per Saint-Simon e Comte», leggiamo, «tecnologia significava ferrovie e canali. Per Lenin significava elettricità. Il messaggio è lo stesso. La tecnologia – l’applicazione pratica della conoscenza scientifica – produce una convergenza nei valori. Questo è il mito moderno centrale, che i positivisti hanno propagato e che tutti oggi accettano come un fatto». Il problema vero è la fede nella tecnica: in altre parole, l’idea che lo sviluppo scientifico e tecnologico produca un’irresistibile convergenza nei valori. Il vero nemico del liberalismo di Gray è l’Uno, in ogni sua forma. Tutte le religioni secolari si fondano sull’idea che esista un’unica definizione di modernità. Ma essere moderni significa aver compreso che non esiste un solo modo di essere moderni.
L’idea stessa di umanità – quell’umanità che la tecnica dovrebbe liberare – è un mito, «un polveroso residuo della fede religiosa». Il corso della storia non può essere previsto, perché la storia è l’ambito della libertà individuale, la sfera del contingente.
Per il liberale Gray, l’origine è la pluralità. Il grande errore dei positivisti è stato quello di aver pensato lo sviluppo della conoscenza come qualcosa di unitario, di aver ridotto la scienza a un unico sistema di leggi, di averla imprigionata all’interno di un’unità speculativa. La tecnica non è un destino, ma uno strumento che può essere messo al servizio di fini completamente differenti tra loro. Tra le diverse tendenze della conoscenza scientifica, nessuna lavora per promuovere un qualsiasi valore: «in verità ci sono solo esseri umani, che usano la crescente conoscenza fornita dalla scienza per perseguire i loro fini in conflitto». Si comprende, in questo modo, la feroce critica, che percorre da cima a fondo il testo, ai sostenitori della globalizzazione, rei di aver trasformato il libero mercato in una filosofia della storia. Una critica che si fonda su presupposti radicalmente diversi rispetto al sogno universalistico di coloro che – come Rawls, o Habermas – vorrebbero porre un limite alla globalizzazione, regolando, per mezzo della legge, un processo che sembra assumere i contorni dell’inevitabilità e dell’automatismo. Gli uni guardano all’economia, gli altri alla politica, ma entrambi sono vittime di un identico pregiudizio: il mito illuminista di una civiltà universale basata sulla ragione.
Il tema del conflitto e della sua ineluttabilità percorre il libro da cima a fondo: l’Occidente è chiamato a combattere il terrorismo in maniera radicale, attraverso una guerra globale dalle forme inedite, ma con la coscienza che la vittoria non sarà mai definitiva. La preoccupazione principale del filosofo inglese, tuttavia, non è la guerra, ma gli esiti potenzialmente totalitari della pretesa di eliminare il conflitto dal corso delle vicende umane: «Il totalitarismo si realizza ogni volta che si è perseguito coerentemente lo scopo di un mondo senza conflitto o potere». Gray rifiuta l’idea di una missione universale dell’Occidente: le società occidentali non rappresentano il fine ultimo della storia ed essere liberali significa continuare a difendere strenuamente le proprie convinzioni, pur riconoscendone la validità relativa. Gray termina con una citazione di Euripide, che ci riporta alle origini della cultura occidentale, alla sapienza dei tragici greci: «Il massimo che gli esseri umani possono fare è essere coraggiosi e intraprendenti, e attendersi di ottenere poco».
– 26/05/2004
Il nichilismo e al Qaida, un Gray da leggere anche se piace alla sinistra
„La storia delle idee obbedisce alla legge dell‚ironia, perché le idee hanno delle conseguenze ma raramente sono quelle che i loro autori si aspettano o desiderano, e mai solo quelle‰, scrive John Gray. E capiterà senza dubbio anche al suo ultimo libro „Al Qaida e il significato della modernità‰ (Fazi editore). Statene pur certi, la sinistra antibellica se ne approprierà senza mezzi termini, come da sovraccoperta in cui una sciabolante Susan Sontag lo annuncia come „il libro più importante dell‚anno‰. A beneficio però di chi non lo conoscesse, John Gray è uno studioso liberale britannico di limpido filone berliniano. E di Isaiah Berlin condivide infatti il fondamento interpretativo, la trappola tesa all‚Occidente e al mondo intero dal tristo connubio dei due filoni di pensiero cui per sviluppo si deve il peggior sangue versato a fiumi nel secolo scorso: l‚illuminismo da una parte, col suo mito scientista che lo porta dritto dritto tramite il positivismo al marxismo e al comunismo totalitario; e il romanticismo, che ai Lumi nasce per reazione, nella convinzione che la storia non sia progresso inevitabile per via di scienza ma puro atto determinato dalla volontà del singolo, donde poi il nazionalismo organicista di Herder e Fiche, fino a Nitzsche e al suo negare i fatti per avere solo più interpretazioni, e al neonichilismo heideggeriano per un „ex nihilo omne qua ens fit‰. Si tratta di un solidissimo nucleo di individualismo pragmatico e iperindividualista, fatto apposta per risultare indigesto alla sinistra di ogni filone e generi, sia a quella neocondorcettiana à la Scalari, sia a quella postcomunista in tutte le salse. Perché per tipi come Gray è falso che l‚individuo sia casualmente determinato quando è sempre libero, falso che sia individualmente debole perché talora sa essere forte, e falso che sia potenzialmente onnisciente quando ben guidato visto che resta comunque e sempre largamente ignorante e soggetto all‚errore.
Direte quante chiacchiere, vieni al punto e facci capire che cosa pensa di al Qaida. Ecco, il libro divoratelo perché è una delle più brillanti dimostrazioni di come il terrorismo jihadista sia essenzialmente due cose. Innanzitutto figlio della modernità, in quanto erede per ibridazione e contagio contratto dai suoi ideatori ˆ Sayyd Qutb e Abdullah Azzam maestri di Osama ˆ col mito fondatore del terrorismo nichilista dei vari anarco-individualisti à la Sergej Necaev: il richiamo al califfato, nei proclami di Osama e dei suoi, è imbevuto di qualcosa che il califfato musulmano non è mai stato, una multinazionale globale tesa all‚abolizione „dello‰ e „di ogni‰ Stato, una specie di riedizione dei „ventuno eletti dell‚umanità‰ che quel pazzo del conte Henry de Saint-Simon profetava, una volta che la nuova dottrina positiva fosse diventata nuova chiesa. Poi, il jihadismo figlio di una radicale incapacità di capire l‚America, più che l‚Occidente in quanto tale: e in specie, la religiosità persistente e radicata negli Stati Uniti. La grande povertà spirituale che Sayyd Qutb registra nell‚America degli anni Cinquanta che lo ospita, è trasmessa ai Fratelli Musulmani ma è frutto di un colossale equivoco, perché dei 700 caduti americani in Iraq credeva in Dio il 92 per cento, come capita oggi all‚intero popolo americano. Niente di tale interpretazione può piacere alla sinistra, che si vede additata anzi come la vera radice da cui nasce codesta modernità neonichilista. La sinistra non può che sobbalzare, all‚idea che la propria religione secolare della gnosi scientista sia impregnata in fondo degli stessi presupposti della religione divinizzata del neocaliffato. Tanto che Gray conclude affermando che quella contro il terrorismo jihadista è a tutti gli effetti una „guerra tra due religioni‰, e che per molti versi avvera la fosca profezia saintsimoninana su un promettente futuro in cui Voltaire si sarebbe unito a de Maistre. La parola „guerra‰ dovrebbe bastare da sola a scavare un fossato incolmabile, tra Gray e il partito irenista. Tanto più che l‚ottimo berliniano è convinto che la prospettiva onusiana ˆ progresso uguale niente più conflitti ˆ sia una colossale sciocchezza, affondante le radici nell‚incrollabile illusione del perfettismo umano.
E allora, direte voi, com‚è che invece la sinistra considera Gray uno dei „suoi‰, e non invece uno dei „nostri‰ sinistri sostenitori della necessità di sgominare al Qaida e Stati-canaglia? Perché la sinistra è più abile. A noi non ha mai convinto l‚analisi che Gray ha fatto in questi anni della globalizzazione, come di uno stolido sistema inteso a estendere dovunque nel mondo il modello finanziario americano diretto ad assicurarsi le risorse finanziarie in deficit i consumi interni. Analisi che in quest‚ultimo volumetto puntualmente riaggiorna e ripropone. Ma la sinistra non sottilizza, appunto. Gli basta questo ˆ in fondo non è poco, ma non tocca la „guerra‰ al terrorismo ˆ per reclutare a tutti gli effetti Gray nel campo anti-Bush e anzi anti-States. Dimenticando che i Gray pensano che per il petrolio le guerre si faranno sempre, si limita a celebrarne gli attacchi al „Washington consensus‰ che ispira le azioni del Fondo monetario e della Banca mondiale. Brava la sinistra, e stupidi noi. Ecco perché è un libro da leggere malgrado le abrasioni che comporta a ogni „pensiero unico‰, anche a quello eventuale della propria parte. Ci sarà una ragione, per cui il liberalismo vero nasce da tipi concreti alla Smith e Ferguson, e non da estenuanti accademici dei diritti alla Rawls che alla sinistra piacciono così tanto.
– 30/05/2004
OSAMA E LA SFIDA DEL PETROLIO
Istruzioni per la jihad. “Per operare nelle città servono piccoli gruppi di non più di quattro persone. Gli attivisti devono essere residenti. Gli attivisti devono evitare spie e occhi sospettosi”. Il comunicato inneggiante alla “guerra santa” trasmesso non più tardi di tre giorni fa – è datato infatti 27 maggio – e passato attraverso più siti islamici con sede nella penisola arabica, pare un anticipo inequivocabile dell’attacco scattato ieri. Un attentato rivendicato prontamente dalla sigla Al Qaeda.
Il messaggio risale a quello che appare ormai come l’indiscusso numero uno del network del terrore a Riad, quel Abdulaziz al Muqrin cui si attribuiscono tutti gli assalti più recenti, e sono diversi ormai, nell’area compresa fra Golfo Persico, Mar Rosso e Mare Arabico. Al Muqrin non è infatti altro che la longa manus di Osama bin Laden, in quello che è solo l’ultimo episodio di un feroce braccio di ferro tra il supermiliardario capo di Al Qaeda e il suo paese d’origine.
Nonostante sia nato in Arabia Saudita, il pluriricercato dagli Stati Uniti è da tempo il nemico numero uno anche della casa regnante, che egli considera invece corrotta e filoamericana. Bin Laden vuole colpire in profondità il paese che lo ha privato della cittadinanza.
Per controllare i luoghi santi dell’Islam e appropriarsi delle ingenti riserve petrolifere. E a Palazzo reale trova un terreno fertile, con l’anziano e malato sovrano Fahd circondato da una corte di aspiranti pretendenti né più giovani di lui né apparentemente più decisi nel riformare il regno. Ecco come l’Arabia Saudita è diventata negli ultimi mesi obbiettivo di attacchi multipli, con le autorità locali pronte a ingaggiare comunque una battaglia durissima per sradicare la piovra che fa capo a Osama. Eppure al Muqrin, la strage di Khobar lo dimostra, non appare meno spietato e astuto del suo capo. “Gli attivisti devono imparare dai loro predecessori”, dice ancora il messaggio del 27 scorso, cioè a “non commettere l’errore di informare tutti delle loro operazioni. Solo il leader del gruppo deve sapere cosa si sta organizzando. Tutti gli altri devono avere informazioni soltanto riguardo al loro ruolo”. Una strategia che sembra ricalcare quella fulmineamente portata a termine con il quadruplice attacco aereo dell’11 settembre a New York e Washington.
Obiettivo dichiarato di queste ultime azioni terroriste è il tentativo di rovesciare il regime saudita. Con lo scopo non secondario di allontanare dai paesi musulmani qualsiasi presenza straniera, in particolare quella di cittadini statunitensi. Ripetendo ieri infatti un copione già visto in Somalia e in Iraq, il cadavere di un cittadino americano è stato trascinato per le strade della città e mostrato ad alcuni studenti, che contrariamente alla richiesta dei terroristi, anziché gioire, sarebbero scappati via inorriditi.
Così la nuova Al Qaeda è diventata la protagonista dei continui massacri perpetrati nella penisola. Tra Arabia saudita e la vicina Africa orientale i suoi agenti sarebbero circa 3000, “pronti a tutto” li definisce l’intelligence americana. Le loro puntate fra la Mecca e Riad segnano per l’antiterrorismo Usa la ripresa in pieno stile dell’attività del network, dopo un periodo di latenza cominciato con l’invasione americana dell’Iraq. Il gruppo guidato a distanza da Bin Laden sarebbe anzi pronto a programmare nuovi attentati, che si concentrerebbero preferibilmente su aerei commerciali.
Al Qaeda insomma moltiplica il suo potere e si ammoderna. Forse ha ragione il pensatore inglese John Gray quando dice (“Al Qaeda e il significato della modernita”, Fazi) che il gruppo non è affatto, come siamo abituati a pensare, un regresso al Medioevo. Ma anzi un prodotto degli stessi ideali, moderni, un effetto collaterale della globalizzazione, che il terrorismo islamico vuole abbattere. Arabia saudita compresa.